Con questo racconto ha vinto il quarto premio all’edizione 2007 del Premio Marguerite Yourcenar Il quacquarì Non cercatelo sui vocabolari, è un termine che non esiste, inventato dai cacciatori. E’ un richiamo, fatto con una guaina di pelle incollata ad un pezzo di tibia cava di animale. Basta pigiarlo, a colpetti, perché ne esca quel suono caratteristico che riproduce il canto della quaglia femmina in amore, quando, a partire da giugno, queste emigrano dall’africa per arrivare fin nei nostri campi, pronte ad accoppiarsi. Allora erano tempi dove c’era sempre da inventarsi qualcosa per la tavola, e un piatto di quaglie era una sciccheria alla quale non si poteva rinunciare. La mia storia inizia tanti anni fa, e ora che il peso della vita torce la mia schiena ed il fiato è in preda all’affanno, sento che è maturato il momento di raccontarla, prima di non poterlo fare più. Rivedo la mia infanzia, le estati al fiume quando da ogni vena sgorgava acqua limpida, i bagni interminabili a cacciare lasche con le mani per rimediare qualcosa con cui sfamarsi. Ricordo la fame, il freddo che si insinuava nei sandali consunti, le invernate che regalavano gelide lenzuola di neve ogni giorno e ghiacciavano le poche cannelle distribuite lungo la via. Si dormiva (ma chi dormiva?) su materassi farciti con foglie di pannocchie di granturco che frusciavano ad ogni movimento nel sonno. I giochi erano pochi, tutto era inventato. Ma c’era l’amore, capace di addomesticare ogni miseria, di colmare ogni mancanza. Poi venne la giovinezza, e insieme ad essa il tempo della fatica. Eravamo sei figli, e mentre le due sorelle aiutavano nei mille bisogni domestici, io e i miei fratelli spalavamo rena da mattina a sera. Possedevamo due autocarri sgangherati che allora ci sembravano un sogno, tanta era la miseria che incombeva, mentre oggi farebbero ridere il più umile dei commercianti. Il tempo passa, la vita avviene e opera mutamenti… Avevo tentato la via del pioniere, del marinaio che s’imbarca pur consapevole delle burrasche cui andrà incontro. Mi ero indebitato per comprare un camion di seconda mano per trasportare materiali di edilizia. Di lavoro ce n’era, le ore erano piene e la fatica in abbondanza. Ero innamorato di una donna mite e stupenda, che dopo alcuni anni di fidanzamento e di serenate al chiaro di luna avevo sposato. Dopo pochi anni avevamo già tre splendidi maschietti. Talvolta, armato di canne, passavo le serate al fiume vicino, tirando spesso fin quasi l’alba, anche se conscio dei gravosi impegni del giorno dopo. C’erano buone stagioni che promettevano tante anguille, e quella Talvolta le cose accadono. Forse per coincidenza, forse per mano di quel destino beffardo a cui piace intersecare gli eventi, per vederne poi gli effetti. Quando, con una lentezza esasperante, quell’anno se ne andò, una moltitudine di lacrime erano state versate, tante dolorose sorelle che avevano temprato i selciati del viso. Un giorno, mentre scaricavo da un cliente, mi giunse all’orecchio di un quacquarì fenomenale, che attirava quaglie che erano già accoppiate. Il quacquarì funzionava davvero. Prendevo quaglie anche dove non ce n’erano. Talvolta, invischiate nella rete, ne contavo parecchie. Poi cominciarono a succedere cose che mi turbavano. Nella più totale bonaccia di giugno il vento si levava impetuoso per poi ricadere all’improvviso nella sua più totale assenza. Quindi cominciò il rumore; dapprima ovattato, nelle ore più buie della notte diventava nitido e forte. Sembrava il tonfo sordo di una zappa che insistentemente frantumava zolle. E succedeva solo quando suonavo. La vita intanto continuava nell’inganno della normalità, e le apparenze mitigavano le ferite. Ma aveva lasciato un’ombra, un solco scavato nell’anima. Quel solco lo vedevo sul viso del mio figlio maggiore. Era conscio di aver partecipato al truce gioco del destino. Cresceva abbastanza taciturno, e la cosa un po’ ci preoccupava. Per fortuna, gli impegni di scuola e lavoro non davano tregua ai mille ricordi che struggevano ancora. Poi di lì a poco venne al mondo una bimba, dopo un monopolio di maschi, e la vita cambiò davvero. Dopo la nascita di nostra figlia, che veramente portò una ventata di primavera, ritrovammo appieno la serenità. Ripresi a suonare col quacquarì magico e, per rischiarare ogni dubbio, mi portai un amico per cercare di capire se quei rumori erano un’invenzione della mia mente. Regolarmente tutto si ripetè e il mio amico, che anche lui percepiva l’inspiegabile, appena seppe che il quacquarì era di un osso umano, mi riempì di rimproveri mentre falcava nel grano a gambe levate. E io dietro a lui, finché non fummo entrambi senza fiato. Passarono parecchi anni, i miei figli si erano sistemati e le ombre che ci avevano assillato riguardo il primogenito parevano dissolte. La mia collezione di quacquarì giaceva impolverata sulla mensola, in quanto le quaglie erano ormai solo un ricordo dovuto alla civiltà con tutte le conseguenze che comporta. Quando si è vecchi si ha tempo per pensare. I nostri figli ci venivano a trovare regolarmente con le loro famiglie, soprattutto il maggiore. Con lui non parlavamo mai di quell’anno buio, ma ci rendevamo conto che in parte se ne sentisse responsabile; l’indulgenza dell’età aveva permesso alla sua mano di lasciarsi sfuggire quella del fratellino che poi era stato investito… Poi successe: fece una visita da uno di quei dottori ai quali non daresti un soldo di fiducia, quelli che praticano strani massaggi e altre diavolerie del genere, oppure ti bucano con una manciata di spilli come fossi una bambola vodoo. Si parlava di disequilibrio di energie, di fluidi bloccati, forse proprio a causa di un trauma interiore consumato in tenera età. Ormai conscio del suo talento, cominciò a spedire liriche a livello nazionale. Subito arrivarono importanti piazzamenti, encomi, spesso davanti a professoroni molto più preparati. La storia è terminata e vi garantisco che ogni riga di quanto scritto è assolutamente vera. Una sola cosa non lo è. Non l’ha scritta il padre, ma il figlio. Che è penetrato nel cuore del padre per poterla rivivere, e finalmente ne ha compreso appieno le lacrime furtive, i frequenti silenzi. Dunque sono io il figlio, io il fratello penetrato nel baratro del dolore per estrapolarne i ricordi. Mentre tento d’imbastire il vivere ...Una manciata di secondi o di secoli Sì, sono io il poeta. Ora posso piangere. Contatore visite dal 23-02-2009: 11615. |
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