L’ultima luna

di

Monica Tantardini


Monica Tantardini - L’ultima luna
Collana "I Salici" - I libri di Narrativa
14x20,5 - pp. 156 - Euro 12,00
ISBN 978-88-6587-2024

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In copertina fotografia di Gabriele Albertazzi con Nicole Pensotti e Anut


Fatti, personaggi e luoghi che appaiono in questo libro sono di pura fantasia. Ogni riferimento a persone esistenti o esistite e a fatti reali è da ritenersi puramente casuale.


A tredici anni non si è ancora grandi ma nemmeno piccoli, ci si avvicina all’amore senza ancora conoscerlo, forse per questo, all’inizio, Carlotta confonde le molestie del fidanzato della madre, con innocenti attenzioni.
Sandra, la madre, accecata dall’amore per l’uomo e troppo impegnata dalla sua professione, non si accorge di quello che sta succedendo. Oscar, un padre in preda alla depressione per il doppio fallimento, come marito e imprenditore, non capisce quanto la figlia abbia bisogno del suo sostegno.
Solo Bret, il suo Alaskan Malamute di otto anni, sarà al suo fianco fino alla fine, come un angelo custode pronto a proteggerla.
Ambientato tra Lecco e la splendida cornice dell’alta Valsassina, l’autrice racconta, con un linguaggio semplice e diretto, una storia commovente, mostrando come, giunti alle soglie del 2013, l’essere umano abbia ancora molto da imparare dagli animali.


Prefazione

“L’ultima luna” di Monica Tantadini è un romanzo pervaso da un forte sentimento d’amore. Con la sua scrittura attenta, discreta e raffinata, scende nelle dinamiche esistenziali e nelle problematiche che si possono verificare all’interno di un nucleo familiare ed instaurare nei rapporti interpersonali con le persone che gravitano intorno a tale contesto.
Come a seguire la cronologia di un diario familiare, la vicenda raccontata si sviluppa nel secondo semestre dell’anno 2012 ed è divisa in sei capitoli: in ognuno di essi viene narrato ciò che succede in quel mese.
La protagonista è la tredicenne Carlotta, ragazzina molto brava ed intelligente, che però deve fare i conti con le molestie da parte dell’uomo che ha una relazione con la madre Sandra.
Purtroppo, la madre è innamorata di quest’uomo e prova per Edoardo un amore viscerale senza riuscire a vedere e comprendere la sua reale personalità: prima di tutto, perché si è appena separata dal marito Oscar e, al contempo, perché è troppo impegnata nel suo lavoro per offrire le attenzioni necessarie alla figlia ed accorgersi così di ciò che sta succedendo davanti ai suoi occhi.
Come se non bastasse, il padre di Carlotta vive una situazione di disagio esistenziale: si sente un fallito come marito, come uomo e, infine, anche come imprenditore. Tutto ciò non depone certo a favore di Carlotta, che vede il padre depresso ed incapace di capire che lei ha un bisogno estremo della presenza paterna, del suo ascolto amorevole: percepisce che ricevere aiuto da lui sarà alquanto faticoso.
In questo difficile momento della sua vita, l’unico ad essere vicino alla ragazzina, è solo Bret, un cane Alaskan Malamute di otto anni, che è sempre al suo fianco come un “angelo custode”: pronto a difenderla e a farle compagnia in ogni occasione.
Sarà proprio l’amorevole Bret a salvarle la vita ed il suo sacrifico le offrirà la possibilità di “ritornare a vivere”.
Con queste poche parole desidero invogliare a leggere questo romanzo che si alimenta del sentimento dell’amore: per la vita, per ciò che conta veramente, per un cane che, in alcuni momenti della vita, può diventare l’unica presenza che può offrire all’Uomo un po’ di calore ed affetto senza chiedere nulla in cambio. Non è forse questa la concezione più pura dell’amore? Un dono che viene offerto.
Monica Tantardini, con genuinità ed intelligenza, racconta questa storia commovente e struggente, innalzandola a testimonianza d’amore: senza dimenticare di evidenziare come alcuni gesti da parte degli animali possono essere una “lezione di vita” per molti esseri umani.
È da sottolineare inoltre che, Monica Tantardini, grazie ad una narrazione permeata da forte intensità emotiva e alla sua voce credibile, affronta temi di grande attualità, riuscendo a cogliere i dettagli più profondi della vita con la sua capacità di raccontare con toni discreti ed estrema delicatezza.
Il senso della narrazione è un grande dono e permette di rendere letterariamente vincenti anche gli avvenimenti più sofferti.

Massimiliano del Duca


L’ultima luna


Oh Grande Spirito
Concedimi la serenità di accettare le cose
che non posso cambiare,
il coraggio di cambiare le cose
che posso cambiare e,
la saggezza di capirne la differenza.
(Antica preghiera Cherokee)


“A te, che il silenzio non sia mai la tua arma di difesa”


PROLOGO

Come tutti ormai sanno, un’antica profezia Maya, ricorda che il 21 dicembre 2012 si concluderà un’era. C’è chi sostiene che il mondo avrà fine, chi assolutamente non ci crede, chi ci scherza, e invece chi, come Carlotta Casati detta Lotta, dodici anni quasi tredici, era convinta non sarebbe arrivata ai quattordici. Per via della profezia chiaramente!
Non mancava molto al fatidico giorno, se solo avesse avuto la certezza che tutto si sarebbe concluso, oppure no, probabilmente avrebbe percorso un’altra strada, meglio ancora, si sarebbe fermata prima di arrivare su quella dannata strada…
Qualcosa potrà farvi sorridere, altro commuovere, vorrei poter dire che tutto si concluderà per il meglio… ma questa è la storia, ed io, ho solo il compito di narrarvela.


CAPITOLO I

LUGLIO 2012

Giovedì 12 luglio

Quando aprì gli occhi, non scorse niente di famigliare in quella stanza, l’unica cosa che percepiva era il silenzio. Dei fili di luce entravano tra gli spazi delle tapparelle semichiuse. Lentamente, mentre si risvegliava, Lotta si ricordò dov’era e perché era lì; per colpa di sua madre. A dire il vero era stata lei, seppur obbligata dalla situazione, a scegliere quel luogo. Se proprio doveva andarsene da Monza, lasciare suo padre e i suoi amici, voleva perlomeno decidere dove vivere. Bret, il suo Alaskan Malamute di otto anni, con i suoi trentanove chili sbucò da sotto le coperte, le regalò un’affettuosa leccata su una guancia, scese dal letto e si diede un’energica scrollata.
Aveva scelto quel piccolo paesino di montagna soprattutto per lui, ma non solo. Quando la madre le aveva spiegato la situazione, riconobbe per la seconda volta quella sensazione strana, aveva provato piacere a metterla in difficoltà. «Se proprio non mi vuoi lasciare con papà, vorrei che andassimo a vivere a Casargo», le aveva detto una sera di quasi due mesi prima.
«E dove si trova questo Casargo?» aveva risposto sorpresa da quella richiesta.
Lotta, aveva girato lo schermo del computer verso la madre e mostrato la posizione geografica su google maps. La scelta, era caduta proprio su quel paese perché essendo appassionata di Alaskan Malamute, un giorno su internet, aveva visto che in una montagna lì vicino, a Giumello precisamente, da qualche anno si svolgeva una manifestazione dedicata ai cani da slitta.
Anche se da uno schermo, era rimasta affascinata da quei luoghi. In quanto a lei, a questo punto, un posto valeva l’altro, comunque si trattava di resistere solo qualche mese. Sempre per la faccenda Maya ovviamente.
In ogni caso, aveva concluso che per il suo fratello peloso, escludendo l’Alaska, quello era l’ambiente ideale. Lì, almeno lui, poteva essere felice.
«Veramente avrei trovato un appartamentino molto carino in centro Lecco, ha una bella terrazza per Bret, sarei anche vicina all’ospedale…» aveva ribadito la madre.
«Certo», le aveva risposto bruscamente «dimenticavo che le tue esigenze vengono sempre prima di tutto.»
Lotta, non aveva capito se Sandra avesse cambiato i suoi piani perché offesa da quella frase o per accontentarla. Fatto sta, che in poco tempo era riuscita a trovare una graziosa casetta con un pezzetto di giardino e vista mozzafiato, in un piccolo paesino aggrappato alla montagna, situato proprio sulla strada che porta a Giumello.
Alle coordinate GPS 46°01’60” N09°2’60” Indovero: ottanta anime, un bar, una biblioteca, due chiese e, a trentotto minuti dall’ospedale di Lecco.
Dopo essere scesa dalla ripida scala, si diresse in cucina, dov’erano ancora sparsi qua e là i cartoni con le loro cose. Rovistando in quello dove con un pennarello era scritto “cibo”, prese un succo per lei e i biscottini per cani per Bret; beh, il contrario avrebbe creato alcuni problemi!
Sul frigorifero era appeso un post-it, si avvicinò per leggerlo “sono in comune torno fra poco, ciao.”
Uscendo in giardino sentì i dieci rintocchi del campanile del paese più a valle, Bret emise dei deboli ululati, ogni tanto il sangue del suo antenato lupo tornava a pulsare, o probabilmente era solo fastidio alle orecchie. Subito dopo si era già spaparanzato sotto il platano.
L’assenza della madre era una buona occasione per uscire con Bret e fare un sopralluogo del paese. Per filarsela soprattutto. Si ricordò infatti che la sera prima, a malavoglia, aveva acconsentito ad aiutarla a sistemare la casa. Sapeva che sua madre si era presa una settimana di ferie per via del trasloco, ne avrebbe avuto di tempo per sistemare le cose. Si precipitò in cucina, e dal cartone con la scritta “vestiti Lotta”, prese un paio di pantaloncini corti, una maglietta, legò Bret al guinzaglio e si affrettò ad uscire.

***

Mezzogiorno era passato da dieci minuti e Lotta non era ancora rientrata. Sandra cominciava ad avvertire un po’ d’ansia, anche se era certa che l’aveva fatto apposta, per farla preoccupare. Per farla incazzare! Era consapevole che di proposito, aveva lasciato il cellulare bene in vista sul tavolo e, nessun bigliettino accanto al suo per comunicarle dov’era andata. Era con questi atteggiamenti che quotidianamente, da quasi un anno, le stava facendo la guerra. La sfidava, la metteva di continuo alla prova. Non glielo aveva mai detto apertamente, ma aveva capito che sua figlia la incolpava della separazione.
Sandra era diventata il capro espiatorio della sua rabbia. In un primo momento aveva cercato di parlarle, di farle capire i motivi del divorzio, dell’obbligato trasferimento, evitando di entrare nei particolari. Risultato: le mezze verità erano servite a confonderle ulteriormente le idee. Non poteva certo dirle che il padre, tanto amato e ammirato era pieno di debiti fino all’ultimo capello. Che invece di darsi da fare a rimettere in sesto la piccola falegnameria, si dava da fare con la loro domestica, una ventenne Cecoslovacca. Più Vacca che Ceca.
Lotta, per di più, era entrata in quella tanto temuta fase chiamata adolescenza. Aveva visto con i suoi occhi il terremoto evolutivo irrompere nel suo corpo. Ripensandoci, anche se passati trent’anni, riusciva a ricordare quella sensazione di sentirsi sempre come “fuori posto”, l’impressione di essere in un corpo nuovo e di non sapere come maneggiarlo. Gli ormoni impazziti che causavano violenti sbalzi d’umore. Oscillazioni, le chiamava un suo amico psicologo.
Dopo aver guardato per l’ennesima volta dalla finestra, la vide arrivare. Mentre percorreva l’ultimo tratto di strada saltellando, parlava con Bret che fiero camminava al suo fianco. Sorrideva. Non a lei. I suoi sorrisi erano sempre destinati ad altri. Com’era cresciuta la sua piccola donna. Le lunghe gambe eburnee uscivano dai pantaloncini, i vaporosi ricci fulvi fluttuavano ad ogni balzo. Come le mancavano i suoi abbracci, le carezze, le sere d’inverno sotto la coperta accoccolate sul divano a contare se qualche nuova lentiggine era comparsa sul suo nasino perfetto.
Pazienza.
Doveva avere solo tanta pazienza. Non era nemmeno riuscita a parlarle di Edo, doveva decidersi a farlo accidenti. Non oggi.
Lotta e Bret irruppero in cucina, la tavola era apparecchiata, Sandra fece finta di trafficare con il forno «Ah, siete tornati» disse senza girarsi, cercando di usare un tono pacato. Basta con i litigi.
«Non è ancora pronto? Ho una fame allucinante», il match era cominciato.
«Manca ancora qualche minuto, giusto il tempo di aiutarmi a sistemare le ultime cose nei cartoni.» Uno a zero palla al centro.
«Prima devo dar da mangiare a Bret, abbiamo camminato molto, sarà affamato.» Nel prendersi cura del cane era impeccabile. Da quando l’avevano comprato era stata Lotta ad occuparsene. Forse per quello ubbidiva più che altro a lei. A Sandra dava retta un po’ meno, a volte aveva persino l’impressione che le ridesse in faccia. Ai suoi ordini, inclinava leggermente il muso, apriva appena appena la bocca e la guardava, poi come niente fosse, tornava a fare quello che stava facendo.
«Allora, sei stata in paese? C’è qualche negozietto carino?» le domandò dopo essersi seduta di fronte volendo trovare un argomento neutro.
«Certo, il centro era affollato, oggi iniziano i saldi… c’era moltissima gente in coda alle vetrine di Armani, Versace e Gucci. Abbiamo dovuto faticare per passare oltre, e riuscire a prendere il sentiero che sale sulla montagna.»
«Ah, ah, ha,» quando voleva sapeva essere spiritosa.
«Siamo stati fra i boschi, e dopo un’oretta di cammino lungo la ripida salita siamo arrivati in un piccolo alpeggio, la vista era stupenda, credevo di essere arrivata in paradiso», Sandra considerò che era da molto che non la sentiva parlare con quell’entusiasmo. «Bret correva avanti e indietro, sembrava perfettamente a suo agio tra i boschi.»
«Se è così bello come dici, potresti portare anche me.»
«Tu odi camminare e odi la montagna, figuriamoci le due cose messe insieme.»
«Ma amo te.» Silenzio. L’aveva sorpresa.
«Devo andare a sistemare la mia camera.» Dopo un attimo era già uscita. Bret, che dopo aver mangiato una generosa dose di cibo si era sdraiato sul pavimento, seguì Lotta con lo sguardo finché riuscì a vederla poi, si alzò pigramente. Sandra lasciò cadere la testa sul tavolo e si girò verso l’animale: «Tu che sei suo amico, dimmi cosa devo fare con lei?» Il cane come risposta, passandole vicino a una gamba, le sferrò un colpetto di coda nel fianco e raggiunse la sua adorata compagna.
Così facendo, aveva voluto darle il suo appoggio o più semplicemente “appoggiarle” un migliaio di peli bianchi e grigi sui suoi pantaloni neri?


Giovedì 26 luglio

L’atrio dell’ospedale non conosceva tempo e stagioni, ogni giorno un continuo via vai di gente, scorreva ansiosa di entrare o d’uscire.
Dopo il turno e un’ora di assemblea con i dirigenti del reparto, Sandra per metà euforica e metà dubbiosa, si unì al flusso di persone in uscita. Erano tre anni che esercitava nell’ospedale di Lecco, durante la riunione il primario dell’ortopedia si era complimentato per il lavoro svolto in quel periodo e, a causa di problemi personali le aveva proposto di affiancarlo per un tempo imprecisato.
Il suo sogno si stava avverando, certo non era una vera e propria promozione, ma era una buona possibilità per il futuro. Capitava tuttavia in un momento sbagliato. Questo voleva dire più responsabilità in un fase delicata della sua vita. Voleva dire più ore di lavoro adesso che era una mamma single. Voleva dire più soldi. Si era presa qualche giorno per considerare la proposta, anche se in cuor suo, sapeva di non riuscire a rinunciare a un’opportunità tanto allettante. Per quel pomeriggio decise di accantonare la questione “carriera”; nell’immediato ce n’era un’altra da affrontare.
I tacchi delle scarpe affondavano nell’asfalto surriscaldato, anche se ciondolante riuscì a raggiungere il supermercato a pochi metri. Aveva preso l’abitudine di fermarsi lì a fare la spesa prima di tornare a casa, non solo per comodità.
Dopo aver riposto un bel pezzo di magatello nel carrello, si diresse nel reparto dei vini; tra le tante marche optò per un Vermentino di Sardegna. Mentre s’incamminava verso la cassa ricontrollò la lista della spesa, non aveva dimenticato niente, perlomeno su quella lista, considerò. Non era ancora riuscita a dire a sua figlia che quella sera, aveva organizzato una cena e, che quella stessa sera, le avrebbe presentato il suo fidanzato. A dire il vero, non le aveva nemmeno detto di avere un fidanzato.
Aveva acconsentito a trasferirsi in montagna a costo di continuare a fare la pendolare, seppure in un’altra direzione, per dimostrarle che era disposta a sacrificarsi per lei, passate però due settimane il suo comportamento non dava nessun segno di miglioramento. Tuttavia la relazione con Edo, seppure da solo qualche mese e nonostante la differenza d’età, si stava facendo sempre più seria, e lei, aveva letteralmente perso la testa per quell’uomo.
Era proprio tra quegli scaffali che l’aveva conosciuto, a quel ricordo sentì un leggero brivido percorrerle la spina dorsale.
Quel giorno di cinque mesi prima, mentre valutava se comprare il tonno all’olio d’oliva in offerta speciale o quello a prezzo maggiore ma con meno calorie, si accorse che due occhi azzurri la stavano fissando. Da come la guardava, aveva intuito che il proprietario di quegli occhi non era di certo interessato al tonno, ma all’effetto che faceva col tailleur. In effetti prima di uscire, guardandosi allo specchio, con una punta di vanità, si era fatta i complimenti da sola. Dopo la separazione aveva perso qualche chilo e, a quarantatré anni poteva ammettere di avere ancora un bel fisico. Il colore blu oltretutto, lo stesso degli occhi, faceva da contrasto ai suoi lunghi ricci biondi.
«Se posso darle un consiglio è molto più saporito il tonno all’olio d’oliva», le aveva detto con un leggero sorriso che metteva in mostra la lunga fila di denti bianchi e perfetti «oltretutto, mi sembra già in splendida forma.»
«Grazie», aveva risposto riponendo la versione light, «è per il vitello tonnato», aveva chiarito maledicendosi per non aver saputo trovare qualcosa di meno banale da dire.
«Non mi dica che sa prepararlo? È in assoluto il mio piatto preferito, ne ho divorate quantità industriali.»
Se il vitello tonnato assunto ad alte dosi poteva dare quei risultati, probabilmente, doveva prendere in considerazione l’idea di prescriverlo anche ai suoi pazienti.
«Dalla morte di mia nonna però non ne ho più mangiato e non sono nemmeno capace di cucinarlo, forse…» pendeva da quelle labbra rosse e carnose «se le va… io abito proprio qui al piano di sopra, potrebbe insegnarmi come si cucina.»
Tanto per chiarire: preparare quel piatto non richiedeva una grande difficoltà, avrebbe potuto benissimo spiegarglielo, ma davanti a quei bicipiti che uscivano dalla maglietta…
…al ricordo del suo ex marito sotto la colf… «Ecco, se vuole posso aiutarla a comprare tutto il necessario» aveva farfugliato senza rendersi subito conto che, detta in quel modo non si capiva se si riferisse alla carne o ai preservativi «gli ingredienti, intendevo», aveva corretto imbarazzata.
Si erano presentati, erano passati dal darsi del lei, al semplice tu. L’aveva aiutato a prendere tutto l’occorrente, infine, pure capito perché lo servivano con esagerata gentilezza. Era il proprietario del supermercato.
«Allora Sandra, saliamo?»
Non si era mai trovata in una situazione del genere, l’unico uomo della sua vita, sin dai sedici anni, era stato suo marito e da dopo la separazione non aveva più avuto nessuna storia.
“È pazzia, pazzia pura,” aveva pensato mentre saliva sull’ascensore.
I loro occhi erano puntati l’uno addosso all’altra. Nel tempo di quei due piani il suo cervello fu attraversato da trentaduemila pensieri; “Adesso prendo una scusa e me ne vado.”
Sua figlia quel giorno era dal padre, non aveva nemmeno il pretesto di dover rientrare.
Lui le sorrideva, “Anzi entro gli scrivo la ricetta bevo qualcosa invento una scusa e poi vado.”
Le sfiorava un braccio. “Ok gli preparo il vitello tonnato nel frattempo bevo qualcosa, ma poi giuro che me ne vado. Non sono quel tipo di donna io.”
Inutile dire che una volta entrati nell’appartamento non erano nemmeno riusciti a mettere la carne a cuocere, quella sera infatti, l’unica ad uscire cotta da quella casa, fu lei.
«Signora, venga più avanti, signora mi sente? Avanti!» La cassiera con un tono non molto dolce la risvegliò dai suoi ricordi.
«Mi scusi ero soprappensiero» La ragazza a occhio e croce aveva qualche anno più di sua figlia, ma il suo sguardo severo riusciva a metterla a disagio.
Non era stata l’occhiataccia della cassiera magari esausta dalla lunga giornata di lavoro a metterle un po’ d’inquietudine, ma il pensiero che quello stesso sguardo l’avrebbe trovato di nuovo una volta rientrata a casa.
Uscire dal supermercato era come entrare in un forno. Quando aprì la portiera del SUV nero parcheggiato nel piazzale in pieno sole, l’indicatore di temperatura segnava 41 gradi. Per la prima volta riuscì a trovare un lato positivo nel dover tornare in quel desolato paesino: la temperatura era decisamente migliore.

***

[continua]


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