Storie un po’ così

di

Pietro Rainero


Pietro Rainero - Storie un po’ così
Collana "I Salici" - I libri di Narrativa
14x20,5 - pp. 88 - Euro 9,00
ISBN 978-88-6587-9481

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In copertina: «Mongolfiere in Cappadocia. Turchia» © francescopaoli- stock.adobe.com


Opera finalista nel concorso letterario Jacques Prévert 2018


PREFAZIONE

Ho già avuto occasione di scrivere, e non una sola volta, sulla proficua abundantia creativa di Pietro Rainero; sulla sua capacità di inventare storie e personaggi che poi non sono del tutto fuori dal mondo reale, dacché l’Autore spesso si serve della sua fantasia per pungere o per annotare in maniera paradossale casi e situazioni, mettendo in rilievo vizi e virtù, doti e manchevolezze, ambizioni o frustrazioni, senza, per questo, mettersi in cattedra a pontificare.
Quello che emerge da subito è la sua modestia interpretativa, priva di egotismo o di qualsiasi egocentrismo, di qualsiasi intervento che lo riguardi, biograficamente, da vicino.
Sì c’è il suo mondo, la sua visione a volte assurda di una realtà fuori dagli schemi abitudinari; c’è senz’altro la sua arguzia intellettiva, la sua verve partecipativa, il suo intrufolarsi da osservatore nelle vicende che narra, ma quasi con un tocco ariosteo, spesso distaccato, anche se con animo denso di umana conoscenza, di umano senso del vivere.
A proposito credo giovi a questa presentazione riportare una tranche di un mio scritto sulla sua opera del 2018 “Novelle geografiche”, come riferimento al suo stile, al suo modo di proporsi e alla sua virtù affabulante: “Un titolo indicativo, esplicativo che ci dà fin da subito una importante dritta per la lettura. In effetti l’Autore spazia con la sua cultura e la sua creatività. Vola come un’aquila sopra monti e colline, al di là di mari, aggrappandosi a conoscenze storiche che in suo possesso vengono poi elaborate magistralmente dando frutti sapidi di poesia, anche.
Sì, se per poesia si intende creatività, immaginazione, fantasia, sentimento, e tanto amore per la natura. Va bene!, la cosa che differenzia i due generi è palese: la poesia è in versi (strofe), figure retoriche, vocaboli più ricercati; la prosa: non ha versi, è più lunga, ha parole meno ricercate, spiega, descrive anche in modo accurato; dialoga… Ma senz’altro nella prosa del nostro sono presenti quegli input di cui sopra.
Il suo è un andare franco, leale, schietto, direi, baciato da una mano alta per l’elasticità della narrazione, per la semplicità e la chiarezza della comunicazione.
Non ci sono parafrastiche contorsioni, né involuzioni morfosintattiche o altro che appesantiscano il dettato narrativo.
Tutto scorre armoniosamente: la parola segue mansueta gli scarti immaginifici dello scrittore, gli va dietro inventandosi e reinventandosi, smussandosi o arrotondandosi, facendosi impronta decisiva di un sentire di vasta larghezza contemplativa.
E non pensiate che la fantasia assorba il tutto fra le sue branche, e tutto faccia suo a scapito di una realtà sociale, o più semplicemente umana, reale.
Spesso si può parlare di apologo per gli intenti di Pietro Rainero, volendo egli stesso dare un senso parenetico alla sua voce. Ed è così che da un parossismo spesso traslato si può ricavare un ammonimento riferito al mondo in generale sovente sperso nei meandri della vita…”.
E riprendendo il filo del discorso, in questa nuova raccolta per i tipi della casa editrice Montedit, sono contemplati undici racconti: cinque già pubblicati sul blog “Alla volta di Lèucade” di cui Rainero è un assiduo collaboratore.
Racconti che nel loro ensemble ci parlano di vari e articolati movimenti contenutistici, di plurali ambienti narrativi, di molteplici sequenze naturali che, con la loro forza evocativo-visiva, contribuiscono non poco alla identificazione del simbolismo dei personaggi.
Già l’incipit del primo racconto ci mette, fin da subito, a contatto coll’ambiente che farà da substrato al prosieguo della narrazione: “BUIO. Silenzio. Poi un rumore assordante. Fumo. Stridio metallico di rotaie. Dal tunnel nasce, sbuffando, una locomotiva nera nera come il carbone che, bruciando nella caldaia, sprigiona la forza necessaria a spingere gli stantuffi che permettono al convoglio di divorare chilometri e inghiottire valli…”
Una pennellata a tinte forti di natura neorealistica dove l’ambiente fa da cornice significante, fisica e introduttiva; da antiporta al resto della storia; il narratore, prendendoci con energico trascinamento, pagina dopo pagina, ci conduce fino all’ultimo rigo del testo, lasciandoci sempre curiosi e impazienti di conoscere altre avventure.
Questa è la dote principale dello scrittore: suscitare emozioni e sorprese; distrarci un po’ dalle nostre ristrettezze terrene.
D’altronde ogni essere umano vorrebbe uscire dalle miserie della quotidianità, dalle pochezze della sua vicissitudine; vorrebbe allungare il tiro oltre la circonferenza del suo esistere.
Ebbene Pietro Rainero con nobiltà d’animo ci trascina in mondi nuovi con un surrealismo che sa di ultraumano.
E lì il lettore si distende, trova pace, serenità tra fiabe e invenzioni di rara fattura: dal ritrovamento da parte del pescatore di una bottiglia con all’interno un foglio arrotolato: “Il vecchio Niels srotolò la carta, che conteneva un racconto, che narrava di una bellissima principessa sirena…” (__L’uomo che pescava fiabe__); alle vicende di Cloto, Lachesi, Echimede, macellaio di Sparta, del racconto T.F.R. (taglia il filo residuo) “Sì, sì, che bello! Adoro gettare i dadi!”, buttando nella pentola stracolma di acqua bollente il cubo di estratti vegetali. Poi, sempre lei, Lachesi, prese l’enorme cucchiaio di legno e si apprestò a rimescolare il liquido ribollente, esclamando infine: “Fatto! Tra dieci minuti sarà pronta una minestrina con i fiocchi!” “Stupida!! Intendevo il dado della vita!” la rimproverò Cloto. “Ah… quello… Va bene, eccolo qui! Per chi devo buttarlo?” “Lancialo per Echimede, quel macellaio di Sparta” “Bene” e Lachesi lasciò cadere dalla sua mano il dado a forma di cubo. “Croce!!” constatò tutta eccitata Atropo che, pochi attimi dopo, impugnò le cesoie. “T.F.R., T.F.R.!” gridò Cloto. “Sì, sì, taglia il filo residuo, taglia il filo residuo!” la esortò anche Lachesi…”.
Un andare dialogico che si inserisce a puntino fra sequenze di ordine narrativo-descrittivo-introspettivo. Su, su fino all’ultima significativa narrazione Castelli di sabbia: “BRAHMA, fantasioso fanciullo, creava meravigliosi manieri, VISHNU, assennato adulto, amorevolmente li custodiva, SHIVA, malvagio vecchio, cinicamente li calpestava” che, col suo profondo e filosofico pensiero ci porta ad un finale ricco di interrogativi sull’essere e l’esistere: “Cosa è lo spazio? E cosa il tempo? Perché esiste qualcosa invece di nulla?” “Questo ci rimanda necessariamente a Dio” sostenne gravemente il primo filosofo, che subito aggiunse: “Perché gli uomini si pongono queste domande? Anelano a Dio? Dio li chiama? Insinua dubbi? Agita un po’ le loro menti e i loro cuori? Perturba un goccio il loro essere? Si pongono queste domande perché cercano Dio? Chi è Dio? Esiste?”
Il tutto dolcemente accompagnato da sfumature ipotestuali di urgente resa emotivo-descrittiva, dove la natura sembra prendere in mano il bandolo della matassa per ergersi come regina: “Il sole intanto, nell’avvicinarsi alle colline, disegnava lunghe ombre sulla sabbia ancora piacevolmente calda. Le prime ombre dell’incombente… Qua e là, disposti casualmente sulla rena, rimanevano alcuni bastioni e torri isolate, unica testimonianza di lavori creativi e di vivaci dialoghi, di un bel giorno veramente esistito. Ricordo di un pomeriggio impiegato nel costruire qualcosa di bello che si sperava in fondo, pur sapendo il contrario, duraturo. Castelli di sabbia erano questi, come castelli di sabbia erano state anche le discussioni tra i due filosofi, castelli di nulla che lui, Shiva, avrebbe presto calpestato ad uno ad uno riducendoli a mucchi di cenere informe, vago ricordo di vite passate… Shiva non riuscì, nella penombra incombente, a trattenere una breve risata. Iniziò a dirigersi verso la spiaggia. ERA GIUNTA LA SUA ORA, L’IMBRUNIRE. Era giunta l’ora della sua consueta passeggiata notturna”.
A voi la lettura che senz’altro vi porterà in un mondo tutto da scoprire. Questo è.
D’altronde le sintesi sono le medicine meno adatte per guarire la pigrizia: il compito del prefatore è quello di introdurre e non di svelare, né tanto meno quello di togliere al lettore il piacere della scoperta.

Nazario Pardini


Storie un po’ così


GALLERIE

Eternità è una parola molto lunga,
specialmente verso la fine.
(Woody Allen)

Buio.
Silenzio.
Poi un rumore assordante. Fumo.
Stridio metallico di rotaie. Dal tunnel nasce, sbuffando, una locomotiva nera, nera come il carbone che, bruciando nella caldaia, sprigiona la forza necessaria a spingere gli stantuffi che permettono al convoglio di divorare chilometri e inghiottire valli.

Lo scompartimento è composto da quattro poltroncine.
Occupate da altrettante persone. C’è la donna, sì, la signorina con la borsetta rossa ed i capelli neri.
Poi il vecchio con la barba, bianca. Sembra un saggio nonno. Poi c’è l’uomo con gli occhiali, intento a scrutare le notizie del quotidiano che tiene in mano. Sprofondato in quelle notizie.
E poi c’è lui, il giovane.
Si sono presentati all’inizio del viaggio: la conoscenza, così come la confidenza, è poca.
Rompe il ghiaccio l’anziano signore dalla fluente barba:
“Ho visto, recentemente, un bellissimo logo. Sapete, prima della pensione io mi occupavo di pubblicità”.
“Che tipo di logo?” chiede l’uomo con gli occhiali alzando, incuriosito, lo sguardo dal giornale.
“Beh… era fatto come un otto coricato, sapete… il simbolo dell’infinito. Ma al centro, dove si toccano i due occhielli, aveva un piccolo cerchio azzurro, era come uno strano nastro di Moebius intrecciato. Guardate, così!”
E, tolte dalle tasche un pezzo di carta ed una penna, traccia un’immagine.

“Bello!!” dice la donna “sembra un insetto che vola, o una farfalla, con due ali. O forse un’elica. Sì, un’elica”
“Il cerchio, azzurro, secondo me vuole rappresentare il pianeta Terra, la vita” spiega il vecchio.
“Dice?”
“Sì. Praticamente simboleggia la vita, un tempuscolo infinitesimo, un atomo di tempo che si dipana tra un oceano temporale infinito prima ed uno dopo. La Terra esiste da 5 miliardi di anni e tra altri 5 non esisterà più. Prima e dopo si estende l’eternità.
Così è anche l’esistenza umana, un piccolo pertugio aperto in un muro dall’estensione infinita, una finestra da cui possiamo, per un attimo, gettare uno sguardo, magari distratto, sulle cose del mondo, belle e brutte. Forse ha ragione anche Lei, signorina. Forse simboleggia anche un’elica, la doppia elica del nostro DNA, l’elica della vita.
Il cerchio azzurro è messo lì, nel centro del simbolo dell’infinito. Così come Dei sconosciuti ed onnipotenti ci hanno incastonato nel bel mezzo del Creato, chissà perché!?”
“Ha ragione” interviene lui, il giovane “la nostra esistenza esce dal buio, da un nulla infinitamente lungo, si agita poi per un pugno di lustri o decenni e dopo…”
“…ed è subito sera. Come dice il poeta” conclude il vecchio.
“Già. Entriamo in un altro buio, infinito. Come tra due gallerie; una galleria senza fine prima, una senza fine dopo. E noi, che in mezzo tra l’una e l’altra guardiamo un po’ a destra e a sinistra come è fatto il Mondo, e vorremmo capirlo un po’ meglio”.
“Sa che una volta” dice il signore con gli occhiali “ho avuto la consapevolezza, che mi ha colpito come un pugno allo stomaco, che dopo morto non mi sveglierò più, per sempre! Ero sul letto, mi sono seduto di soprassalto, dal terrore!”
“Non potremmo parlare d’altro? Quasi quasi sto male” supplica la signorina dalla borsetta rossa.
“Eppure voi donne dovreste avere forse un altro rapporto con la morte, visto che donate la vita” commenta lui, il giovane.
Che, qualche secondo dopo, abbassa il finestrino per guardar fuori.
“Toh, un’altra galleria, tra poco. D’altronde siamo in montagna”.
“Ah, sì?” Anche il signore con gli occhiali dà una fugace occhiata fuori, dicendo poi “ma io, veramente, non vedo nessuna galleria, assolutamente. Solo cime innevate in lontananza, e un lago”.
Ma il giovane insiste: “Ma come!? È lì, non la vede? Sarà sì e no a mezzo chilometro di distanza”.
È quasi risentito. E quasi bisticciano, i due. Allora anche l’uomo con la barba si alza e guarda fuori.
“No” è il verdetto “Nessuna galleria, nessun tunnel. È Lei che sbaglia, giovanotto. E, le assicuro, sono molto dispiaciuto per Lei, rattristato. Condoglianze”.
“Ma che sta dicendo? Non mi è mica morto nessun parente. E nessun amico”.
“Ma come, mio caro amico, non lo sa? Non lo sa che se una persona scorge una galleria inesistente, mentre viaggia in treno, significa che gli resta da vivere solo il tempo impiegato dal convoglio per raggiungere l’entrata del tunnel? Quando il nostro vagone entrerà nell’apertura che non esiste, ma che tuttavia lei vede, lei morirà. Sono desolato, ma le resta solo una manciata di secondi”.
“Coraggio, coraggio amico mio, che la vita è un passaggio” cerca di consolarlo l’uomo dagli occhiali.
“Tutti, prima o poi, facciamo quella fine lì” aggiunge la signorina dai capelli neri.
“La vita è come un viaggio in treno. Quando nasciamo e saliamo sul treno, incontriamo persone che crediamo che ci accompagneranno durante tutto il viaggio: i nostri genitori. Purtroppo la verità è un’altra: loro scendono in una stazione e ci lasciano senza il loro amore e affetto” sentenzia il vecchio.
“Qualcuno, quando scende, lascia una nostalgia perenne…” aggiunge ancora la donna.
“Qualcun altro sale e riscende subito, e lo abbiamo a mala pena notato…”
Lui è immobile, con la paura dipinta sul viso.
“Ma io sto bene, mi sento benissimo!”
“Non si può mai sapere, amico mio. Un infarto improvviso, un aneurisma. Quanti se ne sono andati in questo modo! Chi può sapere l’ora della propria morte?”
Il treno, rapido, sempre più rapido, o almeno così sembra al giovanotto, si avvicina inesorabile al buco nero, alla scura apertura nella montagna, che ai suoi occhi si ingrandisce sempre più inghiottendo il resto del panorama, quel panorama pieno di luce, di sole, di neve bianca, di vita.
“La prenda con filosofia”.
Altre frasi di circostanza: “È destino, purtroppo a lei è toccato da giovane”
Lui è sempre immobile, per lo spavento. Ma che stanno dicendo? In quale incubo è capitato? Vorrebbe scaraventarli tutti fuori: tutti e tre. L’anziano signore seduto di fronte a lui, il tizio con quei ridicoli occhiali, e la giovane donna, borsetta rossa compresa!
Pochi secondi, qualche secondo ancora… No! Non è possibile! No! No! No!!

Stridii metallici sulle rotaie. Il nero locomotore sta per confondersi con il colore, lo stesso, del tunnel. I pistoni premono e spingono sulle ruote.
Un fischio acutissimo, poi silenzio.
Fumo.
BUIO.

[continua]


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