Opere di

Mauro Bramardi



CAPITOLO PRIMO

E’ una fredda giornata di dicembre, mi sento stanco, qualche giorno fa ho compiuto settanta anni e li dimostro tutti, un poco malfermo sulle gambe, la testa quasi pelata, un colorito verdastro, la mano tremolante, tanto che non riesco più a pisciare senza bagnarmi.
Nonostante tutto non mi dispiace fare delle passeggiate, e non ho mai mancato al mio appuntamento delle sette e trenta. Il rumore della strada copre la voce di Monica, mia moglie, che mi invita a chiudere la finestra.
E’ una donna di circa dieci anni più giovane di me, ancora piacente e giurerei che ha degli spasimanti, non riesco a capire come abbia fatto a mettersi con uno come me, che bello non è mai stato, e nemmeno interessante. Mi sovrasta di una spanna, gambe lunghe, si potrebbe permettere ancora una minigonna, invece di quei pantaloni che la mortificano, il seno e il sedere sembrano non aver subito l’azione del tempo. Qualche piccola ruga sotto gli occhi e il collo leggermente raggrinzito, la riportano sulla terra.
La città ancora dorme, soltanto l’edicola della piazzetta sta aprendo, il vecchio proprietario fa fatica a tirare su la saracinesca che stride in modo pauroso. Chissà cosa spetta a metterci un poco di olio? Un camioncino si è appena fermato, l’autista è sceso, ha scaricato un pacco di giornali, salutando appena e quindi è scomparso inghiottito dalla strada. Il bar centrale, invece, è ancora chiuso, le seggiole sono accatastate l’una sopra l’altra, il signor Antonio ieri sera avrà fatto bisboccia e questa mattina fatica a scendere.
Qualcuno guarda sconsolato l’insegna spenta, per oggi dovrà rinunciare al caffè.
Mi affaccio alla finestra proprio sotto di me si è fermato un ragazzo che aspetta la morosa, mi viene voglia di sputargli sulla testa per vedere la sua reazione, per fortuna Monica è arrivata nella stanza e senza dirmi niente ha chiuso la finestra, quasi ad evitarmi quell’insano gesto. Da qualche giorno la città si è vestita a festa, i negozi si sono riempiti di roba, per le strade è tutto uno scintillio di luci e la gente rimane in giro fino all’ora di chiusura dei negozi.
Oggi il ragazzino del semaforo non c’è, passa lì le sue giornate parlando alle auto che si fermano per il rosso. Deve avere dieci anni, capelli ricci, un colorito scuro, due grossi occhi verdi, un giubbotto nero, calzoni di velluto, di due taglie più grossi, forse del fratello maggiore.
Ha l’aria di uno spaventapasseri, ma quello spaventato è solo lui, la vergogna negli occhi, la mano tremolante che quasi dimentica di tendere.
Nella nostra via è arrivato Babbo Natale, ha un vestito scolorito, la barba bianca sporca e lo sguardo spento sempre abbassato, ha preso il posto di un giovane marocchino che non vendeva niente.
E’ un Babbo Natale che non porta regali, si limita a dispensare larghi sorrisi e ad accarezzare i bambini, poi allunga la mano aspettando l’elemosina.
Quando la mattina presto, mi alzo è già sul posto di lavoro e fino all’imbrunire non se ne va, all’ora di pranzo tira fuori da un piccolo cartoccio un panino, ci dà alcune morsicate e poi lo ripone nel sacchetto, in compenso si scola quasi un litro di vino. A dormire non va molto distante, ha trovato un portico buio, lì ha sistemato con cura dei cartoni e ha nascosto il suo guardaroba, due grossi sacchetti di plastica.
Da quando è arrivato dei ragazzini che avranno all’incirca tredici anni, lo prendono in giro, se non fossi così vecchio andrei giù con un bastone.
Mi affaccio alla finestra, fa veramente freddo, potrebbe anche nevicare, mosso da pietà gli faccio cenno di salire.
Da principio sembra non intendermi, o forse non ha voglia della mia compagnia, ma non sono passati nemmeno cinque minuti che sento bussare alla porta. Chiede timidamente se può mettersi in libertà, non ho nulla in contrario, e allora lui si toglie barba e cappello, avrà circa la mia età. Soltanto adesso mi sento trafiggere il cuore.
Non avevo nemmeno dieci anni, credevo ancora che i bambini li portasse la cicogna. Quell’anno mio padre aveva deciso di passare il Natale sulla neve a Limone, invitato da un suo collega.
L’avevo visto qualche volta e non mi era rimasto simpatico. Mio padre ci aveva detto che la nostra vita dipendeva da lui, da quell’omettino insignificante e che bisognava essere gentili ed educati. Nessuno di noi sapeva sciare, avrei passato le giornate di festa in una casa che non conoscevo, a mangiare e a giocare a tombola.
Mi ero opposto a quella decisione con tutte le mie forze, avevo paura che Babbo Natale, non trovandomi a casa, si sarebbe arrabbiato e non mi avrebbe più portato regali.
Mio padre decise che ero diventato troppo grande per credere a quelle storie, comparve improvvisamente nella mia stanza, tutto vestito di rosso, si tolse la barba bianca e mi disse: “Lo vedi chi è Babbo Natale?”
Quel giorno avrei voluto prenderlo a pugni e invece mi limitai a dire: “Perché papà? Sono forse stato cattivo?”. Lui aveva sorriso scrollando la testa, ero ormai diventato grande.
Chiedo al mio ospite se vuole qualcosa da mangiare, mi fa cenno di no con la testa, comunque gli faccio un te, e gli offro dei pasticcini, ma forse avrei fatto meglio a servirgli un buon bicchiere di vino. Si accende la pipa, procurandomi un poco di fastidio per l’odore di tabacco e a un tratto comincia a raccontarmi la storia della sua vita.
Si chiama Egidio e insieme al padre era stato proprietario di un negozio di tessuti, aveva passato tutta la sua vita tra stoffe e donne noiose e forse questo l’aveva reso un poco effeminato o forse aveva solo ingentilito le sue movenze.
Fin da piccolo aveva aiutato suo padre, gli era costato fatica staccarsi dai suoi compagni e dai loro giochi, ma il vecchio su questo era stato irremovibile: il loro lavoro era difficile da imparare e se si voleva farlo bene, bisognava iniziare ancora bambini.
Quelle quattro mura e quella vetrina da dove poteva vedere gli altri bambini divertirsi correndo dentro una pozzanghera divennero il suo mondo e le sue favole non furono Pinocchio o Biancaneve ma le tasse da pagare, le tratte in scadenza e le commesse da guardare con occhio vigile.
Si sposò che aveva quasi quarant’anni lei faceva la commessa nel suo negozio, non fu amore, Egidio non ci aveva mai pensato, troppo occupato con le sue stoffe. E poi quella donna, dal carattere autoritario, troppo alta e magra, vestita sempre con una cappa azzurra, senza un filo di trucco su una faccia mascolina, non poteva attirare un uomo. Fu il padre che volle quel matrimonio, per salvaguardare la bottega: “Io non sono di ferro, e tu da solo non ce la puoi fare, ci vuole una donna con l’occhio del padrone” gli disse un giorno.
Ora il silenzio regna nella stanza, mi alzo di scatto per cercare del vino, lo trovo, gliene verso un bicchiere, lui sembra apprezzarlo molto e lo trangugia tutto d’un fiato.
Mi faccio coraggio e gli domando; “Come mai siete finito in questo modo? E la vostra bottega?” Finalmente alzando lo sguardo mi fa un sorriso, così riesco a vedergli gli occhi, sono di un colore stupendo, poi si schiarisce la voce e mi dice: “Avevo bisogno di un po’ d’aria fresca”.
Senza accorgercene ci siamo scolati una bottiglia di vino, le mie domande si fanno incalzanti: “Non siete più andato in bottega? Non avete più visto vostro padre?” Non appare per niente imbarazzato e mi risponde: “Ci sono passato una sola volta, quasi per caso, si sono ingranditi, gli affari vanno bene. Non ero così necessario come fingevo di credere. Mia moglie, che con l’età non è peggiorata, i brutti diventando vecchi, recuperano posizioni, si è risposata con uno più giovane, un tipo sportivo sempre abbronzato in maniera innaturale, che sta seduto dietro alla cassa in giacca e cravatta, a contare i soldi.
Hanno liquidato mio padre e cambiato il nome dell’insegna. Che brutta fine deve aver fatto povera donna, quello non sembra proprio il tipo di accontentarsi di una come lei!”
Mi piacerebbe invitarlo per il giorno di Natale, avremmo tante cose da raccontarci, ma lui dice che ha un impegno.
Ci salutiamo come vecchi amici, dalla finestra vedo che attraversa la strada e poi si sistema al solito posto.
Mia moglie sta rientrando, è andata dal parrucchiere e vorrebbe che le facessi dei complimenti ma rimango zitto, sto ancora pensando ad Egidio.
Lei allora interrompe il silenzio: “Ho visto quell’uomo vestito da Babbo Natale che usciva dal nostro portone, cosa sarà venuto a fare?” Sono contento che abbia iniziato a parlare e le rispondo: “Non lo sai che fra poco è Natale? Sarà venuto a portare i regali”.
Mi guarda stupita e mi dice: “Possibile che tu abbia sempre voglia di scherzare?” Ribatto seccato: “E allora guarda nell’armadio ha lasciato qualcosa anche per te”.
Si avvicina al mobile e trova un pacchetto colorato, lo scarta trepidante, e subito getta un urlo: “Ma caro non dovevi! Con tutti i soldi che dobbiamo pagare al signor Antonio per la casa”, ma già si è messa il collier e si guarda allo specchio. Finalmente mi avvicino: “sei meravigliosa, e poi a me non è costato niente, è stato Babbo Natale”, lei si mette a ridere: “Quando ti deciderai a crescere?”.
Improvvisamente mi è venuta voglia di fare una passeggiata, per dirla come Egidio, di prendere una boccata d’aria fresca: Monica è un poco preoccupata per la mia salute, ma la rassicuro dicendo che fra mezz’ora sarò di ritorno.


CAPITOLO SECONDO

Sono sceso nella strada piena di macchine in colonna, che sembrano aspettare un qualcosa: chissà cosa ci sarà in fondo a quella striscia nera? Alla fermata dell’autobus decine di persone aspettano quello che tarda ad arrivare.
Il grigio predomina appena ferito da qualche timido raggio di luce che filtra dai negozi, le insegne natalizie spente rendono ancora più lugubre l’atmosfera. Questa è la Genova di periferia, l’unico buon odore è quello della tripperia, dove gli operai si fermano a bere una tazza di brodo, e non si conosce l’odore del cappuccino e delle brioches appena sfornate.
Gli unici rumori vengono dalla strada, quei immensi casermoni piene di gente sembrano vuoti, quasi timidi a far sentire la loro presenza: I bambini non piangono in questo angolo di mondo? Le mamme sono così pazienti? Mi sembra tutto molto strano.
L’unica cosa viva è quel piccolo giardino proprio sotto casa, fatto a triangolo con quattro alberi dal colore indefinito, che troppo poco si avvicina al verde.
Delle panchine fin troppo colorate, che gli operai si ostinano a pitturare cancellando le scritte di qualche innamorato annoiato fanno da contraltare. La terra, all’interno delle aiuole, prende anch’essa un colore grigiastro e per quanti sforzi facciano gli operai del Comune non cresce un filo d’erba, questo giardinetto è il pisciatoio di tutti i cani del quartiere, il mio cane non l’ho mai portato, nell’attesa di un ciuffo d’erba.
Ha preso il nome di “ Belini molli”, perché è occupato da gente che non scende sotto i settant’anni; un po’ irriverente come nome, ma mi basta poco per capire che è azzeccato, infilandomi una mano nei calzoni.
Qualche volta si veste a festa, è il periodo delle elezioni, viene letteralmente coperto da cartelloni di vari colori, e dalle facce inquietanti, di forestieri, che pian piano diventano familiari, e quando forse ti ci sei affezionato ecco che arriva qualcuno e sbaracca tutto. Le elezioni sono finite e gli alberi riappaiono come per miracolo e mettono un poco di tristezza.
La piazzetta si riempie di colore, quando il partito comunista fa qualche comizio.
Le parole dell’oratore mi interessano poco, mi pace lo sventolio delle bandiere rosse, il traffico deviato e l’ammassamento delle persone con le facce contente sempre pronte ad applaudire e ad intonare canzoni.
Questo periodo coincide con la primavera, ed è un presagio della vicina estate, gli alberi si vestono di foglie che serviranno da riparo nei giorni di calura e si incomincia ad aspettare il banchetto delle angurie.
L’estate è l’occasione per stare fuori la sera, non è molto divertente, ma la “pateca” mi piace parecchio. Si parla fitto di tutto, ma principalmente di pensioni e di malattie, sembra un convegno di medici.
I bambini giocano a nascondino e cercano sempre di interrompere i discorsi dei grandi. Manca l’età di mezzo e questo mi ha sempre incuriosito. Vorrei prendere quella stradina che porta ai forti, è fatta di gradini di mattoni e diventa pian piano più stretta e tortuosa. È strano trovarsi, dopo qualche rampa, in un altro mondo, fatto di colori diversi, dal rosso sangue del sentiero, appena macchiato da qualche ciuffo d’erba, ai piccoli fiori, giallo intensi, che alzano la testa presuntuosi.
Le case pian piano incominciano a diradarsi, qualche ramo di vite si attacca alla ringhiera e nell’aria aleggiano odori difficili da identificare, ma familiari.
Il sentiero a gradini rossi, lascia il posto a un viottolo dall’erba un poco rovinata, le case non si vedono più soltanto il latrato dei cani indica la presenza di qualche essere animato.
Più avanti il sentiero sembra scomparire, lasciando il posto ai rovi e a quelle pianta che mio padre chiamava “grattacui”, quella parola mi ha sempre fatto sorridere.
Ai forti ci sono andato poche volte, era il luogo delle coppiette e a me non piaceva fare la figura del guardone. Il mio cane invece giocava in mezzo alle rovine, infastidiva le coppiette e si divertiva a strappare i preservativi che infestavano il luogo.
C’erano travestiti che aspettavano i clienti, era l’unico posto dove battevano anche di giorno. Mi stavano simpatici, anche se la mia frequentazione si limitava alla Murena, che gestiva, in via del Campo, una trattoria per dire la verità un buco scrostato e umido, dove tutti potevano avere un piatto caldo a poco prezzo o anche a credito.
Al mattino, prima di andare a scuola, i bambini passavano dalla Murena per un pezzo di cioccolata, non so se fosse buona, ma non costava niente. Amava i bambini e un giorno organizzò una gita al Luna Park ma per poco non fu arrestata per adescamento.
Tutte le volte che venivo ai forti mi fermavo per qualche momento proprio al bivio, scartavo una caramella alle erbe alpine, assaporandone il gusto amaro e sbirciando la città fin troppo distante. Chiamavo il cane con un fischio e prendevo la strada in discesa, completamente immersa nell’erba troppo alta, alla scoperta di una piccola fontana, dall’acqua fresca, ogni volta era un piacere ritrovarla, come era un piacere dimenticarne l’esatta ubicazione.
Negli ultimi anni non mi sono più spinto fin lassù, un po’ per timidezza, un po’ per invidia delle giovani coppie e soprattutto perché mi mancano le forze. Mi fermo subito dopo la prima rampa, in una piccola osteria per passare qualche ora con qualcuno della mia età a giocare a carte, o soltanto a sfogliare il giornale. Nella bella stagione mi limito a guardare i più giovani che giocano a bocce, godendo della frescura del pergolato e di un buon bicchiere di vino fresco.
Il mio cane invece ha fatto delle amicizie e per qualche ora non lo vedo più, si intrattiene con delle cagnette, anche se certe volte ritorna ingrugnito e con la coda tra le gambe e mi fa capire che bisogna ritornare a casa.
Oggi però non ho voglia di prendere la stradina rossa e mi ritrovo improvvisamente senza sapere come, su un autobus diretto al centro.
E’ facile rimanere in piedi, sorretto da quelle persone che mi stanno attorno e di trovare un posto a sedere non se ne parla, anche se alla mia età ne avrei il diritto. Il conduttore deve essere un sadico, ad ogni fermata frena in maniera troppo brusca e come bestie avanziamo di qualche metro, dicono lo faccia per far spazio alle persone che devono salire.
Ho raggiunto la porta senza nemmeno accorgermene, sono notevolmente infastidito da quelle mani che mi toccano da per tutto e dall’odore di sudore che mi impregna i vestiti. Non so dove sono diretto, è difficile intravedere dal finestrino un posto conosciuto, decido quindi di lasciarmi trasportare fino al capolinea, che mi libera da quelle persone che mi hanno intrappolato per troppo tempo. Scendono tutti, ognuno ha una destinazione che si affretta a raggiungere, soltanto io non so dove andare, mi guardo intorno per scoprire dove sono, mi ci vuole un poco per raccapezzarmi: sono in piazza Caricamento, il cuore di Genova. I portici di Sottoripa mi accolgono con il loro calore, fatto di roba da mangiare e di merci ammassate di ogni genere. Grida, strepiti, fumo, odore acre, misto di spezie e di salsedine, si percepisce la stessa atmosfera di un gran bazar mediorientale. Su questo set sono in azione, mercanti, ladri, sfaccendati, ed io che non sono né un attore né un regista, mi sento un pesce fuor d’acqua.
Prendo una stradina buia come a voler uscire di scena, ma eccomi in una piazzetta dove gli attori sono verdurai e pescivendoli che allestiscono i loro banchi, sono indaffarati, gridano, sembrano avercela con qualcuno e i dialetti si mescolano in una sola lingua; sono in ritardo, e i compratori aspettano impazienti. I negozi sono troppo piccoli e la merce viene esposta sulla strada, ad altezza di cane ed è difficile camminare senza inciampare.
Imbocco un vicolo, una donna grassa, quasi senza gambe, è seduta dietro un banchetto a vendere sigarette e poco più in là, uomini dall’aria distinta giocano alle tre carte, aspettando lo scemo di turno. Le finestre danno proprio sulla strada e si può vedere all’interno, un letto e una donna in attesa.
Prendo un vicolo ancora più buio, finalmente un poco di silenzio, qui le persone si aggirano con fare circospetto, sembrano aver paura dei loro passi, mi avvicino per guardare meglio, sono sospettosi, girano alla larga, o si mettono a parlare sottovoce, è difficile capire cosa dicano, hanno una lingua incomprensibile ed il colore della loro pelle non è uguale al mio, basta una macchina della polizia, capitata per caso, per fare il deserto.
Arrivo in una piazzetta occupata da una fontana senza acqua e incrostata delle cacche dei piccioni, la chiesa di fronte ha le porte sempre chiuse, quasi avesse vergogna: ci sono soltanto alcune donne vestite in modo approssimativo, tutte giovani e belle, mi si avvicinano facendomi i complimenti, sono lusingato e vorrei accettare l’invito, ma ho paura di fare una brutta figura, e poi ho la netta impressione che mi prendano in giro.
Molto educatamente declino l’invito, sembrano deluse e mi imprecano dietro. Mi metto quasi a correre imbattendomi in una signora che quasi mi abbraccia, mi sento braccato e non mi resta che arrendermi.
E’ una donna di circa cinquant’anni, il corpo sfatto, due grosse tette che gli arrivano alla pancia, il viso pitturato come una indiana.
Anche lei mi lusinga e decido di seguirla, siamo in Vico della Castagna, a due passi c’è la salita Tre Re Magi e Vico dei Biscotti, nomi sicuramente appropriati, infatti, sembra di entrare in un atmosfera da fiaba: una pasticceria spande il suo profumo per tutti i carruggi. I genovesi hanno una vera e propria passione per il cacao e un tempo da questo porto passava la nobile polvere da distribuire in tutta Italia. La pasticceria fino a quarant’anni fa non era l’unica azienda frequentata nel vicolo, si trovava qui, infatti una delle più note e bazzicate case chiuse della città. La testimonianza di questa presenza peccaminosa è rimasta ancor oggi: un cartello stradale dell’epoca indica il divieto di transito ai bambini.
Siamo arrivati in Vico delle Calabraghe, un segno premonitore, entriamo in un portone buio, saliamo una rampa di scale, l’odore è quello di muffa e di piscio. La casa è piccola, un’entrata con un attaccapanni porta alla cucina, la tavola è coperta da una tovaglia di pizzo, da un posacenere e da un bel vassoio di ceramica ricolmo di caramelle, quattro seggiole, sistemate con cura, la circondano. La cucina a gas è troppo pulita, segno che non viene usata da molto tempo, due pensili bianchi si confondono con il muro, dentro solo due bicchieri e una bottiglia di whisky, non una scatola di pasta, né piatti, né posate. Una porta apre alla camera da letto, qui un grosso armadio marrone in stile antico opprime l’ambiente, quasi in disparte il letto, una rete sfondata e un materasso coperto da un lenzuolo a fiori. Accanto si trova un comodino, in stile con l’armadio con sopra una scatola di preservativi aperta. L’unica cosa stonata è una sedia dove sono state buttate un paio di calze e delle mutande nere di pizzo.
Un’altra porta da sul gabinetto, l’unica stanza in disordine, dappertutto sono sparsi prodotti di bellezza, vicino al bidè stagna una pozza d’acqua, da un cestino maleodorante fuoriescono carte e preservativi usati, nel lavandino sono in ammollo mutande e reggiseno e lo specchio talmente sporco da non distinguere la propria faccia.
La mia signora si è già spogliata e mi aspetta con le gambe divaricate, è veramente brutta e grassa ed è difficile contare le pieghe della sua pancia. Sono veramente preoccupato, come potrei soddisfarla?
Non mi va di essere maleducato, ma sono sicuro che il mio cazzo non si rizzerebbe nemmeno per un miracolo.
Ma proprio lei mi toglie dall’imbarazzo chiedendomi la marchetta, un lampo: sono alla presenza di una puttana. Sono salvo, le do i vestiti per coprirsi e lascio i soldi sul comodino. Lei sembra stupita, poi comincia a parlare del suo lavoro, di quando poteva uscire soltanto al sabato vestita in modo che tutti la potessero facilmente riconoscere. Un fiume di parole violentano le mie orecchie, ho voglia soltanto di uscire.
Sono ormai sulla soglia, una rampa di scale, e sarò fuori, la signora mi trattiene ancora un attimo, ha qualcosa da dire e quando giunto al portone la saluto con un cenno della mano aggiunge: “Nonostante tutto, meglio oggi”.


CAPITOLO TERZO

E’una fredda giornata genovese, la pioggia non da tregua, accompagnata da un vento gelido, decido di rifugiarmi in un cinema ed escludendo di andare in centro, scelgo lo Splendor, un cinema a luci rosse che è proprio sulla mia strada; intanto il film non mi interessa.
La sala è vuota, se si eccettuano dei vecchietti in prima fila che scompaiono tra le poltrone, mi sistemo anch’io comodamente, rimpiangendo le vecchie seggiole di legno, che se non stavi attento ci cadevi dentro e facevano un rumore assordante.
C’è uno strano movimento tra la sala e i gabinetti, il film sembra non interessare nessuno.
Anche se sul telone compaiono delle donne nude e scene davvero piccanti, lo spettacolo sembra svolgersi nel cesso. Tutto sa di pulito ma mi piacerebbe sentire l’odore delle sigarette e vedere la nuvola di fumo interrotta dal fascio di luce.
Un uomo mi siede accanto e mi guarda in modo imbarazzante, non riesco a capire le sue intenzioni, la cosa mi eccita e aspetto, qualcosa deve succedere, dopo dieci minuti si alza e si dirige al bagno.
Sul telone si susseguono le immagini, ma io sono distratto, mi aspetto il ragazzo con i pop-corn, ma non succede niente e sono deluso.
Hanno tolto la pedana, chissà dove si esibiranno le ballerini e il comico che raccontava barzellette che non facevano ridere? I nostri occhi di giovani universitari erano incollati alle gambe di quelle giovani bellissime e irreali.
Si usciva qualche minuto prima per occupare i posti migliori, nella speranza di poter passare un bigliettino; c’erano però dei figli di papà che potevano permettersi un mazzo di fiori ed erano loro i prescelti, il giorno dopo raccontavano di notti infuocate con dovizia di particolari, ma i ben informati riferivano di sbornie pagate a caro prezzo, senza aver ottenuto niente in cambio.
Da giovane, al paese, ogni tanto andavo al cinema con gli amici, entravamo alle due e uscivamo che era già buio, sorbendoci due volte lo stesso film e scappavamo soltanto sentendo il fischio del treno, voleva dire che era l’ora di cena.
Il cinema era proprio dietro la stazione e tutta la sala, quando passava un treno, sembrava in preda a un terremoto.
Il film è quasi alla fine, deve essere molto tardi, ma non si sente nessun fischio, mi è difficile alzarmi. L’uomo che poco prima mi aveva messo in imbarazzo è ritornato e si risiede, sembra molto coinvolto dal film.
Il mio sguardo approfittando di un forte raggio di luce che illumina per un attimo la sala incontra la patta dei suoi pantaloni. Sono interessato e sorpreso dal rigonfiamento e approfittando del buio appoggio la mano, non trovo nessun ostacolo e quindi gli tiro fuori l’arnese, duro come l’acciaio e mi metto a menarglielo, i nostri sguardi si incontrano, il suo è di gratitudine, il mio deve apparire di supplica, tanto che improvvisamente una mano ha preso il mio cazzo un poco molle e lo accarezza come mai mia moglie ha fatto.
Non ci vuole molto perché si indurisca anche se non c’è paragone con quello del mio vicino. Sono soddisfatto lo stesso, è da tanto tempo che non l’ ho più così duro. Passano dieci minuti, non vorrei che terminassero mai, la fine è data dalla mano bagnata e dalle macchie nei calzoni. La pioggia è cessata, sono nuovamente in strada, in Via Macelli di Sozziglia dove c’è la bottega dello stoccafisso. Una volta si mangiava soprattutto al venerdì, mentre oggi la giornata dello stoccafisso è la domenica.
La Chiesa già nel 500 richiamava i fedeli ad abitudini alimentari più sobrie e morigerate: abbandonare la cucina grassa e succulenta, mangiare di magro al venerdì diventò un imperativo categorico per chi voleva seguire i dettami della religione. gli uomini e soprattutto le donne seppero fare miracoli: insaporirono lo stoccafisso con le erbette mediterranee, lo annegarono in olio e pomodoro e lo annaffiarono con vini corposi. Alla fine solamente i pescatori continuavano a mangiarlo lessato o imburrato.
Sto per ritornare a casa, quando m’imbatto in un uomo che quasi mi fa cadere, lo guardo in faccia carico di rabbia, poi lo riconosco: è Sergio un famoso cantante. L’ho visto parecchie volte in televisione, ha la faccia d’artista con quei capelli lunghi, bianchi e disordinati sulle spalle. Ha un vestito di pelle nera, con un gilet sgargiante sotto la giacca, è ridicolo, a stento riesco a trattenermi dal ridere, ci salutiamo come se ci incontrassimo tutti i giorni, ma è da trent’anni che non ci vediamo.
Lo invito a prender un caffè in uno di quei bar da signore, dove ti siedi su poltrone di velluto e sei in imbarazzo per paura di sporcare qualcosa. Qui si serve soltanto tè e pasticcini e la tua figura è riflessa su decine di specchi impietosi. Non c’è odore di vino, si parla quasi sussurrando e i camerieri con la giacca rossa sono troppo servizievoli e puzzano di dolce dando quasi la nausea.
Lui mi racconta dei suoi concerti e dei suoi progetti futuri, io vorrei parlargli della mia vita, ma è troppo occupato con la musica per ascoltarmi. Con la sua solita delicatezza mi parla di Eleonora, una ragazza che piaceva ad entrambi, forse lo fa per procurarmi un dolore. Lei come era facile immaginare scelse lui, si sposarono ed ebbero una bambina, Margot, divorziarono quasi subito, Eleonora scomparve e ora lui mi chiede se ho sue notizie. Ma non gli basta e continua ad infierire, parlandomi delle sue donne come fosse un pavone.
Quando eravamo piccoli andavo spesso a casa sua, viveva in una villa stupenda, con un magnifico prato, si diceva in giro che l’avessero ereditata da un lontano parente americano. Giocavamo tutto il giorno in giardino con la bicicletta fantasticando di correre il Giro d’Italia e per tanto tempo mi è stato difficile distinguere l’Italia da quel meraviglioso giardino.
Quando poi eravamo stanchi, ci ritiravamo in casa, Sergio aveva una mansarda tutta per lui, ricolma di giocattoli che non si trovavano nei negozi italiani. Ci mettevamo a giocare, ma lui teneva per se i pezzi migliori, lasciandomi le macchinine più brutte o i soldatini rotti, e così vinceva sempre.
Alle cinque, come un orologio arrivava sua madre con il tè e i pasticcini che divoravamo in un attimo. Era una donna fragile, vestita modestamente, ma emanava un buon profumo di rosa, di gelsomino; mi faceva sorridere perché quando parlava storpiava un poco le parole, non avendo imparato ancora bene l’italiano. Il padre non si faceva mai vedere, era sempre in giro a cercare di dilapidare la sua fortuna, anche se lui sosteneva di uscire per lavoro e per curare i propri interessi.
Quando Sergio scoprì la vocazione per la musica, incominciai ad odiarlo, la sua voce pastosa e forte, il suo tocco di mano sulle corde di una chitarra facevano andare in visibilio le ragazze e a me non restava che fare da spettatore. Io intanto avevo incominciato a scrivere poesie, ma non era la stessa cosa.
Il caffè è finito, ci stringiamo la mano, lui ha molta fretta, domani terrà un concerto in Francia.
Chissà se ci rivedremo ancora? Sono di nuovo solo in mezzo a una folla che mi appare sempre più ostile, ma di ritornare a casa non ne ho assolutamente voglia. Vorrei comprare un giocattolo, mi succede spesso quando sono angosciato di desiderare un oggetto qualsiasi, all’apparenza inutile. Un negozio attira la mia attenzione, è tutto illuminato e ha un’insegna intermittente che da fastidio agli occhi, bambini appiccicati alla vetrina appannano il vetro con il loro fiato, mi faccio largo tra loro a suon di spintoni, guardato dalle mamme come fossi matto.
Sono fortunati i bambini di oggi, ai miei tempi c’era poco o nulla. Mi piacerebbe quel trenino Lima che hanno esposto in prima fila con tutto il suo plastico. Qualche bambino viene trascinato via a forza e devo assistere a scene di vera disperazione, finalmente ritorno in me: è inutile sprecare dei soldi e poi cosa direbbe Monica?
Devo aver camminato parecchio, ho passato tutta la giornata fuori, c’è ancora gente in giro, ma non c’è confusione, il freddo è diminuito ed è un piacere camminare, sono arrivato nei pressi di casa senza accorgermene.
Sento nell’aria odore di mangiare, mi guardo attorno, il profumo viene dalla rosticceria ancora aperta. Nella vetrina si possono ammirare un tacchino grosso come un vitello e piatti di antipasti di ogni genere: boragine fritte con il loro sapore stuzzicante, morbido e pungente al tatto, barbabietole con le acciughe dove il sapore dell’acciuga mitiga quello dolciastro e stucchevole della barbabietola, melanzane marinate con gli zucchini, un piatto un tempo indicato come portatore di pazzia. Sarà forse per l’ora ma mi è venuta una gran fame.
Salgo le scale alla mia maniera, tenendomi al passamano per non cadere, Monica mi accoglie con un sorriso e capisce che non deve chiedermi niente. La casa sa di pulito e di fresco,deve avere appena finito di fare le pulizie ma non c’è odore di mangiare, è da tanto che alla sera ci beviamo soltanto una tazza di latte con qualche biscotto del lagaccio.
Mi metto in libertà, Monica sta apparecchiando, improvvisamente mi viene da dire: “Per domani cosa hai preparato?” Lei mi risponde quasi senza guardami in faccia: “Cosa vuoi che abbia preparato? Siamo soltanto noi due”. Intanto vedendo la mia faccia triste, mi accarezza i capelli e dice: “Cosa ne pensi se domani andiamo a mangiare fuori? E’ da tanto che non usciamo più di casa insieme”. Sono contento dell’idea e le dico: “Cosa ne diresti se andassimo in quel ristorantino sopra il mare?” Mi fa cenno di sì con la testa, sembra anche lei felice, nel frattempo abbiamo finito di mangiare, è l’ora di andare a dormire.
Ma questa sera faccio fatica ad addormentarmi, la pancia vuota mi disturba il sonno.


CAPITOLO QUARTO

Dell’infanzia al paese mi ricordo nitidamente i pranzi di Natale, la tavola imbandita di ogni ben di Dio, la cagnara che facevamo tutti insieme, bambini e vecchi, tranne mio padre che parlava solo con il professor Levratto. Levratto era un terribile professore di filosofia che sembrava appena uscito da un dipinto dell’ottocento, vestiva sempre di nero, con un cappello che gli copriva gli occhi. Li ricordo benissimo, il papà dichiaratamente cattolico e antifascista, il professore dichiaratamente fascista, che si affrontavano con asprezza e lealtà come se fosse normale, in quei tempi, discutere di politica a quel modo
Non era normale, il fascio era dominato da un certo Brunetti che si circondava di uomini violenti, che lo stesso capo militare tedesco, definiva assassini da strada.
Levratto, invece, voleva prendere le distanze, tentò addirittura di disarmare la milizia, si accorse ben presto di non contare nulla. Ma restò fascista, fedele al suo ideale di fascismo rivoluzionario. Epiche furono le discussioni sulla morale, la borghesia, il capitalismo, sembrava si dovessero accapigliare da un momento all’altro, ma finiva sempre con una buona bevuta e una stretta di mano.
Il fascismo e l’antifascismo per molto tempo per me furono rappresentati dal Principe Gandolfi, poeta sconosciuto, e dal capostazione Franco. I versi del Principe si rivolgevano sempre alla figura del Duce, lui era una macchietta di uomo, dai vestiti colorati e stravaganti. Il capostazione Franco, uomo prestante, dalla faccia avvinazzata, si portava dietro il Capitale di Marx, amava leggerne qualche frase e ripeterla ad alta voce.
Quando si incontravano abbassavano lo sguardo e ognuno tirava per la sua strada. Avevano una cosa in comune, una casa in centro del paese, dove viveva una giovane donna, dalle forme arrotondate. Al Principe erano toccati i giorni pari, al capostazione quelli dispari. Non si seppe mai chi non rispettò quel patto non scritto ma un giorno in piazza si presero a pugni e non fu certo per questioni politiche come scrisse il giornale.
Ai pranzi di Natale c’erano poi le sorelle di mia madre trasferitesi in Liguria, dove si erano sistemate trovando marito.
Zia Matilde era una donna piccola e tendenzialmente grassa, passava il suo tempo a ridere e a raccontare barzellette che nessuno capiva. Non so dove trovasse tutto quell’umorismo visto che suo marito dilapidava tutto il suo guadagno nei vari casinò della Riviera, e per tirare avanti era costretta a fare i gnocchetti, un pasta molto adatta ai brodi.
Venendoci a trovare si portava dietro il lavoro, metteva uno straccio sulle gambe, affondava le mani in un grilletto sporco, strappava un pezzo di pasta minuscolo e con un gesto velocissimo, lo attorcigliava, fino a farlo diventare come un vermettino, non dimenticandosi mai di inumidire le dita con uno sputo.
L’altra zia si chiamava Clotilde, era talmente grassa che non stava sulla sedia e diceva sempre: “Se non ne comprate delle più comode, io non posso più venire in casa vostra”. Era proprietaria di una salumeria a Savona e si sentiva dall’odore che emanava, suo marito invece era un distinto signore che dava poca confidenza, girava sempre con il sigaro in bocca e faceva puzzare tutta la casa.
Quella che assomigliava di più a mia madre era Lucia, una faccia da attrice. Era la più giovane delle quattro ma era già vedova, faceva vita ritirata e quando usciva si vestiva di nero, quasi volesse mortificare il suo corpo. Arrivata a quarant’anni uscì di senno e fu rinchiusa in manicomio.
Aveva avuto una figlia che come lei si vestiva di nero, stavano sempre assieme, per lo più in casa, accanto a una fotografia del pover’uomo, con un candela sempre accesa, a ricordare quando lui era con loro. Mai si dimenticavano di apparecchiare per tre, quanto ben di Dio fu buttato nella spazzatura. Le rare volte che si vedevano in giro era al crepuscolo, quasi di corsa per non essere notate, si recavano in chiesa per un rosario o per il vespro e amavano intrattenersi con il parroco.
Quando sua madre fu rinchiusa nel manicomio lei scomparve del tutto. Le malelingue la notarono nei posti più belli d’Italia, sgargiante come una diva, sempre accompagnata da qualche uomo di bell’aspetto e dal portafoglio ricolmo.
Molti anni dopo, vidi il suo nome sul giornale in un piccolo trafiletto, l’avevano ammazzata come un cane, era stata trovata in una discarica insieme all’immondizia e non si faceva mistero della sua professione. Fui l’unico parente che si presentò ai funerali, fu seppellita in una città sconosciuta e la sua tomba rimase sempre spoglia.
I nonni non li ho mai conosciuti, ma ne sentivo parlare spesso, soprattutto nel giorno di Natale; erano originari di un piccolo paese sotto gli argini del Po, della provincia di Ferrara. Vivevano in una bella cascina bianca che si riusciva a intravedere anche nelle giornate di nebbia. Una casa isolata in mezzo a campi di granoturco, nascosta dal resto del mondo, dove gli unici rumori erano la voce del nonno, forte e autoritaria e il muggito di qualche vacca che aspettava il mangiare.
La voce delle donne non si sentiva quasi mai, al nonno non piaceva che le figlie giocassero, se non al martedì, quando lui andava al mercato. La nonna morì troppo presto, era sempre stata una donna fragile, un tronco troppo secco, lasciando quelle ragazze in mano ad un uomo simile a una bestia, e fu così che ognuna seguì il primo uomo che incontrò.
Un poco in disparte nella tavolata, c’era il colonnello Tullio, mai una battaglia persa, solo vittorie tutte conseguite sul campo per meriti e coraggio. Aveva prestato servizio di leva come soldato semplice, diventò più tardi ufficiale. Nel ’17 a Caporetto a seguito di un’azione ardimentosa gli fu concesso l’encomio solenne. In seguito seppi che nel 1940 dopo tre giorni di combattimenti entrò con il suo reggimento a Mentone. A sua insaputa però alcuni soldati si lasciarono andare ad azioni di saccheggio. Per uno come lui fu un durissimo colpo, il suo ultimo atto fu difendere i suoi soldati, poi una mattina d’inverno in un giardino, un po’ defilato, trovò pace con un colpo di rivoltella alla tempia. Alcuni giorni dopo sarebbe stato nominato generale.
Seduto accanto a me c’era sempre il fratello mio padre, lo zio Teu, diminutivo di Stefano, era un uomo piccolino e magro, somigliante in modo impressionante a Govi. Era l’esatto opposto di mio padre, sempre allegro, amava scherzare con le donne e i bambini, ballare e giocare a bocce.
Sua moglie Marianin invece era grassa come una matrona romana e passava il suo tempo a torturare quel pover’uomo, per limitarne l’esuberanza, ma era un piacere guardarli, sembrava di assistere a una rappresentazione teatrale.
L’altro invitato era Pinin, un amico di mio padre che non so come avesse conosciuto. Era un uomo grande e grosso, sembrava quei giganti che si vedono soltanto al circo, con un vocione da tenore che ti faceva sobbalzare. Parlava volentieri, ma non stava mai al centro dell’attenzione, individuava la sua vittima e incominciava a raccontarle la solita storia che tutti conoscevano.
Era di Voltri, proprio all’inizio di Genova, dove si dice che nasce il vento, come mestiere faceva il maestro d’ascia, una tecnica raffinata per la costruzione di una barca; a differenza del falegname il maestro d’ascia la squadra neppure la conosce. Questo perché la barca non ha angoli e l’ascia serve soltanto per modellare e arrotondare il legno. Ma per arrivare fino a lì ce n’era voluta di strada: a diciotto anni era diventato operaio, dopo una prova d’arte carpentiere e poi col tempo, dato che era bravo e il suo lavoro gli piaceva, calafatato. I calafatati riempivano gli spazi fra un fasciame e l’altro con stoppa incatramata e altri materiali non sintetici, per formare una sorta di cuscinetto ammortizzatore ed impermeabile.
Pinin era sordo come una campana, tutta colpa del rumore che fa il maglio nel legno: un colpo secco e penetrante, migliaia di colpi al giorno, e a lungo andare il timpano si lesiona.
Mi ricordo ancora nitidamente le sue parole che concludevano il discorso: “Con la tramontana che va a tutta forza e noi sotto il piano della barca, tra lo scafo e il fondo, a lavorare a zero gradi, prendere quei pezzi di legno pieni di brina …col ghiaccio, le mani congelate, quando trovavamo un paio di guanti vecchi, riciclati, per riparaci un po’ dal freddo, ci dicevano se avevamo paura di perdere gli anelli”.
Il menù del giorno di Natale era sempre lo stesso, sulla stufa a legna, già dal mattino presto, c’erano degli immensi pentoloni dove erano messi a bollire trippa, carne magra, zampini e testina di maiale.
L’odore della trippa sovrasta quello della carne, e il tutto rendeva l’aria nauseabonda, ci voleva qualche giorno prima che l’odore abbandonasse la casa.
Come primo c’erano i maccaroni con le trippe, l’odore delle trippe era mitigato dal soffritto di cipolle, dai funghi secchi fatti rinvenire nell’acqua, dalle carote, dall’aglio, dal sedano e dal prezzemolo.
Aspettando il secondo si assaggiava una fetta di sanguinaccio che ci veniva offerto dal salumiere perché eravamo clienti affezionati. Era accompagnato da purè fatto con latte, burro e noce moscata.
Il piatto forte era la carne di maiale e vitello trattati con alloro e zafferano. Si finiva col budino di latte insieme al pandolce e alla frutta candita.
Quando con somma gioia di mio padre andammo a Genova, non ci riunimmo più, e il Natale lo passavamo in tre o qualche volta in due, io con mia madre, perché lui faceva i turni.


CAPITOLO QUINTO

Da bambino avevo un fisico smunto, quattro ossa che sembrava mi bucassero la pelle da un momento all’altro, e una testa grossa, tutta ricci che facevo fatica a portarmi dietro.
Nella camera dei miei genitori c’era una fotografia nel giorno della comunione, ero veramente ridicolo con quel vestito scuro, la camicia bianca e la cravatta da impiegato, sopra un paio di calzoni corti che scoprivano gambe magre da far paura.
Poiché ero di salute cagionevole, una fastidiosa asma non mi permetteva di andare in spiaggia con gli altri ragazzi, mi recavo spesso a trovare gli zii che abitavano in un paesino dell’entroterra savonese, proprio sopra il nostro. Prendevo la scorciatoia, un piccolo sentiero fatto di pietre, troppo ripido per i miei polmoni, dovevo fermarmi spesso per prendere fiato, ci impiegavo più di un’ora, al ritorno mi facevo dare uno strappo dallo zio, sulla canna della bicicletta.
Il paese, fatto di poche case, quasi tutte in condizioni pietose, dai muri scrostati dalla muffa e dalle persiane abbassate che lasciavano filtrare la luce, dava sulla strada per Torino che lo divideva come una lama di coltello.
I gerani facevano bella mostra sui davanzali, o sui rari poggioli, come drappi nel giorno dell’Assunzione. Non c’era una piazza e tutta la vita si svolgeva in strada, nelle sere estive i pochi abitanti si sedevano sul marciapiede a godersi il fresco, qualcuno più previdente si portava da casa la seggiola e tutti guardavano i forestieri con aria cattiva.
L’unico spazio dove i bambini potessero andare a giocare, era il campo di granoturco, ma bisognava stare attenti, perché il padrone era un uomo violento.
La casa degli zii era un poco all’interno, quasi in campagna, e per quel tempo si poteva considerare una villetta, anche se oggi chiamarla così farebbe sorridere. Era piccolina, quasi da fiaba, di un colore candido come la neve, su cui spiccavano puntini verdi, che altro non erano che le persiane. La cosa più bella era il giardino, curato meravigliosamente, dove risaltavano per bellezza rose di tutti i colori e per il loro profumo lauri ed oleandri.
Mio zio Teu faceva lo spazzino e passava tutta la giornata sopra una bicicletta arrugginita a spingere un bidone, in compenso aveva una bella divisa sul marrone-verde e lo si poteva confondere con un soldato, tutti lo chiamavano Teu ramassa, ma davano a quella parola una valenza positiva, come fosse una carica importante.
Quando andò in pensione, non trovarono nessuno per sostituirlo, veniva su un camioncino una volta la settimana, e la rumenta rimaneva ai bordi della strada, vicino a cassonetti ricolmi e maleodoranti.
Lo zio da sempre di idee socialiste, non aveva mai voluto prendere la tessera fascista, raramente lo si sentiva discutere di politica, amava soltanto dire che Gesù Cristo, era stato il primo socialista. Contrario a qualsiasi forma di violenza, riuscì a scansarsi la prima guerra mondiale, a scapito dei suoi denti che cavò tutti da solo in un pomeriggio.
Durante il fascismo, si adoperò in ogni modo nell’aiutare i giovani partigiani, non era raro incontrare nel suo fienile, qualche sovversivo, cui dava volentieri ospitalità, mettendo a repentaglio la sua vita e quella della famiglia. Marianin a modo suo protestava, ma era sempre pronta a preparare un piatto caldo dove la carne era difficile a scoprirsi.
Era un uomo che non riusciva a stare fermo e finito il suo lavoro di spazzino andava in giro per la Riviera a curare i giardini dei ricchi signori di Torino, alcune volte andavo ad aiutarlo e rimanevo ammirato dalla sua competenza, anche se mi stufavo quasi subito e mi perdevo nei parchi alla ricerca di qualche biscia o nido di uccello.
Qualche volta incontravamo i padroni che si dimostravano sempre oltremodo gentili e parlavano volentieri con Teu. Lui mi presentava con un certo orgoglio: “Questo è mio nipote, futuro dottore”. Io arrossivo e scappavo via.
Certe volte, poi Teu finito il lavoro, mi diceva: “Giochiamo a fare i signori”. Si metteva un mantello nero, un cappellaccio e si faceva chiamare Conte Stefano, per me, invece, con grande abilità, intrecciava una corona fatta di foglie di quercia che mi poneva sul capo chiamandomi altezza, e io ne ero molto lusingato.
Ci mettevamo alla ricerca di qualche principessa da salvare o di nemici da sconfiggere. Per armi usavamo dei rami che accuratamente pelavamo con il nostro coltello. Non trovando nessuno che volesse ingaggiare un duello, ci sfidavamo a vicenda, e finiva sempre con la mia vittoria e col Conte Stefano steso a terra che chiedeva di essere risparmiato. Qualche volta ero magnanimo e lo lasciavo in vita, altre volte affondavo il bastone, stando attento a non fargli male: era un gran divertimento!
Una volta al mese andavamo alla villa del Conte Tiraboschi, persona ricchissima, sua era stata la prima macchina che, procurando non poco panico, si era vista in Riviera. Il Conte era un tipo strano, da giovane aveva dilapidato tutto il patrimonio familiare nei vari casinò , poi rimasto al verde aveva cambiato vita, dedicandosi agli studi scientifici e pagandosi la laurea con la vendita di un castello in Piemonte.
Aveva progettato centinaia di strani brevetti e uno era riuscito a venderlo a peso d’oro a una grande azienda svizzera, di lì era cominciata la sua fortuna. Abitava un poco fuori del paese, in una vecchia villa rimessa a nuovo, a strapiombo sul mare, dove ogni tanto la sera dava delle meravigliose feste, con le torce accese illuminavano la casa e, incendiavano il mare come fuochi d’artificio.
La casa, oltre al Conte era abitata a due strani individui: il maggiordomo e la cuoca. Il maggiordomo era un uomo alto e magro, che portava una divisa macchiata di grasso di motore, con la giacca un po’ aperta per mancanza di bottoni e le scarpe sporche di fango anche nella bella stagione. Il viso invece era in ordine, i capelli impomatati, come leccati da una mucca e la barba e i baffi curati. In carcere, dove era stato prima di andare a servizio, aveva imparato di tutto e tutto quel sapere l’aveva messo a disposizione del Conte.
La cuoca, la si vedeva poco, stava sempre rintanata in cucina e amava origliare dietro le porte. Quando c’erano le feste si ritiravano nei loro appartamenti, perché il Conte si serviva di professionisti che venivano da fuori.
In casa oltre alla servitù c’era un bambino più o meno della mia età, con cui giocavo invariabilmente a nascondino, ci perdevamo tra le innumerevoli stanze del palazzo, era difficile conoscerle tutte e ciascuna riservava una sorpresa.
Di giocare nel parco, a noi bambini non era consentito nemmeno d’estate, perché il Conte diceva che gli rovinavamo i fiori e forse non aveva tutti i torti. Il bambino era il nipote del Conte, veniva da Milano per passare lì i suoi week-end e mi trattava come un essere inferiore. Era sempre vestito come un grande con giacca e cravatta e aveva un leggero difetto di pronuncia, che lui diceva fosse il segno distintivo dei nobili. A causa della sua antipatia non passava volta che non ci azzuffassimo e quasi sempre le prendevo, perché il maledetto sapeva tirare di box e nonostante il fisico magrolino era tremendamente forte.
Il Conte, accanito assertore della tecnologia, aveva un’immensa biblioteca, un reparto era interamente dedicato alla filosofia, con libri di Galileo, Copernico, Newton, Leonardo, Giordano Bruno, Pico della Mirandola, l’altro alla matematica e fisica, qua e là c’erano anche libri d’avventura. Sulla scrivania si trovavano, in disordine, disegni tecnici che raffiguravano macchine apparentemente mostruose. Quando Teu aveva finito di lavorare, il Conte lo invitava a prendere un te e lui accettava volentieri, anche se è difficile capire come potesse apprezzare quel poco di acqua calda, lui così amante di un buon bicchiere di vino. Lo zio rimaneva estasiato da quei libri, perché il suo unico cruccio era quello di essere ignorante, ne prendeva in mano qualcuno per riposarlo quasi subito, quelle formule per lui erano peggio dell’arabo.
Il Conte allora gli si avvicinava, battendogli la mano sulla spalla e per metterlo a suo agio gli diceva: “Mi racconti un po’ delle mie rose”, e la conversazione a questo punto poteva durare anche un’ora intera.
Nel nostro peregrinare per la Riviera, un giorno ci presentammo per un lavoro in una vecchia casa, che sicuramente aveva conosciuto tempi migliori. Ci venne incontro un vecchietto dall’aria lugubre, che sembrava appena uscito da un film dell’orrore. Capimmo che si trattava del maggiordomo, lui ci illustrò il lavoro da svolgere: dovevamo pulire i vetri. Teu che era un giardiniere si indignò e presa una pietra incominciò a colpire i pochi vetri ancora intatti, invitandomi a fare altrettanto: “Così non c’è bisogno di pulirli” disse poi e scappammo via inseguiti da un latrato di cani.
Nelle mie visite alla casa degli zii, trovavo sempre mio cugino, un ragazzino di qualche anno più giovane di me che non sembrava mai divertirsi. I suoi erano gente ricca, anche se non si capiva bene che lavoro facessero, parlavano sempre di feste e a me sembravano venuti da un altro pianeta.
Ai miei genitori non piacevano e di loro dicevano sempre: “Hanno soltanto della boria”, ma quando gli si trovavano di fronte erano in soggezione. Mio cugino era decisamente un bel bambino, più alto di me con i capelli biondi a caschetto e due occhioni azzurri; forse sarebbe diventato come suo padre, che era considerato un gran amatore. Quando era dai nonni passava le sue giornate a mangiare prugne acerbe e a cagarsi addosso, facendo, per la verità, un po’ schifo. Ora che è diventato adulto, non mangia più prugne ma in compenso entra e esce di galera.
Un bambino con cui giocavo volentieri, era il figlio del proprietario del negozio di alimentari, eravamo inseparabili, tanto che tutti ci prendevano per fratelli. Ero affascinato dalla sua casa, costituita dalle poche stanze di un retrobottega, per il suo buon odore di roba da mangiare. Vendevano di tutto: prosciutto, salame, formaggetta e focaccia normale,col formaggio alla salvia, alle olive. Quegli odori così forti a volte mi davano la nausea e allora mi mettevo sotto il naso un mazzetto di menta.
Da tutte le parti si vedevano dei soldi e pensavo fossero molto ricchi: “Da grande voglio aprire una bottega come questa” dicevo tra me. Oggi quel ragazzo è diventato avvocato e si pavoneggia come fosse un Dio, è entrato in politica, e da buon commerciante si è venduto bene a vari partiti, riuscendo sempre a mantenere la sua poltrona.
Il mio maggiore divertimento era quello di andare nel piccolo campo dove lo zio, non essendoci la discarica, portava tutta la rumenta. Mi sembrava di entrare in un mondo incantato, fatto di continue sorprese. Lì trovavo gli oggetti più strani e fantasiosi, ritornavo a casa carico di roba, e non giocavo più con i miei giocattoli, finché mio padre preso dal nervoso, non me li buttava via urlandomi: “Mettiti a studiare, non vorrai mica diventare uno spazzino?” Diceva quella parola con tutto il suo disprezzo.
Quando lo zio decideva di ripulire il campo, accendeva dei falò che bruciavano fino a tarda sera e io passavo delle ore a guardare i fuochi, immaginandomi di essere in un accampamento indiano.
Al mattino svegliandomi andavo subito a vedere se i fuochi fossero ancora accesi e provavo una gran delusione. Nel vedere le macerie fumanti, mi veniva quasi da piangere: “Maledetti visi pallidi” pensavo tra me.


CAPITOLO SESTO

Stasera non riesco proprio a dormire, sento il rintocco dell’orologio del vicino campanile, sono già le tre e non ho ancora chiuso occhio. Mi fa rabbia il russare di mia moglie, mi piacerebbe svegliarla e raccontarle i miei pensieri, ma sarebbe una cattiveria. Di alzarmi non me la sento, abbiamo spento il riscaldamento e la casa deve essere in una morsa di freddo, è molto meglio che me ne stia al caldo sotto le coperte, vorrei trovare una posizione che mi conciliasse il sonno, per non pensare più a niente, ma un altro ricordo improvviso mi affiora alla mente.
In una calda giornata estiva, era arrivato carico di bagagli alla stazione di C…, un famoso scrittore, non aveva proprio l’aria del professore, troppo curato nell’aspetto e con i vestiti firmati, sembrava spaesato, capitato nel nostro paese per caso. Si diceva fosse anche un gran giocatore di carte: aveva messo a punto un sistema infallibile per vincere e fino ad allora era ancora imbattuto. Vestito di bianco, dal cappello alle scarpe, era accompagnato da due donne più giovani di lui di almeno vent’anni, una doveva essere la moglie e l’altra la segretaria, ma da come si comportavano sembravano tutti e tre molto intimi. Erano arrivati carichi di valige troppe per un breve soggiorno, si erano guardati attorno cercando un facchino, che nella nostra stazione non esisteva ma non si erano persi d’animo trascinando i bagagli avevano raggiunto la fermata della corriera.
Stranamente invece di alloggiare all’Hotel Sereno, avevano preferito la Pensione Fiorita, unico albergo nel piccolo paese dell’entroterra. La Pensione Fiorita era la casa più grande del paese tre piani completamente disabitati, al mattino si animava, le persiane venivano aperte e dalle camere giungevano voci di donne che cantavano. Erano le figlie del proprietario che facevano le pulizie, nel pomeriggio tutto ritornava tranquillo.
La mattina i tre nuovi arrivati facevano delle passeggiate in campagna, vestiti come se dovessero affrontare chissà quali difficoltà, assomigliavano a degli esploratori, o si limitavano a bighellonare per il paese, nel pomeriggio invece scomparivano, si diceva andassero giù in Riviera, in qualche spiaggetta isolata a prendere il sole completamente nudi.
Nel paese abitava un certo signor Felice, un contadino, aveva imparato a giocare a carte da un uomo di passaggio e si era talmente appassionato al poker che aveva trascurato i campi e la moglie. Godeva fama di grande giocatore, e così organizzare una partita fu cosa facile, anche se sulle prime il professore aveva detto di voler trascorrere le ferie in santa pace.
Luogo scelto per la sfida fu la trattoria di Pietro, una misera stamberga che serviva da ristoro ai viandanti di passaggio e di sera funzionava come bar, vi si serviva soltanto per poche lire, vino fatto col bastone ma era il posto ideale per non dare nell’occhio. C’erano parecchi tavoli ricoperti da tovaglie a quadrettini rossi, con macchie dalle forme e dai colori più strani, tutto rimaneva in penombra e la poca luce giallastra non riusciva a illuminare la stanza. Il bancone era enorme, di marmo grigio, sempre bagnato, sugli scaffali impolverati qualche bottiglia di amaro e una di marsala all’uovo.
L’odore del minestrone fatto di fagioli borlotti, patate, melanzane, fagiolini, zucca, cavolo e pesto, si mescolava a quello dello stoccafisso insaporito dai funghi, dalle acciughe salate e dai pinoli.
Pietro era un essere insignificante, completamente in balia della moglie, parecchio più giovane di lui che aspettava solo la morte del pover’uomo per diventare l’unica proprietaria. L’aveva relegato in cucina, mentre lei faceva la civetta con i clienti; non era raro vederla appartata con qualcuno, e quando veniva chiamata, arrivava di corsa, un poco spettinata, aggiustandosi il vestito arrotolato sopra il ginocchio e suscitando le risa di tutti, diceva: “Non si può mai fare un poco di pipì in pace”.
Il tavolo da gioco fu ricavato nella cucina e ci vollero ore e la buona volontà di qualche ragazzino per rendere il locale un poco accogliente.
Per non fare brutta figura con l’ospite si comprò del whisky all’emporio di C…, e si fecero scomparire quel vino schifoso, i pentoloni sporchi e tutta la roba da mangiare. Finalmente la sera della grande sfida arrivò. Il signor Felice si presentò con quasi un’ora di ritardo, impacciato, era la prima volta che si metteva un vestito con la cravatta, il professore non si era ancora visto. La cucina era stata trasformata, sembrava di essere in una bisca clandestina, se non fosse stato per quell’odore nauseabondo di mangiare. Vi era un solo tavolo con sopra una coperta verde rimediata non si sa dove e quattro seggiole scelte con cura a scanso che qualcuno finisse con il culo per terra. Una fioca luce illuminava il tavolo e tutto il resto dell’ambiente rimaneva quasi al buio.
La moglie del Pietro, cercava qualcuno per strofinarsi, ma nessuno sembrava accorgersi del suo abito lungo e scollato, tanto era l’emozione per l’imminente partita. Le poche persone che avevano ottenuto l’invito, si voleva evitare la confusione perché la sala era veramente piccola, fumarono molto nell’attesa del professore e qualcuno già diceva che non si sarebbe presentato.
Quando allo scoccare della mezzanotte lui arrivò, nella sua tenuta bianca, accompagnato dalle due donne vestite da sera per l’occasione, ci fu il panico per trovare altre due seggiole decenti. Non chiese nemmeno scusa e con destrezza incominciò a dare le carte e a vincere una partita dietro l’altra.
All’alba, il signor Felice stava perdendo una fortuna, aveva ipotecato tutti i campi e aveva smarrito tutta la sua sicurezza. Nell’ultima partita il piatto era salito alle stelle, erano rimasti solo loro due, il signor Felice aveva un colore, fece il suo rilancio sbattendo sul tavolo le sue chiavi di casa, andarono a vedere le carte, ma il colore contro una scala reale, non bastò.
Il professore era veramente soddisfatto, abbracciò le due donne e fece per alzarsi dal tavolo, quando all’improvviso entrò Pietro sventolando un giornale e gridando a squarciagola: “Altro che professore, quello è un furfante ricercato in mezza Italia, guardate qui!”.
Fu un attimo e tutti si misero all’inseguimento del farabutto, che nel frattempo, come un gatto se l’era svignata, ma del professore nessuna traccia. Forse si erano rifugiati alla Rosa Fiorita, senza un mandato fecero irruzione nella stanza ma era vuota, soltanto dei vestiti e una borsa piena di soldi. Fu un attimo e si prese la decisione: i vestiti sarebbero andati alla moglie di Pietro, per quanto riguardava i soldi, dopo aver risarcito il povero Felice ne rimanevano ancora, se li sarebbero divisi tra i pochi invitati alla grande partita.
Tra donne e vari casinò sarebbero presto finiti e la vita del piccolo paese sarebbe ritornata alla normalità. I vestiti della moglie del Pietro stavano lì a perenne ricordo di quella bellissima serata.
Intanto il campanile ha battuto le quattro, gli occhi si stanno per chiudere, questa volta riuscirò a dormire.


CAPITOLO SETTIMO

Mi sembra di aver dormito parecchie ore e invece quando mi sveglio non sono nemmeno le sei, ho tutto il tempo di prepararmi per il mio solito appuntamento, mia moglie intanto continua a dormire come un orso. Timidamente come un diciottenne alle prime armi allungo una mano e le accarezzo il corpo, dapprima con distacco, poi prendendoci gusto. Mi avventuro tra la piega del sedere e mi metto a giocherellare con dei pelucchi un poco capricciosi, lei sembra infastidita e si agita nel sonno, forse le è venuto anche freddo, perché inavvertitamente l’ho scoperta quasi completamente poi si volta su un fianco in una posizione di difesa.
Qualcosa si agita tra i miei pantaloni, delle strane idee mi vengono in testa, ma subito ritorno alla realtà, mi capita spesso di avere un’erezione al mattino, ma il medico dice che è tutta colpa della prostata. Potrei rimanere ancora un poco sotto le coperte, ma ho voglia di farmi un buon caffè, mi sento stordito ed è quello l’unico rimedio per rimettermi in sesto.
Non mi sembra proprio Natale, quest’anno non abbiamo fatto nemmeno l’albero, Monica non ha avuto voglia di tirare giù gli scatoloni dalla soffitta. È inutile quindi che vada in sala a vedere se è arrivato Babbo Natale, e poi in questa casa non abbiamo nemmeno il camino, da dove sarebbe potuto entrare?
Il vecchio giornalaio mi ha già portato il giornale, di solito sfoglio le pagine saltando quelle di politica e a dire il vero non riesco mai a trovare un articolo che mi interessi, in cinque minuti sono già arrivato alla fine, è una spesa che potremmo eliminare. Oggi invece un articolo attira la mia attenzione, è un fatto di cronaca nera accaduto in un piccolo paese del meridione: un operaio di trentacinque anni trovato morto in aperta campagna, due colpi, uno alla tempia e l’altro conficcato nel cruscotto dell’auto. Il fatto è di per sé insignificante visto la zona, uno sgarro, un regolamento di conti. Il colpo di scena però avviene qualche riga più sotto ed è la confessione di una giovane donna che la notte del fatto di sangue si trovava con l’operaio in macchina. Lui avrebbe estratto la pistola per costringerla ad avere un rapporto sessuale, ma dopo la sua reazione di sfottò, lui aveva desistito e dopo pochi minuti si era puntato la pistola alla tempia e aveva premuto il grilletto. Che bella storia per un mio racconto.
Devo aver fatto rumore perché Monica si è svegliata e mi raggiunge in cucina, è da tanto che non facciamo colazione assieme. È tutta assonnata, ha ancora la faccia stropicciata dalla notte. Le verso una tazzina di caffè, e già si è accesa una sigaretta.
Sembra nascondermi qualcosa, ha in mano un pacchetto, sono curioso, lei se ne accorge e vuole tenermi sulle spine, poi finalmente si decide e me lo porge dicendomi: “Auguri caro e buon Natale”. È un maglione di cachemire, me lo infilo subito, è molto caldo e deve starmi anche bene. Abbiamo finito di fare colazione e ci mettiamo d’accordo sulla nostra gita, apriamo le finestre per vedere com’è il tempo; è una giornata serena e sicuramente quando il sole spunterà sarà anche calda.
In strada c’è poca gente, qualche vecchietta infreddolita ha deciso di andare alla prima Messa, si vede che non ha nessun bambino a cui dare i regali. In lontana le campane suonano a festa, ma il rumore mi arriva deformato. I negozi sono chiusi, per tutta la giornata non apriranno, le vetrine sembrano aver subito un saccheggio, le insegne sono spente, fra qualche giorno toglieranno anche le luminarie e la via ritornerà a essere immersa nel buio. Pur non essendo una giornata lavorativa, vedo del movimento in parecchi appartamenti, per lo più sono bambini che cercano i regali e donne che incominciano a preparare il pranzo di Natale, sbattendo le pentole per farsi sentire. Il vecchio Babbo Natale è già in piedi e sta disfacendo la sua casa, ha deciso di cambiare aria.
Mi accingo ad andare nel bagno per farmi la barba, è una settimana che non mi rado, sono quasi le sette, devo affrettarmi se non voglio arrivare in ritardo. La mia immagine riflessa nello specchio mi mette a disagio, a stento riesco a riconoscermi, mi volto di scatto per vedere se per caso qualcun altro è entrato. Il repentino movimento mi procura una ferita alla faccia, mi sono tagliato con il rasoio, il sangue incomincia a sgorgare copioso e a macchiare il lavandino, ma sono contento, è questa l’unica certezza di essere vivo. Arrivo in stazione per il solito appuntamento, incomincio a bighellonare, a seguire due binari morti, alcuni metri e passo accanto ad una costruzione abbandonata, una volta era un deposito per il materiale della manutenzione dei binari, ora è diventato il rifugio di un gruppetto di barboni fortunati perché hanno una porta di legno, finestre, e un pavimento. Al fondo della costruzione c’è una tettoia arrugginita, e sotto la carcassa di una vecchia Fiat 131. Pezzi di cartone al posto di vetri e parabrezza, sui sedili mucchi di immondizia su cui, non c’è dubbio qualcuno dorme. Più avanti trovo carrozze-bestiame, a quell’ora sono case vuote, il popolo dei vagoni si è già disseminato per la città. Quasi tutti i portelloni sono chiusi, in modo che da fuori sembri tutto normale, a parte quintali di rifiuti sotto le carrozze. Odori di fritto e cibi avariati si mescolano agli insopportabili fetori di chi, per orinare, non fa neppure la fatica di scendere dalla carrozza.
Sono le nove quando faccio ritorno, mia moglie si sta ancora preparando, si sta facendo bella, mi vuole mettere in imbarazzo, mi siedo in poltrona e per ingannare l’attesa mi metto a leggere un libro. Il suono delle campane si fa insistente, per la strada si sente del movimento e gli odori del mangiare si diffondono nell’aria. La signora Pinuccia che sta sopra di noi deve aver fatto l’arrosto al latte e si prepara ad impastare, si respira odore di festa, nella nostra casa odore di pulito.
Mia madre nei giorni di festa, aveva l’abitudine di alzarsi presto per preparare il pranzo. Non era una brava cuoca e più che cotolette alla milanese non faceva, ci si alzava al mattino con l’odore di fritto mescolato al profumo delle erbette che usava per arricchire l’impanatura, crescevano proprio dietro casa, dove picchiava di più il sole. Quell’odore l’ho incontrato nelle mie gite in collina al paese dello zio, mi piaceva passare delle ore con la faccia affondata nella terra a sentire il profumo dolciastro della menta o quello più amarognolo di erbe di cui non conoscevo il nome, il tutto mischiato all’odore di terra e di salmastro che arrivava dal mare.
La domenica si andava tutti e tre alla Messa delle undici e mio padre quando era pronto incominciava ad urlare perché non voleva arrivare a Messa iniziata. La mamma si chiudeva in bagno fintanto che mio padre, andando su tutte le furie picchiava un pugno sulla porta, allora usciva imbronciata e ancora spettinata. Non mi piaceva andare in chiesa perché non sopportavo l’odore di incenso e di candela e appena arrivavo a casa mi cambiavo di abito, mi rotolavo per terra e strappavo una foglia di menta mettendomela sotto il naso.


CAPITOLO OTTAVO

Monica finalmente esce dal bagno, la mia attesa è stata premiata, se ne vedono raramente di sessantenni così belle. Ha un vestito scuro, un pelo sopra il ginocchio, scollato sul davanti a far vedere l’attaccatura del seno, due gambe magnifiche intrappolate da un paio di calze nere e le scarpe col tacco alto, sembrano messe apposta per umiliare la mia statura.
Se non fosse per la mia età la sbatterei sul letto e al diavolo la gita. Lei deve aver intuito cosa mi passa per la testa, fa la civetta, mi prega di chiuderle la cerniera e mi viene incontro mostrandomi un pezzo di schiena nuda, che aspetta di essere accarezzata. Ha la pelle di seta, la mano affonda verso il sedere ma lei non sembra gradire l’avance, mi metto a trafficare con la cerniera che mi fa dannare, lei mi dice: “Non ti cambi? Il taxi sarà qui a momenti, almeno il giorno di Natale”.
Ha ragione sono sempre vestito un po’ come mi capita, non mi piacciono la camicia e la cravatta, mi sembra di essere legato, le rispondo impacciato: “Ma cara, sarebbe un peccato non mettere il maglione che mi hai regalato”, lei sorride e subito aggiunge: “Va là, sei il solito pelandrone”.
Dalla strada già si sente il clacson del taxi che ci invita a fare presto, chiudiamo il gas, spegniamo la luce e ci infiliamo i cappotti, anche se a dire il vero non dovrebbero servirci. Il tassista ci ha visti e sembra rinfrancato, butta via la sigaretta e ci apre la portiera, non ci ha quasi salutato, ci domanda solo la destinazione. Mi sono già pentito di aver accettato l’invito ad uscire, la guardo negli occhi, lei sembra felice, potrei stare zitto e invece le dico: “Non sarebbe stato meglio farlo a casa? Benedetti figlioli dovevano andare a sciare proprio il giorno di Natale?”. Monica la prende bene: “Già Natale con i tuoi e Pasqua con chi vuoi, e poi lo sai che non sono una gran cuoca, tua madre invece…”, e si ferma scoppiando in una sonora risata.
La macchina corre via veloce, non c’è traffico e le poche auto che incrociamo sembrano darci la precedenza, ma non riesco a rilassarmi, ho troppa paura della velocità, sarà anche per questo che non ho mai voluto prendere la patente. Mia moglie mi ha preso la mano, sembriamo due sposini in luna di miele, il tassista ci guarda attraverso lo specchietto e scrolla la testa. È soltanto qualche minuto che siamo in macchina e già non mi orizzonto più, Genova per me è soltanto quel quartiere, un poco caotico dove abito e pochi altri luoghi che quotidianamente frequento. Dal finestrino un paesaggio spettrale fatto di un solo colore, il marrone, sangue rappreso di fabbriche quasi abbandonate, imponenti e minacciose, ormai draghi senza fuoco.
Ancora enormi edifici grigi, dalle piccole finestre rotte e dalle scritte colorate che quasi non si leggono più. Qua e là intravedo qualche chiazza di colore, un deposito di autobus arancione, uno spicchio bluastro del mare. Il porto è arrivato dovunque con la sua diga ad ammazzare il mare, le piccole baracche dei pescatori fatte di lamiere e compensato sono andate in malora, qualcuno un tempo lì aveva osato coltivare dei fiori.
Sarebbe l’occasione per fare il turista, ma la mia attenzione è riservata tutta alla radio del taxi, che con voce monotona continua a sbraitare parole senza senso: “Alfa 36, Beta 45”. Guardo il tassista e mi chiedo perché non risponda, cerco l’appoggio di mia moglie, sta guardando fuori, le stringo la mano, lei si volta e mi guarda con un mezzo sorriso, soltanto adesso mi accorgo che non si è messa il collier che le ho regalato. Vorrei domandarle il perché, ma non faccio in tempo, siamo arrivati.
È ancora presto per andare a mangiare, decidiamo di fare una passeggiata, il sole è ormai alto, incomincia a scaldare, così ci togliamo il cappotto. C’è molta gente, per lo più bambini che provano i loro giocattoli: la macchinina telecomandata, la bicicletta nuova fiammante, più indietro stanno i papà, un poco annoiati, leggono il giornale e di tanto in tanto alzano gli occhi per controllarli invitandoli a non scalmanarsi e a non sudare. Sullo sfondo il mare sembra in imbarazzo, le barche sulla spiaggia paiono disegnate, in giro non ci sono pescatori, deve essere tutta una finzione, nell’aria non c’è neppure odore di pesce o di refrescume. C’è venuta sete, ci fermiamo in un bar e ordiniamo un aperitivo sedendoci fuori come due turisti. Monica mi prende la mano e mi dice:
“Te lo ricordi il viaggio di nozze? Dovremmo rifarlo, mi piacerebbe tanto”.
Io avevo trent’anni ed ero ancora scapolo, alcune storie l’avevo avute ma mi erano scivolate addosso senza coinvolgermi più di tanto. Ero in un periodo di crisi profonda, il mio lavoro non mi dava nessuna soddisfazione, mi ero messo a scrivere libri e volevo diventare un apprendista stregone, come nella storia che mio zio un giorno mi aveva raccontato.
“In un paese c’era una casa da dove veniva sempre della musica, e questo disturbava gli abitanti che non riuscivano a dormire. Il proprietario era un uomo strano, un uomo di lettere che stava tutto il giorno sui libri, e mai si faceva vedere in giro. Qualcuno diceva che si portasse dietro una gobba da far paura, e che la sua faccia fosse piena di cicatrici, segni di combattimenti non si sa se vinti o persi. Ai bambini non era permesso passare davanti alla casa, per paura che a qualcuno di loro potesse capitare qualcosa di male. Dopo mesi di notti insonni, lo chiamarono in strada e con una zappa lo colpirono alla testa. Fatto questo, andarono in casa, presero tutti i suoi libri, li portarono in piazza e fecero un gran falò. Le fiamme scaturite dai libri, erano di tutti i colori, verdi, gialle, blu, rosse e il fuoco scoppiettava paurosamente formando nell’aria dei piccoli mostri che avevano preso a bastonate la gente che era accorsa numerosa”.
Fu così che influenzato da quella storia cominciai a scrivere libri, forse per sentirmi onnipotente; mi piaceva congegnare un racconto con un bel personaggio, potevo dire a me stesso di aver creato un uomo ed essere soltanto io padrone del suo destino. A me soltanto sarebbe spettata l’ultima parola, l’avrei potuto uccidere, anche solo per un capriccio. Mi misi a frequentare gli ambienti letterari genovesi, che altro non erano che comunissimi bar malfamati, dove accanto agli artisti sedevano delle puttane. Fu proprio in uno di questo posti che conobbi Monica, era una cantante jazz, si dava arie da grande artista e forse lo era, ma quello che mi colpì maggiormente furono le sue chiappe dure e sporgenti che facevano da contrappeso a due tette che faticavano a stare dentro una maglietta troppo attillata. Non so come riuscii ad agganciarla, ma dopo nemmeno un mese eravamo sposati, il viaggio di nozze lo facemmo in un posto di mare, che vedemmo soltanto dalla finestra della stanza d’albergo, o in qualche rara passeggiata. Intanto parlavamo volentieri dei nostri progetti: avevamo in mente di mettere su una commedia musicale impegnata. Tutto finì, nove mesi dopo, alla nascita del nostro primo figlio, Monica cambiò radicalmente si scoprì mamma a tutti gli effetti. Mi costrinse a proseguire il mio lavoro di medico e ad abbandonare la letteratura in quanto non dava da mangiare e con un bambino piccolo bisognava essere responsabili, era cresciuta di colpo.


CAPITOLO NONO

Il sole si fa sentire, dovunque mi giri me lo trovo davanti, chiamo il cameriere per il conto, bevo l’ultimo sorso rimasto nel bicchiere, sono quasi le tredici, è ora di andare a mangiare.
Il ristorante è davvero lussuoso e i camerieri ossequiosi, ci sistemiamo in un tavolo vicino alla veranda, da quel punto si gode una vista stupenda, il mare è ritornato a fare il suo mestiere è davvero una magnifica giornata. La sala è deserta, ci sono soltanto due vecchiette dall’aria signorile che dividono il pranzo con un animaletto che a occhio e croce dovrebbe essere un cane, gli parlano in continuazione come potessero ottenere una risposta. Nell’aria nessun odore di mangiare, tutto sa di pulito come a casa nostra, ho nostalgia della trattoria di Pietro coi suoi odori e la sua puzza di sporco. Potevi vedere la cucina e il Pietro che bestemmiava e si asciugava il sudore con uno strofinaccio unto.
Natale è usanza passarlo in casa, qui abbiamo due camerieri tutti per noi, che quasi ci infastidiscono con la loro continua presenza. Uno è alto e magro, fatica a stare diritto con le spalle, l’altro è grasso e piccolo con la stessa faccia del cagnetto delle vecchiette, l’unica cosa che i due hanno in comune sono dei minuscoli baffetti che sporcano il viso. Mia moglie mi sussurra all’orecchio: “Mi sembra troppo lussuoso”, è veramente preoccupata, le sorrido e le faccio vedere i soldi, ma lei ribatte:“ E poi al signor Antonio che cosa gli diamo?”. È stata lei che ha insistito per comprare la casa e adesso ha paura di non farcela, alla nostra età avremmo potuto evitarci questa preoccupazione, certe cose bisogna farle da giovani.
“Domani è un altro giorno”, rispondo e mi avvento su un piatto di risotto ai frutti di mare, è da tanto tempo che non mangio così di appetito e mia moglie sembra imitarmi. Per la verità non è che sia un gran che, un poco slavato, è difficile sentire il gusto dei muscoli, delle arselle, dei datteri, dei tartufi di mare, l’odore del mare è sopraffatto dall’aglio, dalla cipolla e dall’amaro del prezzemolo.
Continuo a guardare il mare come per non lasciarmelo scappare, ma una cosa mi colpisce, sulla spiaggia proprio in fondo al lungo mare, c’è una casetta costruita per metà di legno e metà di fango, che un tempo doveva essere servita ai pescatori come magazzino e qualche volta per scappare alle grinfie di una moglie petulante o per bersi un bicchiere di vino in compagnia. Ora da come si presenta deve essere andata in rovina e serve come riparo alle bestie randagie, è molto simile, direi identica a quella che c’era al mio paese.
Spesso a differenza dei miei amici, che andavano a caccia di ragazze, mi facevo una lunga scarpinata fino alla casa, mi stendevo sulla arena umida e aspettavo l’arrivo dei pescatori e non c’era volta che non gli preparassi un caffè caldo che mostravano di apprezzare. A volte mi mettevo a parlare con dei vecchi che non andavano più per mare e si limitavano ad aggiustare le reti.
Fu così che venni a sapere che molti anni prima, quando non ero ancora nato, viveva con loro una vecchia che amava raccontare strane storie, prima di mezzanotte si addormentava sulla sedia e appena addormentata si trasformava in qualche uccello, un’aquila e anche in un moscone. La gente del paese raccontava di una gazza che faceva dispetti e combinava guai in tutte le famiglie. I vecchi dicevano che la madre della vecchia era emersa un giorno dal mare completamente nuda e subito aveva intrecciato una danza con le onde. Un forte vento si era alzato alle sue spalle, si era voltata di scatto e aveva incominciato a danzare con lui a ritmo sempre più selvaggio, la danza si era trasformata quasi subito in un amplesso con grida e sussurri intervallati. Era rimasta incinta e aveva partorito un uovo che schiudendosi aveva portato alla luce un meraviglioso uccello esotico, dalle piume colorate.
Fu subito dopo quel racconto che intravidi vicino alla casa una ragazzetta che quando facevo per avvicinarmi sembrava scomparire nel nulla. Non ero mai riuscito a guardarla in viso, ma chiedendo un po’ in giro, venni a sapere che era la figlia di Tommaso, il proprietario di un piccolo negozio dove si vendeva di tutto, dal pane alle sigarette. Si diceva fosse un poco matta, dopo giorni di appostamenti, una sera all’imbrunire la sorpresi proprio dietro una barca, cercò di scappare ma io le piombai addosso, aveva la forza di una tigre e per poco non dovetti soccombere. “Questo è il mio posto sei tu l’intruso”, mi rispose riponendo gli artigli che mi avevano rovinato la faccia.
Era una ragazza piccola, dall’aria mascolina anche grazie a dei pantaloni che doveva aver ereditato dal fratello maggiore, con i capelli a spazzola, sempre spettinati che veniva voglia di accarezzare e la facevano assomigliare a un pulcino appena uscito dall’uovo. Aveva due grandi occhi senza luce che mettevano a disagio e rendevano difficile sostenere il suo sguardo. Il nostro primo incontro si risolse in quelle brevi battute e in quegli sguardi difficili da interpretare, ma da quella sera ci vedemmo tutti i giorni, correvamo per la spiaggia, inseguendo qualche fantomatico animale, ci sdraiavamo su uno scoglio a vedere morire il sole, con le lacrime agli occhi, preoccupati di non vederlo più sorgere. Ma la cosa che più mi attraeva erano i suoi racconti di posti meravigliosi che aveva visitato, io non riuscivo a capire come avesse fatto, ma lei sosteneva che aveva la proprietà di trasformarsi in un uccello. Per un lungo anno cercai di sorprenderla, ma il mio sforzo non fu mai coronato da successo. Se per una ragione o per l’altra lei non si faceva vedere ero io che andavo a cercarla in negozio, mi accoglieva suo padre che si dimostrava gentile, quasi ossequioso, tanto era il desiderio di togliersi quella figlia che nessuno in paese voleva e mi diceva sempre: “Benedetti figlioli dove volete arrivare? L’hai già detto a tuo padre?”
Il signor Tommaso non assomigliava per niente alla figlia, era persino sproporzionato, tanto era grasso e sembrava a disagio in quel negozio troppo piccolo, non c’era volta che al suo passaggio non facesse cadere qualcosa e allora se ne usciva con una bestemmia.
Il mio rapporto con lei durò un anno intero, amava giocare con me come fa il gatto con il topo, qualche volta ci appartavamo dietro ad uno scoglio che ci faceva da scudo e dove solo il mare ci poteva vedere. Lei passava tutto il tempo a stuzzicare il cosino che avevo in mezzo alle gambe e a ridere divertita, ma quando ero io che allungavo una mano, cambiava di umore e la serata finiva in fretta. Un giorno all’improvviso come era comparsa svanì e a nulla valsero le mie ricerche.
Siamo arrivati al caffè e quasi non mene sono accorto, ma dalla pesantezza allo stomaco, devo aver mangiato parecchio. Mi ricordo una meravigliosa aragosta all’origano, un saporito coniglio alla carlona, dal gusto di olive, pinoli, aglio e rosmarino. Monica ha invece una faccia rossiccia, quasi violacea, deve aver bevuto molto, speriamo che non si senta male, non è abituata.
All’improvviso sono attratto da un ronzio, che sulle prime risulta fastidioso, si tratta di un moscone, sembra curioso di conoscere il posto e dopo qualche giro maldestro vorrebbe uscire ma sbatte contro la finestra, mezza chiusa. Finalmente dopo tanti tentativi riesce a volar via, ma non va molto distante, sembra volermi salutare, fa tenerezza, faccio un cenno e gli auguro buon viaggio. Monica mi guarda stupita, forse adesso ha la certezza di vivere con un matto, sono in imbarazzo, mi alzo di scatto e mi dirigo verso il bagno, ho bisogno di fare un po’ d’acqua.
Quando ritorno il caffè è ormai freddo, faccio per metterci lo zucchero, quando mi accorgo che nella tazzina c’è un moscone morto, un forte vento di tramontana spalanca improvvisamente le finestre. Sono fuori di me, chiamo il cameriere per delle spiegazioni, non sa cosa dirmi, anche il padrone sentendo tutto quel frastuono, si è avvicinato, mi porge le sue scuse, che quasi non sento e riacquisto la ragione soltanto dopo aver inteso che non avremmo pagato il conto.
Poco dopo siamo sulla passeggiata, l’aria si è fatta fresca non ci resta che tornarcene a casa. Monica ancora ride per la scena del ristorante e mi dice: “ E’ stata una magnifica giornata”. Le rispondo soprappensiero: “ Certo se non fosse stato per quel moscone nel caffè”, una lacrima solca il mio viso.


CAPITOLO DECIMO

E’ da qualche anno che non faccio altro che andare in stazione, è l’unico svago che mi prendo. Con il caldo o con il freddo mi siedo sulla solita panchina e aspetto il diretto delle sette e trenta. I vagabondi della notte disfano i loro letti, ripiegando i giornali che qualcuno più istruito legge per passare il tempo. Li conosco tutti e quando non ne vedo qualcuno mi preoccupo subito.
Il treno ha una motrice aggressiva, anche se si porta dietro quattro carrozze disastrate. Spio attraverso i finestrini, mi sembra di riconoscere qualcuno, grido un nome, nessuno si volta, il capostazione lo sa già e mi guarda con commiserazione, ma è sempre gentile.
Stamattina, invece senza sapere come mi ritrovo sul treno, ne ho la certezza soltanto quando sento un forte odore di tabacco francese, lo stesso che fumava mia madre, e facendo uno sforzo riesco persino a sentire l’odore del mare e del pesce appena pescato. Cullato da quel torpore, tiro le tendine che sanno di vecchio e muffa, intanto per almeno mezz’ora non c’è niente da vedere, se non fabbriche in disuso, palazzoni senza vita e mi domando come abbia fatto a vivere per cinquant’anni in questa città.
I miei compagni di viaggio sono rumorosi, i più piccoli non riescono proprio a stare fermi e mi trascinano nei loro giochi chiamandomi nonno. Il più piccolo si chiama Andrea, è una vera peste, avrà circa tre anni, ha una faccia sveglia, mi sta tremendamente simpatico, anche se continua a tirarmi negli stinchi dei calcioni che fanno davvero male.
I genitori hanno smesso di rimproverarli, sembrano disinteressarsi, parlano fitto, fitto io intanto mi sono tolto le scarpe, a dispetto dell’odore di gorgonzola dei miei piedi, e mi metto a ballare sui sedili, tenendo per mano i bambini. Due vecchi signori dall’aspetto distinto scrollano la testa, continuando a ingurgitare cioccolatini alla menta senza offrirne a nessuno.
Le fermate si susseguono l’una all’altra, le stazioni sono tutte uguali con quel colore di ferro arrugginito, senza una panchina, una sala d’attesa decente, con gli orologi che scandiscono ore strampalate. I compagni di viaggio cambiano in continuazione e quasi non me ne accorgo tanto sono preso dal gioco, sono ritornato bambino anch’io, anche se a dire il vero non sono mai stato un giocherellone.
All’improvviso Andrea mi scivola dalle mani e va a sbattere contro qualcosa di duro, si mette a urlare fino a trattenere il respiro, dal labbro gli esce un rivolo di sangue, corre da sua madre e si rifugia tra le sue sottane, la donna finalmente smette di parlare e cerca di consolarlo, mi sembra che mi guardi male, forse mi ritiene responsabile dell’incidente, il sangue ha smesso di uscire, lo scompartimento ritorna silenzioso, i bambini si sono messi quieti e leggono dei giornalini, la donna ha ripreso a parlare con il marito che non si è nemmeno scomposto. Mi piace intrufolarmi nei discorsi della gente e così tendo l’orecchio, devono avere qualche problema economico, ma non riesco a capire di cosa si tratti e maledico la mia sordità.
Il tempo passa in fretta, le stazioni prendono colore, i nomi dei paesi sono disegnati con fiori colorati, qualche vecchio porta il nipotino a vedere i treni che passano. I bambini sono attratti dai treni che non si fermano e passano talmente veloci che, lo spostamento d’aria, quasi li butta per terra, gli orologi hanno smesso di fare i capricci.
Il treno ora costeggia il mare, la famiglia di Andrea è arrivata a destinazione e incomincia a vestirsi, riprende la cagnara, questa volta mi da fastidio, finalmente scendono senza salutarmi. Faccio per accarezzare la testa di Andrea e per tutta risposta ricevo un calcione che mi toglie il respiro, a fatica mi trattengo dal dargli un ceffone.
Lo scompartimento rimane vuoto, potrò godermi la vista del mare, il treno riprende lentamente la sua marcia, sembra stanco, quasi faccia fatica a portarsi dietro quelle carrozze. Intanto un altro passeggero si è seduto proprio di fronte a me e mi guarda intensamente. È un vecchio dall’aria dimessa coi vestiti consumati, dai colori troppo sgargianti che mal si accordano tra loro, forse un barbone.
Due grossi baffi alla Stalin, me lo rendono familiare, si tratta di Giuseppe Tarlini, primo sindaco del paese di Teu, appena finita la guerra. Il corpo è deformato dal peso, occupa due posti, deve aver difficoltà a muoversi, i capelli neri e ricciuti sono caduti come foglie in autunno, lasciando la testa nuda come una palla da biliardo.
Era una fredda mattina d’inverno del’44, me lo ricordo perché era nevicato anche in Riviera, quando abbandonai la casa dei miei genitori per unirmi a una banda partigiana. La guerra l’avevo scansata grazie al mio fisico e a una conoscenza di famiglia, ma ora volevo anch’io schierarmi da una parte. Il fascismo non mi piaceva, non chiedetemi il perché, di politica ne sapevo poco, era più che altro un fatto epidermico.
Girovagai per una intera notte, bagnato fradicio, ricordandomi di non aver scritto nemmeno una lettera ai miei, ma ormai non potevo più tornare indietro. Affittai una bicicletta e inizia la salita che portava alla casa dello zio, ma la dovetti abbandonare quasi subito e proseguire a piedi. La neve mi ricopriva le scarpe poco adatte a quel paesaggio montano, le dita dei piedi non me le sentivo più, ma andavo avanti con lena, guardandomi attorno e godendo di quel silenzio interrotto soltanto dalle mie scivolate e dal mio battere i denti. In poco tempo riuscii a raggiungere la fontana della mia infanzia, dove spesso andavo con lo zio, divertendomi a tirare le pietre nell’acqua, mentre lui continuava a bere e io mi aspettavo, da un momento all’altro, di vederlo scoppiare. Si faceva fatica a riconoscerla, la neve aveva completamente cambiato il paesaggio, mi fermai un attimo dovevo decidere dove sarei andato, non potevo girare per giorni alla ricerca di qualche partigiano, forse l’oste avrebbe potuto aiutarmi.
Mi accesi una sigaretta, era la prima volta che fumavo, avevo fregato un pacchetto a mia madre prima di partire, le prime boccate furono alquanto schifose e mi fecero tossire ma mi ci abituai quasi subito e presi a giocherellare con le nuvolette di fumo che si mischiavano a quelle del mio fiato. Stavo per riprendere il cammino quando mi accorsi che non ero solo, qualcuno faticosamente stava salendo per la stessa strada, mi sdrai sulla neve quasi a scomparire. All’ultima curva mi comparvero davanti quattro ragazzi che dovevano avere all’incirca la mia età, capii che erano partigiani dal fazzoletto rosso che portavano al collo e che contrastava con la neve bianca come il latte.
Erano ben equipaggiati con giubbotti di pelle e con stivaloni militari, ognuno portava con sé un fucile più grosso di lui e una barba di alcuni mesi gli conferiva un’aria più adulta. Avevano incominciato ad intonare le note di bandiera rossa, forse solo per spezzare il silenzio della vallata, e quando mi presentai loro, tacquero improvvisamente, dovevo sembrare un morto resuscitato, e un poco in ritardo imbracciarono il fucile.
Io mi misi a urlare: “Non sparate sono un partigiano anch’io”. Ci sedemmo sulla neve fresca, venni a sapere che facevano parte di una squadra di circa trenta uomini, che aveva operato nella zona, erano rimasti soltanto loro, e ora cercavano di raggiungere il comando militare.
Due erano studenti liceali di Torino esili come spighe di grano battute dal vento, l’altro era un operaio genovese, tozzo come un paracarro e il quarto, quello che parlava sempre, il teorico della brigata, l’unico ad essere comunista.
Accettai di buon grado di unirmi a loro, ero finalmente diventato partigiano a tutti gli effetti, ricevetti persino una pistola, una berretta, chiesi il fazzoletto rosso ma mi dissero: “A suo tempo”. Riprendemmo il cammino, le note di bandiera rossa si alzavano alte nell’aria.
A mezzogiorno eravamo nei pressi di S…,avremmo pranzato in un’osteria che conoscevo, ma alle prime case il silenzio fu interrotto dal fuoco di una mitragliatrice e la neve si riempì di sangue, come migliaia di fazzoletti rossi. Incominciai a correre, sbattendo contro gli alberi, incespicando nei sassi che fuoriuscivano dalla neve, finché il buio della sera non mi salvò, mi fermai un attimo e caddi a terra svenuto.
Mi svegliai al mattino, ero in un letto pulito e caldo, accanto avevo una donna, sui quarant’anni che mi accarezzava la fronte. Era stupenda, dall’aria autoritaria e severa, ma con gli occhi dolci, le sue forme erano arrotondate, il suo corpo soffice, ma non grasso, mi venne voglia di giocare con il suo ombelico coperto da una lieve pancetta. A mezzogiorno conobbi il marito, si chiamava Giuseppe Tarlini, faceva il contadino e dagli amici si faceva chiamare Togliatti, dal colorito rossiccio della faccia si capiva che amava più il vino che un buon libro di Gramsci o di Lenin.
Quella casa mi stregò, era fatta di pietra, immersa in un boschetto di castagni giovani che lasciavano vedere il cielo, nella parte in ombra c’era odore di muffa, il pavimento era di terra battuta e quando lo si scopava si alzava un gran polverone. La cucina era dominata da un caminetto in pietra e c’era sempre qualche pentola sul fuoco. Il soffitto era tappezzato di aringhe, aglio e salumi che spandevano il loro profumo.
Quella casa mi aveva accolto come un ventre molle da cui non ero capace di uscire, passavo le giornate in compagnia di quella donna, che poteva essermi madre, mi prendeva la mano appoggiandosela sul seno, ci guardavamo in faccia e qualche volta ci scappava un bacio.
Avevamo iniziato quasi per gioco, lei si occupava delle mie ferite, le lavava con acqua tiepida stando attenta a non farmi male, credo che non ci sia stata infermiera più brava. Quando le ferite furono guarite, prese a farmi il bagno, mi insaponava con cura, i suoi occhi si posavano sul mio corpo nudo in ammirazione, come fossi un quadro famoso, raramente ci concedevamo un bagno insieme, il suo corpo nudo e soffice sembrava sciogliersi nell’acqua.
Alla sera dopo mangiato, mi intrattenevo con Togliatti, parlavamo per lo più di politica, lui sosteneva che bisognava fare come in Russia ed io gli davo ragione, non ero imbarazzato con lui per via della moglie, i nostri erano giochi innocenti. Lui continuava a bere vino, a me era permesso soltanto un bicchierino di sidro, gli parlavo di riprendere la via della montagna, lui sorrideva e mi diceva che non ero portato per la guerra. Gli piaceva che parlassi dei miei studi e rimaneva a bocca aperta dicendo: “Ci vogliono degli uomini così al governo”, e ciò mi inorgogliva.
Nel ’45 i miei genitori vennero a prendermi, fu come se mi avessero strappato qualcosa, dovetti ritornare alla realtà, il sogno era finito. Alzo lo sguardo, vorrei chiedergli tante cose, ma già se ne è andato e al suo posto si è seduta una magnifica ragazza che non mi toglie gli occhi di dosso. Deve avere all’incirca diciotto anni e dai libri che si porta dietro si direbbe una studentessa. Indossa una gonna corta, di quelle elasticizzate, e quando accavalla le gambe scopre le cosce, forse un poco grosse. Il suo sguardo penetrante non mi lascia un momento, possibile che con tanti giovani abbia messo gli occhi proprio su di me?
Ma sono un illuso, è solo una bambina che vuole giocare, ma quando si alza per prendere la valigia, scoprendo l’ombelico, mi è difficile trattenermi e decido di andare a prendere una boccata d’aria nel corridoio. Lei sembra soddisfatta, mi guarda con un mezzo sorriso di compatimento, e quando rientro si è infilata il cappotto, ha acceso una sigaretta e non alza nemmeno la testa dal libro.
Non mi resta che guardare dal finestrino paesaggi che pian piano diventano sempre più familiari, il paese ormai è vicino. Non è difficile riconoscere la stazione, è l’unica senza un fiore, mi vesto precipitosamente, il treno non aspetta di certo i miei comodi.
C…,mi appare con la faccia stanca di Pierre, che seduto su una panchina sembra aspettarmi. È un vecchio poeta matto con tante storie da raccontare, da giovane aveva girato il mondo, come mozzo su una nave mercantile, poi arrivato nel nostro paese si era messo a fare il pescatore, ma spirito inquieto era sempre alla ricerca di qualche cosa.
Un giorno mi raccontò che a causa di un incidente, aveva perso la memoria e andava cercando il suo paese e i suoi genitori, se ancora erano al mondo. Un giorno vendette la barca e si mise a fare il pendolare sulla linea Genova-Ventimiglia, lì trovò da mangiare, da dormire e compose le sue poesie migliori, ma almeno fino alla mia partenza, non aveva ancora trovato quello che cercava.
Ora doveva essere stanco di viaggiare, forse non riusciva più a prendere un treno, faccio per chiamarlo, ma è già scomparso nella folla.


CAPITOLO UNDICESIMO

Sono arrivate le bancarelle per la festa di Santo Stefano. Appena fuori dalla stazione sono accolto da una folla rumorosa, a stento si riesce a camminare e il mare sembra scomparso, si sente la sua presenza, solo per l’odore di sale che impasta la bocca. È tutto uno scintillare di luci, di colori, un paesaggio irreale, guardo l’orologio, sono di poco passate le otto, sto forse sognando?
In giro bambini urlano sulle giostre, altri scompaiono dietro a un bastoncino di zucchero filato, sembra di entrare in una fiaba. Si incontrano i personaggi più strani, che solo la fantasia di un bambino potrebbe immaginare: la donna cannone che assomiglia a mia zia Clotilde, l’uomo sui trampoli, il mangiatore di fuoco.
All’improvviso sono attratto dal vecchio carrozzone del tiro a segno più lucente e rumoroso di un tempo. Vicino, un capannello di persone discute animatamente, ci sono anche due uomini in divisa, deve essere successo qualcosa. Chiedo in giro e vengo a sapere che la ragazzina del tiro a segno è accusata di non aver dato il resto a un signore e da questo è nata una rissa.
Mi faccio largo tra la folla con l’autorità di un generale e finalmente riesco a raggiungere la ragazza, sembra un coniglietto appena nato, ma mi è familiare, è la stessa che da ragazzo cercavo di conquistare con gli amici. Non era italiana, aveva la faccia da zingara col colorito scuro, i capelli nero corvino, due occhi che ti ci perdevi e un corpo come se ne vedono soltanto al cinema. I suoi vestiti erano appariscenti, di un colore tanto vivo da sembrare irreali, un arcobaleno estivo. Si aspettava Santo Stefano soltanto per vederla, ma lei non dava confidenza a nessuno. Era accompagnata da un ragazzone che riusciva a piegare le corna del toro senza sforzo.
Ho un po’ di soldi in tasca, li metto in mano al signore, abbozzando una timida scusa e riesco a trascinarla via. Per puro caso raggiungiamo il mare, la ragazza non finisce più di ringraziarmi, le accarezzo i capelli, faccio per chiederle il nome, mi piacerebbe chiacchierare, ma è già scomparsa nel nulla, ho la certezza che non la vedrò più.
I pescatori sfidando il freddo con urli, cantilene in dialetto simili a riti propiziatori, hanno messo in mare le barche, l’acqua è talmente piatta che sembra invitarti a una passeggiata.
È una giornata magnifica con un po’ di fortuna si potrebbe scorgere la Corsica, ma anche sforzandomi, non riesco a vedere nemmeno cosa c’è a pochi metri, dietro a quel promontorio che si sporge minaccioso sul mare, formando una figura mostruosa che con un poco di fantasia, potrebbe assomigliare ad un enorme drago.
Mio padre, quando ero piccolo, mi raccontava che quel posto era infestato da mostri, pronti ad azzannare chiunque tentasse di oltrepassare il promontorio. Difendevano un castello dov’erano tenute prigioniere meravigliose principesse, che amavano, nelle poche ore di libertà, sciogliere sulle rocce i capelli dorati per farli asciugare e cantavano felici.
Sfidando il mare e i terribili mostri, mio padre aveva liberato e portato a casa quella che sarebbe diventata sua moglie. Quella fu l’unica fiaba che mio padre mi raccontava, con questa mi addormentavo, ascoltando senza fiatare, quasi avessi paura di chiedere qualche spiegazione. Non capivo il rossore di mia madre, il suo disagio di far parte di una fiaba. Io ero orgoglioso di aver per madre una principessa, detestavo mio padre che l’aveva liberata, io ne sarei stato capace?
Una barca incustodita, aspetta soltanto di essere presa, il mare è talmente piatto che sembra di essere a terra, ma mi tengo pronto, da un momento all’altro compariranno i draghi e le onde si alzeranno, ho bisogno di tutta la forza che ancora mi resta e anche un po’ di fortuna, la barca vola via veloce sotto i colpi possenti delle remate, qualche pescatore, incontrandomi, mi augura buona fortuna. Possibile che loro non abbiano un po’ di paura? In una decina di minuti oltrepasso il promontorio e sbarco indenne sulla spiaggia proibita, non mi è successo niente, è un luogo come un altro, poca gente, per lo più uomini e di principesse nessuna traccia. La sabbia fine dal colore bianchiccio di borotalco, mi sollecita i piedi come un delicato massaggio.
Tutto è avvolto in una oscurità minacciosa, soltanto il castello è illuminato e si sente un gran vociare che spezza il silenzio della notte. Guardo l’orologio, sono da poco passate le nove, devo essere diventato matto, o forse senza volere sono entrato nella fiaba del vecchio.
Le facce mi sono familiari, c’è il signor Tommaso con un vestito a righe che lo rende più snello, ma anche più malandrino, più avanti incontro il sindaco accompagnato dai suoi consiglieri, quasi non lo riconosco, stenta a reggersi in piedi, deve essere ubriaco fradicio, mi resta difficile immaginarmelo tutto impettito con la fascia tricolore ad inaugurare una scuola, un ospedale, usando quelle parole che toccano il cuore agli ingenui. Da quello che credo un castello,esce una massa di ragazzini, non avranno nemmeno quattordici anni, sembra abbiano visto il diavolo, fanno un chiasso furibondo e non smettono di parlare di donne, si atteggiano da adulti, mostrando la sigaretta, ma nel frattempo stanno attenti a non farsi riconoscere da qualche familiare. Alcune persone riconoscendomi mi salutano con ironia, qualcuno va oltre posando le sue manacce sporche sulla spalla, mi dice: “Vecchio ce ne hai ancora di cartucce, il fucile ti funziona ancora?” Tutti si mettono a ridere come idioti, io non so cosa fare, se associarmi al coro, oppure prenderli a calci, altri che conosco benissimo cercano di nascondersi, ma lo fanno in maniera talmente maldestra che è uno spasso guardarli.
Alzo lo sguardo verso il castello, mi appare immenso e dal rumore che sento penso si stia svolgendo una festa: “ Ma le principesse non sono tenute prigioniere?” penso tra me.
Un atroce sospetto mi assale all’improvviso, sono ormai giunto nei pressi della costruzione e mi accorgo che sono davanti ad un albergo, mio padre mi ha dunque ingannato. Il mio primo impulso è quello di tornare indietro, ma ormai che sono qua, tanto vale dare un’occhiata.
Entro un poco timoroso, non so ancora bene che cosa mi aspetta, vengo assalito da una nuvola di fumo, come in un qualsiasi bar, ma questo è molto più bello: arazzi ricoprono le pareti, le poltroncine sono in vera pelle e, ovunque cristalli riflettono figure di uomini che seduti ai tavoli, sembrano in attesa di un evento straordinario.
L’ampia scalinata, rivestita di rosso che da accesso alle camere superiori, è parecchio frequentata, là sopra deve succedere qualcosa di singolare e mi farebbe piacere dare un’occhiata, ma di principesse nessuna traccia. Le uniche donne presenti sono una vecchia signora alla cassa che dal tono che si dà deve essere la padrona, e una più giovane che si aggira per i tavoli quasi nuda, qualcuno allunga le mani, ma lei non sembra arrabbiarsi, anzi dispensa larghi sorrisi.
Non ho più niente da vedere, non mi resta che andarmene, quando all’improvviso mi si avvicina una donna, un poco svestita, che prendendomi per un braccio mi dice: “Vogliamo andare bel morettino?”, possibile che non si sia accorta della mia età, non so più cosa pensare, cerco di guardare altrove, fintanto che sono attratto da un quadro che campeggia sopra il bancone, non riesco a trattenere un urlo e dico: “Ma quella è mia madre”. Tutti si voltano e si mettono a ridere.
In quello stesso istante, un vecchio che non si era ancora mosso dal suo tavolo, mi si fa incontro e mi abbraccia: “Sono amico di tua madre, una gran donna”.
Senza nemmeno riflettere gli rispondo: “Certo l’avrà conosciuta in qualche letto”, mi guarda contrariato, vorrebbe sputarmi addosso, ma fortunatamente non lo fa e mi invita al suo tavolo. Ci sediamo e ordiniamo da bere, è un vecchio piccolino, molto simile a mio zio Teu, il suo dialetto mi mette allegria, si è messo a parlare e dal tono della voce ha l’aria di essere un discorso serio.
Apprendo che lui e mia madre venivano da un paesino della Sicilia, ne avevano fatta di strada e di fame lungo l’Italia. Avevano messo su uno spettacolo di cabaret, mia madre ballava e lui tentava di far ridere , ma i risultati erano scarsi, a nessuno interessavano le barzellette e la danza e gli spettacoli si chiudevano con la solita frase: “ Faccela vedere”. Quando arrivarono in questo posto erano allo stremo e così lei accettò la proposta della signora. “Lo fece per poco ti assicuro, poi tuo padre se la portò via, fu una bellissima storia d’amore”. Forse è una favola ancora più bella di quella raccontatami da mio padre, lo ringrazio e riprendo la via del paese.


CAPITOLO DODICESIMO

La spiaggia si è riempita di gente, per lo più sono milanesi in cerca di un poco di sole, i bar hanno sistemato fuori i tavoli e qualcuno già prende posto, la musica dei juke-box scandisce le sue note.
Mi accorgo di essere in compagnia del mio vecchio maestro che è un poco in disparte. Dorme dentro una barca e un po’ più scostato il suo amico Bull, un cane tutto spelacchiato, che ha salvato dalla morte, gli annuncia la presenza di un estraneo. È un vecchio magrolino, alto quasi due metri, la testa pelata, come ai tempi della scuola e due grosse borse sotto due occhietti piccoli e furbi. Dall’aspetto assomiglia più a un pescatore che a un maestro, con quelle manone, il colorito scuro della pelle, tagliata da rughe che sembrano solchi. Il suo modo gentile di rivolgersi alle persone, e il suo gesticolare di mani lo rendono un poco effeminato.
Mi ricordo ancora le sue lezioni che consistevano in lunghe passeggiate ad osservare animali, piante, fiori, persino una zolla di terra, in inverno stavamo tutta la mattinata appiccicati alla finestra, ed era una gioia quando qualcuno dei ragazzi, riusciva a scorgere qualcosa di vivo, ma in questo lui era imbattibile e perdevamo quasi sempre la gara.
Non avevamo mai niente da studiare, né compiti a casa, lui ci raccomandava soltanto di fare continue passeggiate e stare attenti a quello che ci capitava attorno.
Ci guardiamo in faccia, senza dirci una parola, poi il maestro interrompe il silenzio e mi invita in quel gioco infantile dello scoprire un qualcosa di vivo. Da principio sono riluttante, conosco troppo bene la sua abilità ma, per educazione, accetto l’invito, passiamo delle ore a scrutare il mare senza che nulla accada, le onde si susseguono in maniera monotona l’una all’altra, nel cielo non un uccello fa sentire la sua presenza e le poche barche di pescatori sembrano punti inanimati.
Avrei voglia di smettere, ma mai ammetterei la mia sconfitta, soltanto un lieve prurito alla gamba, mi riporta alla realtà, faccio per alzarmi e sgranchirmi un poco, quando il maestro mi urla: “Avevi una formica addosso e nemmeno te ne sei accorto”, e poi quasi sussurrando aggiunge: “Sei diventato grande per queste cose”. Ci salutiamo come se niente fosse successo, è ora di entrare in paese.
C…è rimasto un piccolo agglomerato di case stanche che sembrano sorreggersi a vicenda, come ubriachi che cercano di raggiungere un bar. Nella parte vecchia, il sole non si vede e quel piccolo pezzo di cielo riflette la sua luce come su un telone di cinema. Tutto sa di muffa e di piscio che si mescolano a un freddo vento di tramontana.
Passo davanti alla mia casa, ci deve abitare un bambino, se ne sente la presenza, mi piacerebbe conoscerlo, ma non ho il coraggio di presentarmi e così tiro avanti.
A pochi metri c’è ancora la scuola una vecchia palazzina ad un piano, immersa nel verde, per la verità ci sono soltanto due piante, ma bastano per creare un po’ d’ombra; è l’unico posto fresco di tutto il paese e dove c’è qualche panchina. Il lungomare è flagellato dal sole, a niente servono quelle poche palme spelacchiate. Nelle ore calde del pomeriggio quella piccola zona d’ombra è la meta preferita dai vecchi che passano la giornata a raccontarsi la loro vita e ad aspettare terrorizzati l’evento che nessuno riesce a pronunciare.
Ora il maestro è un uomo robusto, porta il cappello anche d’estate e veste in maniera elegante, e un poco eccentrica. Viene dalla città e non gli piace il posto e forse nemmeno i bambini, passa gran parte della giornata al bar a guardare le ragazze, ma nessuno l’ha mai visto accompagnato, e va in giro a dire che le donne di città sono migliori. Mi fa piacere sentire l’odore delle matite, dei quaderni e dei libri appena comprati.
Oggi la scuola per mancanza di bambini si è ridotta a due sole aule, il rimanente è stato occupato da un’associazione di ex combattenti e da una società di pescatori. Hanno abbattuto qualche muro e ne hanno ricavato due saloni immensi.
L’associazione di ex combattenti, ha un nome difficile: è dedicata a un giovane ufficiale trentino morto facendo l’eroe nella prima guerra mondiale. Per lo più rimane deserta e si anima soltanto in qualche occasione, come il quattro Novembre, il venticinque Aprile, la festa della Repubblica. È un ambiente squallido, l’unico arredamento è una catasta di seggiole di paglia sfondate e un tavolaccio di legno tutto tarlato, ereditato dalle Ferrovie dello Stato, quando rifecero la stazione. Sulle pareti fotografie di militari, accompagnati da vessilli di ogni colore, rendono l’ambiente ancora più tetro e quasi si ha paura di entrare.
La Società dei pescatori, invece è sempre affollata, funziona da bar e si dice facciano dei panini da favola e servano un ottimo vino bianco frizzante. C’è una saletta per i videogiochi e all’interno sono riusciti a ricavare una sala da ballo con luci psichedeliche, anche se si continua a ballare soltanto il liscio e i giovani preferiscono le discoteche genovesi o quelle piemontesi. La gestisce una ragazza, dalle forme sinuose, ma dal fare autoritario, che ascolta tutto il giorno la radio ad alto volume, facendo andare in bestia i vecchietti che giocano a carte.
Proseguo il mio cammino, attraverso i ricordi e incontro la vecchia farmacia del Dottor Alessandro. Più che una farmacia assomiglia a un retrobottega, con tutti i prodotti raffazzonati sul banco e con quell’odore di muffa che si mescola a quello delle medicine.
Il Dottore era talmente brutto che non sembrava nemmeno vero, faceva senso a guardarlo, ma godeva fama di Don Giovanni. Fama conquistata sul campo, non c’era infatti donna giovane o d’età che non fosse passata dal suo letto, e nessuna ne era mai uscita delusa. Il luogo d’incontro era la stessa farmacia e non c’era bisogno di convenevoli, il farmacista aveva sparso la voce che bastava portare un fiore rosso per sperimentare le sue prestazioni. Non era raro passeggiando per via Garibaldi vedere il cartello “chiuso”, anche più volte al giorno.
Mi piacerebbe dare un’occhiata, attraverso la strada, quando vedo un vecchietto uscire dalla farmacia, mi sembra di non conoscerlo, con un gesto improvviso cambia il cartello e compare la scritta “aperto”, un attimo dopo una giovane donna esce un poco spettinata, guardandosi in giro con fare guardingo.
In fondo alla strada c’è la piazza della chiesa, forse troppo grande per le esigenze del paese. Sulla soglia c’è Don Pietro, il parroco, un bell’uomo, con la chioma grigia che svolazza al vento e con un tocco della mano ritorna subito a posto, come se fosse appena uscito dal salone del barbiere. La tonaca lucida e perfettamente stirata gli dona parecchio, tanto che può sembrare benissimo un vescovo. Alto un metro e ottanta, ma sembra anche di più, grazie al suo portamento eretto, non disdegnava mai di passeggiare fino alla nostra casa, per fare quattro chiacchiere con mia madre, sempre assorto in un libro, si fermava di scatto per prendere degli appunti su un block-note sgualcito, non dimenticava mai di rispondere a un saluto o di accarezzare i capelli a un bambino che gli capitava tra le gambe. Mi farebbe piacere parlargli, ma è già entrato in chiesa, tra poco ci sarà la messa.
Nel frattempo alzo gli occhi, alla finestra come sempre c’è la Signora, da giovane era stata molto bella, tutti gli uomini le correvano dietro e lei ne aveva approfittato concedendo le sue grazie in cambio di regali, che potevano essere un bel vestito, un gioiello e forse anche dei soldi, ma nonostante le apparenze non veniva ritenuta una puttana e tutti continuavano a chiamarla Signora.
Quando il suo corpo sfiorì, si chiuse nella sua bella casa, dono di qualche ammiratore, passando tutto il giorno a guardare dalla finestra e diventando l’archivio storico del paese. Non era raro che qualcuno andasse a trovarla per godere della sua compagnia e riascoltare qualche storia ormai dimenticata. Potrei passare qualche ora con lei, ma sembra non accorgersi della mia presenza, tira le tendine e anche lei scompare.
Senza accorgermene sono arrivato davanti all’Hotel Sereno, un albergo immenso con più di cento stanze, immerso in uno stupendo parco, nel suo massimo splendore, aveva ospitato i più bei nomi della musica e della politica.
Da ragazzi era una delle nostre mete preferite, rimanevamo colpiti dagli abiti delle signore e da favolose macchine che, raramente riuscivamo a vedere in giro. Ma era un attimo, perché scomparivano dietro a un cancello di ferro battuto, la nostra curiosità era accresciuta da un grande muro che non permetteva di vedere niente.
Un giorno ci munimmo di una lunga scala, così passammo un intero pomeriggio a guardare le donne in costume che prendevano il sole e che ci parevano più belle di quelle che potevamo guardare in spiaggia senza tanto sforzo.
Alzo gli occhi per guardarlo meglio, conserva ancora tutto il suo fascino, ma il muro è sgretolato, il portone sempre aperto, e i suoi ospiti sono piccoli commercianti lombardi, con donne grasse e bambini maleducati.
Finalmente dopo tanto bighellonare, sono arrivato al negozio del signor Tommaso, sono curioso di sapere che fine ha fatto la bambina uccello.
La bottega non è cambiata, un signore grasso esce dal banco bestemmiando perché ha fatto cadere qualcosa, sono un poco impacciato e gli dico: “Signor Tommaso”, lui mi guarda un po’ perplesso e mi risponde seccato. “Tommaso è morto dieci anni fa, io sono suo genero, cosa desidera?”
Non so più cosa dire, una lacrima mi solca il viso: “Un pacchetto di sigarette francesi, di quelle forti”.


CAPITOLO TREDICESIMO

Ho finalmente deciso di lasciare il paese e di far visita allo zio. La corriera parte fra mezz’ora e c’è tutto il tempo di prendere un caffè corretto in una di quelle osterie, vicino al mercato del pesce, dove qualsiasi odore si mischia con quello di refrescume.
Il tempo passa sempre troppo in fretta, è l’ora di prendere la corriera, alla fermata c’è parecchia gente, accenno a un saluto, sperando che la corriera arrivi presto. Vorrei chiedere informazioni su qualcuno, ma ho paura delle brutte notizie e così faccio finta di niente, a costo di apparire maleducato.
Mi sistemo sul davanti, nell’unico sedile di fianco all’autista, così posso rimanere solo per tutto il viaggio e poi è il solo posto dove non patisco. La corriera si inerpica per una piccola strada, piena di curve, ci passa a stento e sembra debba precipitare nel vallone. È una vecchia corriera, la stessa forse che prendevo molti anni fa e mi chiedo se riuscirà ad arrivare a destinazione.
Inutilmente cerco il mio nome su qualche sedile, nomi ce ne sono, ma il mio non riesco a trovarlo, e me ne dispiace.
Questa corriera assomiglia sempre più a uno di quei carrozzoni da circo, che tutti si chiedono come facciano a funzionare, in effetti, quello che desta meraviglia, non sono tanto i numeri più o meno spettacolari, ma proprio l’arrivo rumoroso e fumoso.
Il circo ci faceva visita due volte all’anno: al sabato e alla domenica era a C…, durante la settimana si spostava in collina. Non aveva molto successo e il tendone rimaneva quasi sempre deserto, noi ragazzi ci limitavamo a guardare i segni che aveva lasciato per terra, come fosse un accampamento indiano. Il divertimento maggiore era quello di imitare ciò che intravedevamo da un pezzo di telone, squarciato, e che bei travestimenti riuscivamo a inventare con le poche cose che avevamo a disposizione.
Mi volto di scatto, c’è baccano sulla corriera, rumore di trombe, pernacchi è gente mascherata, forse vanno a una festa, aguzzo un poco lo sguardo e rivedo i miei amici del tempo del circo, vorrei unirmi a loro, ma la corriera è arrivata al paese, devo scendere, sarà per un’altra volta, sono solo dispiaciuto di non aver visto la fontana. Sono contento di sgranchirmi le gambe, e prendere una boccata d’aria fresca.
Il paese non è più lo stesso, anche qui è arrivato il turismo, la Pensione Rosa Fiorita è stata soppiantata da un grande albergo chissà che fine ha fatto il proprietario?
I piccoli negozi di un tempo non ci sono più, e i vecchi proprietari si mettono davanti al loro negozio rimodernato, ci passano delle ore, e poi se ne vanno scrollando la testa.
È giorno di festa, ma c’è poca gente all’uscita dalla messa, mi avvicino a qualche vecchio e chiedo dello zio Teu, nessuno sembra conoscerlo, e non riescono nemmeno a capire il dialetto che mi sforzo di parlare.
Mi accendo una sigaretta, ha un gusto forte e amaro e mi incammino verso la casa dello zio, subito comincio ad ansimare, un tempo non faticavo in questo modo. Sono quasi arrivato, ma mi accorgo che qualcosa è cambiato, al posto del campo hanno costruito una villa da favola, e per quanti sforzi faccia la casa dello zio non riesco a scorgerla.
Faccio ancora pochi metri e cado riverso a terra senza più vita. Sono morto, ma stranamente riesco a sentire il dottore che con una faccia arrabbiata, come gli avessi fatto un dispetto, dice: “Glielo avevo detto di non fumare e di non mettersi in un viaggio così lungo, alla sua età”.
Lo squillo del telefono mi sveglia di soprassalto, ho dunque sognato, mi accendo una sigaretta francese dal forte odore, è la prima dopo vent’anni, guardo la sveglia sono già le otto.
Il diretto delle sette e trenta è già passato.


CAPITOLO QUATTORDICESIMO

Anche oggi è una giornata stupenda, il sole filtra dalle tapparelle ancora chiuse, mi sento tremendamente stanco come avessi fatto per davvero quel viaggio, un odore nauseabondo esce dalle ascelle, devo aver sudato, forse sarà stato il mangiare del giorno prima. Devo essermi addormentato nello studio, la mia mente è confusa, sul tavolo è aperto un quaderno pieno di parole, ieri era appena iniziato, devo aver lavorato tutta la notte.
La scrittura è caotica tanto che non riesco quasi a decifrarla, le parole non seguono le righe, sembrano voler scappare, delle macchie d’inchiostro coprono chissà quali misteri e il tutto è arricchito da disegni infantili: una casetta in collina, una spiaggia con delle barche a riposo, un sole troppo rotondo perché fatto con un bicchiere.
Mi viene alla mente la storia di mio zio, chissà se da queste pagine non possa comparire un folletto, ne cerco la prova, proprio sotto casa c’è un albero, senza pensare, dico forte: “Voglio che quell’albero secchi”. Passano alcuni minuti ma niente succede.
Il sole ha inondato tutta la casa e la luce mi colpisce gli occhi, è l’ora di andarsi a fare un caffè. Chissà che non mi rimetta a posto lo stomaco? Mi sento svuotato, come se qualcosa di me fosse davvero morto questa notte; chi mi dice che il sogno che ho fatto non sia la realtà e quello che invece sto vivendo soltanto una finzione? È forse questa la morte, un’eterna finzione o soltanto questo senso di vuoto?
Ho voglia di parlare con qualcuno, Monica sta ancora dormendo nonostante il sole le colpisca la faccia. Non è più la bella donna di ieri, senza la cipria complice le si vedono tutte le rughe e i capelli non hanno più forma ed escono in mille ciuffi.
Senza rendermene conto divento nervoso e quell’essere rannicchiato sotto le lenzuola mi da fastidio, è la prima volta che sento di odiare Monica e non ne capisco la ragione. Mi metto a parlare senza nessun freno, devo aver alzato la voce, lei sembra non ascoltarmi, e questo mi fa andare in bestia, incomincio a prendere a calci un tavolino che cade rovinosamente portandosi dietro un intero servizio di tè cinese.
Una lunga pausa echeggia nell’aria, mi avvicino al letto, la scopro violentemente ma Monica non da segni di vita. Mi butto su una poltrona senza toglierle gli occhi da dosso, forse mi sta facendo uno scherzo, fra qualche minuto si alzerà e mi prenderà in giro, ma niente di tutto questo succede ed è già passata mezz’ora.
Forse sto sognando, chi infatti non ha mai desiderato una volta nella sua vita di ammazzare la moglie? Non c’è da preoccuparsi, qualcuno mi sveglierà e tutto ritornerà come prima.
Come se niente fosse, vado in cucina, ho voglia di un buon caffè, nessuno ha ancora alzato le tapparelle e quindi, nonostante il sole devo accendere la luce, in strada non si sentono movimenti, ma adesso ricordo: è ancora festa. Per caso mi capita tra le mani un vecchio album con la copertina in pelle, ne sfoglio le pagine piene di foto in bianco e nero che il tempo ha notevolmente sbiadito, le figure si distinguono a malapena. Vi è raffigurata la storia della mia vita: il primo bagnetto, i compleanni, le figure austere dei nonni, una caduta dalla bicicletta, la prima comunione, qualche parente ormai dimenticato. Sorseggio il caffè è forte e amaro, proprio come mi piace, intanto le foto sono finite, ci sono rimaste soltanto delle pagine bianche, proprio come succede al cinema, quando si rompe la pellicola.
Un rumore che assomiglia a un fischio del treno, mi sveglia da quel torpore, lo riconosco è il diretto delle sette e trenta, non vedendomi mi ha aspettato, sono felice, forse se mi affretto riuscirò a prenderlo.
Il rumore si fa più forte devo essermi sbagliato, una voce urla al di là della porta d’ingresso: “Aprite polizia”. Cerco di mettermi un poco a posto, passo attraverso la camera da letto, Monica non si è ancora mossa e vado ad aprire.
Sono tre uomini in divisa hanno l’aria cattiva e tutti e tre portano i baffi, il più vecchio mi dice: “Hanno sentito gridare e siamo venuti a vedere che cosa è successo”.
Li faccio entrare e subito si intrufolano nelle stanze, vorrei protestare, ma nel frattempo qualcuno si mette a gridare: “ Maresciallo venga qui a vedere”. Devo essere entrato in uno di quei film polizieschi che ogni sera guardo prima di addormentarmi.
Ci avviamo tutti nella camera da letto, e da lì che proviene la voce, Monica finalmente la smetterà di fingere, si alzerà dal letto e farà a tutti una sonora pernacchia. Quello che tutti chiamano maresciallo mi si avvicina, si è tolto di tasca le manette e mi dice con aria solenne: “La dichiaro in arresto per l’omicidio di sua moglie”.
Quelle parole mi arrivano come una mazzata, vorrei piangere, ma all’improvviso mi viene in mente un qualcosa di diabolico: “ A che ora è morta?” dal fondo della stanza l’appuntato si mette ad urlare: “Da poco, è ancora calda”.
“Perfetto” penso fra me, “Lo vedete che avete preso un granchio, non è forse vero che la morte può risalire all’incirca alle sette e trenta o alle otto? Allora signori mi dispiace ma per quell’ora io ho un alibi di ferro, ero in stazione e il capostazione lo potrà confermare”, mi accorgo di essere entrato nel ruolo, parlo come un attore consumato.
Mi è venuta una gran nausea e devo assolutamente liberarmi lo stomaco, chiedo il permesso di raggiungere il bagno e mi viene concesso, non senza qualche raccomandazione.
Passo un attimo nello studio, il quaderno aperto è ancora lì che aspetta soltanto di essere letto.
È proprio quello che faccio, e con mia grande sorpresa ritrovo passo per passo la sconvolgente esperienza che sto vivendo. È dunque la mia fantasia che ha creato la morte di mia moglie e quei mostri che vorrebbero chiudermi in prigione, basta quindi riscrivere l finale per rimettere le cose al loro posto, ma per quanti sforzi faccia non riesco a buttar giù nemmeno una parola. Non sono passati nemmeno dieci minuti che l’appuntato ritorna, un poco accaldato, si è fatto le scale a piedi: “ Abbiamo controllato, nessuno l’ha visto questa mattina”.
Il mio alibi è crollato, mi faccio mettere le manette senza opporre resistenza e piano dico al maresciallo: “Lei sa se dal carcere si può sentire il rumore del treno?” Mi guarda, ha capito che sono matto e scrolla la testa. Siamo in strada, è una giornata magnifica, ad attendermi c’è una macchina, persone si accalcano curiose: “Una così gran brava persona, chissà che avrà fatto?”.
Qualcuno ben informato dice: “Ha ucciso la moglie”.
Ma è un attimo perché l’attenzione subito si rivolge a una squadra di operai che stanno segando l’albero che sta sotto casa mia, qualcuno dice: “ Fino a ieri era così bello, sembra che ci sia caduto un fulmine”.
Io lo guardo per l’ultima volta e mi viene da sorridere, ma intanto la macchina è già partita.



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