Con l’opera «La storia di Tecla & Renzo… ovvero l’arte di non avere arti» è risultato 10° classificato nella XVII Edizione del Premio Letterario Città di Melegnano 2012 – Sezione narrativa
Questa la motivazione della Giuria:
«Racconto toccante, profondo, commovente ma sciolto e ilare: ecco come lo scrittore affronta con coraggio il tema dell’handicap. Tecla è splendida, forte, ma ha perso un braccio e una gamba in un incidente infantile.
Renzo non si accorge della sua menomazione se non alla loro terza uscita, e, pur essendo colpito dalla bellezza di lei, non riesce ad accettarla così com’è, perché i suoi canoni sono doverosamente comuni.
Non la cerca più e la dimentica. Solo quando, nel gioco tragico della casualità feroce dei destini, anch’egli sarà menomato di un braccio e di un occhio, la cercherà nuovamente, e sarà amore.
L’autore, con sorprendente finezza psicologica, ci insegna che bisogna provare il dolore sulla propria pelle per capire quello degli altri, e quando la sofferenza bussa alle porte del nostro cuore, è per trasformarci in esseri speciali, in quotidiani eroi che traggono il proprio splendore interiore dalle prove e dalle sventure della vita stessa: Tecla e Renzo escono da questo racconto mano nella mano, con la gioia sfolgorante del grande amore».
Alessandra Crabbia
La storia di Tecla & Renzo… ovvero l’arte di non avere arti
“Forse è arrivato il sacrosanto momento di prenotarmi una visita oculistica” pensai, quando me ne accorsi. Il nostro primo appuntamento era stato al buio, organizzato da mio fratello, il quale aveva appositamente trascurato (visti i nostri semprevivi conflitti familiari) di menzionare la situazione articolare. O meglio NON – articolare. Credo seriamente, dopo tante e perentorie figure barbine, di non essere esattamente una persona definibile “attenta”. Specie se non si tratta delle parti del corpo che non comprendono la lettera “r”: Viso, tette, culo e f… (beh… avete capito).
Tecla portava due protesi ben fatte, forse talmente bene da risultare impeccabili e credo che le mie sviste fossero assolutamente comprensibili.
Il secondo appuntamento era stato di mercoledì. Sua cugina Anna, appassionata ed esperta cinefila, aveva organizzato un’uscita a quattro nel periodo delle programmazioni CULT. Il film che avevamo deciso di vedere, dopo un’ardua e difficile lotta contro Shining, fu Forrest Gump di Robert Zemeckis. A quel tempo, non ero ancora riuscito a spiegarmi del perché, durante la scena dell’offerta del gelato al Tenente Dunn nell’ospedale militare, con successiva inquadratura degli arti inferiori amputati, Tecla avesse iniziato a singhiozzare e successivamente a piangere. Ricordo che le dissi una frase idiota: «eh già, sono scene dal forte impatto emotivo».
Quella seconda uscita finì con un panino con salsiccia, una birra doppio malto, altre lacrime per il povero tenente Dunn e un niente cosmico.
Passarono tre settimane prima di decidermi di richiamarla. Lei accettò quasi all’istante ed io pensai che forse era arrivato il sacrosanto momento di lasciare gli eventuali parenti ed intermediari nelle proprie abitazioni e di fare una tipica uscita a due. Le proposi un ristorante arabo non molto lontano da casa. Era arredato da un massiccio quantitativo di divani e tappeti mediorientali. C’era un’ incantevole musica del Punjab che si diffondeva dalle piccole casse poste agli angoli della sala, mentre tutt’altro che incantevole era l’aroma di spezie, soprattutto aglio, cipolla e affini, che pestilenziavano tutto l’arredo e i vestiti e ti impregnavano le narici. Ordinai il classico piatto Kebab e lei ordinò il piatto tipico “le mille e una notte”. Più che un piatto, era un vassoio dalle proporzioni mastodontiche con varie carni speziate, polpette e verdure. Dopo aver ordinato, alzai da terra il mio piede destro e cercai di passarglielo lungo la gamba, come un demenziale approccio anni novanta. Fu proprio in quel momento, quando sentii qualcosa di duro e metallico che esclamai: «Oh Cristo! Cos è questo?». Pensai che forse avevo solo sbagliato gamba, che in realtà stavo massaggiando una delle quattro gambe del tavolo.
«È la mia gamba.-
«Come scusa? No, non lo è».
«Sì, invece».
« No, ho semplicemente confuso la tua gamba con quella del tavolo. Bella figura che ho fatto».
«Non ti sei sbagliato. Quella che hai volontariamente massaggiato è la mia gamba».
«Che vuoi dire?».
«Voglio dire, che quella è la mia gamba».
«Mi stai dicendo che…».
«Sì» mi interruppe. «È una protesi».
Si alzò dalla sedia e andò a sedersi sul divano vicino al nostro tavolo, giusto affianco alla mia sedia. Si arrotolò i jeans fino al ginocchio in modo che potessi vedere la protesi nella sua vera espressione estetica e dove il congegno si univa alla pelle proprio sotto il ginocchio.
«Stasera ero di fretta e non mi sono ricordata di indossare la copertura del supporto in metallo».
«Beh… direi che…».
«Diresti cosa?» mi chiese sorridendo.
«Come diavolo ho fatto a non accorgermene?».
«Molti non ci riescono. Poi perché avevo la copertura. Il braccio invece, è difficilmente riconoscibile».
«Anche il braccio?».
«Sì».
«Cioè vuoi dirmi che…».
«Sì».
«Sia la gamba, che il braccio?» chiesi nuovamente stupito al limite del ridicolo.
«Sì». rispose Tecla, arrotolandosi pure la manica della camicia.
«Cristo».
«Non è poi la fine del mondo».
«Sì che lo è. Mi sento un cretino» affermai, abbassando lo sguardo nel piatto di kebab.
«Non devi».
«Come li hai persi?».
«In un incidente automobilistico,» rispose. «Io e mio nonno stavamo andando al mercato con la sua utilitaria, quando una corriera di turisti tedeschi ci venne addosso. Avevo nove anni. Il giorno dopo ne avrei compiuti dieci».
«Mi dispiace».
«Probabilmente era destino».
«Tuo nonno invece?».
«Se n’è uscito quasi illeso. Ma dopo quel giorno, vedendo le mie condizioni, non si riprese più. Passò il resto delle sue giornate ad allenare il gomito, ad affogare la disperazione. Morì cinque anni fa».
«Mi dispiace.-
«…» tentò di dire qualcosa, ma annuì solamente.
«Hanno provato a ricucirteli?».
«Il braccio era carne da macello, ci si poteva fare delle polpette, mentre la gamba, con l’impatto si tranciò e finì in un cortile dove due cani se la contesero sbranandola».
«Mi dispiace se…».
«L’hai già detto. Non serve che tu me lo ripeta ogni secondo».
«Beh… volevo dire che… mi dispiace se non l’ho notato prima. È già la nostra terza uscita. Ti sarai fatto un’idea pessima del sottoscritto».
«Ho pensato che te ne fossi accorto, ma che stessi cercando di evitare l’argomento».
«Perché avrei dovuto?».
«La maggior parte della gente fa finta di non notarlo».
«Credi sia soggezione? Oppure pena?».
«Entrambe, fanno parte della nostra natura, non ci sarebbe niente di strano».
«Io non fingerei una cosa del genere. Sono più propenso ad una bella “figura da pagliaccio”».
«L’ho notato Renzo. L’ho notato».
Ordinammo anche il dolce. Un qualcosa di poco commestibile di color giallo-marrone. Poi la portai a casa. Parcheggiai nel vialetto di ghiaia ed uscì dalla mia Fiat modello scassato con gran velocità per aiutarla a scendere. L’accompagnai fino alla porta d’ingresso e con occhio sguincio mi concentrai sulla protesi, ma stentavo ancora a crederci. Cercai di baciarla. Tecla era una ragazza molto attraente. Aveva due splendide labbra carnose e delle iridi decisamente atipiche, di un giallo-verde indescrivibile. Lei, però, non sembrava molto vogliosa nel darmi il bacio della buonanotte. Provai a guardarla fissa negli occhi, ma mi imbarazzai e distolsi lo sguardo come un perdente.
Cercavo di estraniarmi dallo stereotipo del ragazzo comune che punta al più classico dei risultati, ma questa mia estraneazione mi fece solamente dire: «Hai degl’occhi stupendi!!» (alla faccia del NON-comune).
«Grazie» rispose Tecla, arrossendo.
«Posso farti una domanda?».
«Certo, dimmi pure».
«Sono veri o te li hanno impiantati pure quelli?».
Il nostro appuntamento terminò con un manrovescio in pieno volto e un vaffanculo indirizzato al mio timpano sinistro che riecheggiò in tutto il cranio. Non vidi più Tecla per un bel po’ di tempo e mai più mi telefonò.
In un primo periodo le lasciai dei messaggi di scuse sulla segreteria, ma non ricevetti risposta. Poi decisi che era meglio far scorrere un po’ d’acqua sotto i ponti e così smisi di chiamarla e andai avanti per la mia strada.
Un bel giorno di febbraio, qualche mese più tardi, andai ad aiutare mio fratello a fare legna per l’inverno seguente. Il lavoro era elementare. Dovevamo abbattere gli alberi più grossi, eliminare le edere rampicanti nonché i rami più sottili, farli a pezzi e caricarli nel furgone. Mio fratello era l’addetto al “reparto taglio” e io al “reparto logistico”. In pratica dovevo solamente trasportare i vari tronchi dal luogo dove mio fratello li faceva a pezzi, fino al furgone. La mattina passò tranquilla. Lavorammo come dei matti senza litigare e facemmo un buon lavoro. Pranzammo con dei panini al prosciutto che mi ero portato al sacco e mandammo giù il tutto con un paio di birre.
Fu il pomeriggio a fottermi.
Dovevamo tagliare un albero alto all’incirca sei metri e mio fratello mi disse di andare a prendere la scala che aveva precedentemente caricato sul furgone. La piazzammo a terra e l’appoggiammo sul tronco dell’albero. Mio fratello salì con la motosega accesa e mi disse di tenergli ferma la scala per evitare che cadesse. Io gli raccomandai di tagliarlo in modo che non ci cadesse addosso. Andrea sorrise e disse: «Risolverei molti dei miei problemi se quest’albero ti riducesse ad una sottiletta» e mentre iniziò a tagliare il tronco, una vespa lo punse sul naso. Si sbilanciò e cadde all’indietro con la motosega accesa. La caduta fece si che Andrea mi scavalcò e ruzzolò a terra alle mie spalle, invece la motosega mi balenò impazzita addosso ed iniziai ad urlare. Quando smisi di gemere cercai di rialzarmi aggrappandomi alla scala e ben presto mi resi conto che il mio avambraccio destro era tranciato di netto e che non ci vedevo bene da un occhio. Ricordo solamente che Andrea gridava «Ha perso un braccio. Ha perso un braccio. Muovetevi, presto!».
Vorrei essere in grado di raccontarvi il dolore che si prova. Ma credo che il cervello abbiamo una modalità “Off” che si attiva durante i dolori disumani che proviamo. Chissà se anche nel cervello di Tecla, durante l’incidente con suo nonno, si fosse attivata la modalità “Off”. Beh, francamente lo spero. Poi ci fu il buio.
Mi misero una protesi in sostituzione dell’avambraccio destro e un occhio finto. Lo scoprii al mio risveglio in ospedale. Pensai che forse era arrivato il momento di richiamare Tecla. Erano passati parecchi mesi, ma ciò nonostante, anche senza varie parti del corpo pensavo costantemente a lei.
La vita da handicappati era dura. Dovevi rinunciare a molte cose alle quali non volevi rinunciare, ma non ci potevi fare niente.
Ci misi due mesi per abituarmi alla protesi. E altri due per abituarmi all’idea. Fu in quel periodo che richiamai Tecla.
«Ciao Tecla».
«Chi sei?» rispose, seccata.
«Come chi sono?».
«Sei tu che hai chiamato. Come faccio ad indovinare?».
«Sono Renzo, ricordi?».
«Ah già, Renzo. Quello degl’occhi finti».
«Solo uno».
«Cosa?».
«Eh niente… già proprio io. Renzo».
«Come stai? È passato un secolo».
«Ho provato a chiamarti diverse volte per farti le mie scuse per quel giorno».
«Ero arrabbiata, ecco tutto».
«Ora non lo sei più».
«Il passato è passato. Non ha sapore per me».
«Fantastico. Ti andrebbe di uscire a cena?».
«Va bene. Quando?».
«Hai detto “quando”?».
«Sì».
«Hai detto “sì”?».
«Sì».
«Perfetto. Che ne dici di stasera?».
«Certo».
Passai a prenderla a casa sua. Sempre in quel vialetto dove tentai invano di baciarla. Mi aprì la porta. Indossava uno stupendo vestito nero attillato che delineava splendidamente le sue curve e le sue protesi. Notò subito il mio occhio… e anche la mano.
«Ti trovo bene» disse.
«Grazie, anche tu non scherzi».
«Sei pronto?».
«Prontissimo».
Mi venne incontro e mi baciò sulle labbra. Mi sembrava un sogno.
«E questo per cos’era?» domandai «Soggezione o pena?».
«Si chiama “agio”».
Tecla mi prese per mano, (la mano naturale) e ci incamminammo lungo il vialetto. Eravamo handicappati, perché negarlo, ma da lontano sembravamo due persone normalissime, felici e con tutta la vita davanti.