Passaggio casuale di un angelo

di

Pino Napoli


Pino Napoli - Passaggio casuale di un angelo
Collana "I Salici" - I libri di Narrativa
14x20,5 - pp. 98 - Euro 9,00
ISBN 978886037-7029

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Introduzione

Una notte di qualche anno fa, nell’attraversare lo Stretto di Sicilia, una nave scomparve dopo aver lottato e perso contro un mare turbolento e nemico. Era una delle amaramente note carrette galleggianti. Una delle tante, delle troppe, che ogni giorno portano masse sempre maggiori di persone in fuga da paesi dominati dalla miseria e dalla paura. Persone cui non rimane altro che un sogno di terra promessa: un posto dove vivere in pace, dove sentirsi rispettati, dove si può imparare il significato della parola serenità. Mirano al pane quotidiano per i figli e a qualcuno di quei diritti di cui, si dice, dovrebbe trarre beneficio ogni essere umano.
I passeggeri della nave scomparsa speravano di trovarlo da questa parte del mare, quel posto. Qualcuno c’era già stato e aveva raccontato meraviglie ai limiti del credibile. Non l’avrebbero trovata nelle nostre nazioni la terra promessa che sognavano, né in altre parti del mondo. Non esiste un luogo simile a quello di cui avevano sentito favoleggiare, se non nelle bugie di chi li aveva convinti a partire, a tentare, che tanto non si ha nulla da perdere. Ma di sicuro con un po’ di buona volontà da parte loro e anche da parte nostra, un pezzo di pane si sarebbe potuto recuperare in qualche angolo nascosto e trascurabile della nostra società in continua ricerca di nuove forme di ricchezza.
La notte in cui la nave affondò non ci furono superstiti delle centinaia di persone a bordo. L’imbarcazione intraprese la discesa nelle fredde oscurità marine portandosi dietro l’intero carico di gente.
Sulla faccia del mare rimasero a galleggiare solo alcune foto, recuperate a distanza dal punto della tragedia, per uno strano caso sulla medesima rotta che la nave stava seguendo. Si muovevano come animate da volontà propria. Come se tentassero di arrivare alla fine di quel viaggio e avvistare la costa che i loro possessori, chi le conservava in tasca o strette tra le mani, con tanta forza d’animo avevano bramato di raggiungere, anche a prezzo della vita.
Nelle foto, l’acqua salata non aveva ancora cancellato i volti di donne con i figlioletti in braccio, di giovani spose nell’abito nuziale, sorridenti, belle nella loro semplicità disarmante per chi è nato e cresciuto in una cultura superficiale e moderna come la nostra.
Forse le facce ritratte appartenevano a persone a bordo della carretta, forse a parenti salutati prima della partenza, con la promessa di mandare presto notizie buone e un po’ di denaro per rendere più facile la sopravvivenza.
Mi chiesi perché nessuno li abbia soccorsi in tempo, perché non sia stato possibile sapere delle loro difficoltà.
C‘è qualcosa di sbagliato nell’impostazione che abbiamo dato in millenni di storia al mondo in cui siamo nati e in cui facciamo nascere i nostri figli. C‘è bisogno di un cambiamento immediato perché siamo già in forte ritardo, di un avvenimento straordinario, addirittura di un miracolo, per rimediare alla nostra incapacità di darci delle regole giuste, che siano davvero rispettate. Occorre un segno grandioso, su scala globale, che faccia dell’umanità intera sua testimone, che ci costringa ad andare oltre le nostre frivolezze, i nostri capricci, il nostro incorreggibile egoismo.
È da questa idea che nasce la seguente storia. Ho immaginato cosa accadrebbe se davvero un segno straordinario fosse ben visibile agli occhi di ogni abitante di questo mondo.
Penso che gli uomini non dovrebbero affidarsi all’apparizione di chissà quale sfavillante creatura per decidersi al cambiamento. Quanti ne sono passati di angeli senza essere stati notati, né presi sul serio? Non avevano ali, non erano diversi nell’aspetto, quindi la loro voce non è stata ascoltata. Questo senza scomodare le grandi menti illuminate dal bene, i leader della pace, i santi presenti in ogni religione. Tra le persone comuni, semplici, anonime potrebbe celarsene uno. Potrebbe possedere la chiave per cambiare il mondo, magari contenuta in una sola parola che detta in un certo modo innescherebbe una catena di grandi cambiamenti.
All’inizio concepita come una narrazione di tre, quattro pagine, “Passaggio casuale di un angelo” ha acquistato dimensioni quasi in autonomia, intanto che veniva realizzata. I personaggi sono sorti in modo spontaneo, nati vivi e coscienti della loro natura e hanno permesso che la “loro” storia crescesse fino a passare da racconto breve a romanzo breve.

L’Autore


Passaggio casuale di un angelo


A mio padre


1.

Risalendo la distanza che separava il mare dal cielo, si arrivava davanti a una casa situata a metà del cammino o poco più in basso. Non che la casa fosse sospesa in aria a centinaia di metri d’altezza. Niente di così irreale. Semplicemente, stava su una collina, quasi sulla cima, lontana dal passaggio abituale degli uomini, nascosta dalle ombre ramificate di numerosi alberi che la custodivano come sentinelle dall’occhio attento ed esperto.
L’unico visitatore della collina era il vento. La attraversava ogni giorno, di continuo, portandole notizie delle zone sottostanti, delle pianure, del mare, delle colline minori. Parlava un linguaggio molto vario a base di odori. Le parole più frequenti sapevano di erba appena nata, di semi affidati alle sue brezze, di sale prelevato direttamente dalla cresta delle onde. Un linguaggio pulito, più di quanto lo fosse stato negli anni passati, che la terra, gli alberi, la casa comprendevano con naturalezza e ascoltavano con grande interesse.
Dopo aver suonato alla porta, Linda si girò a guardare la strada che aveva percorso. Ma vide ben poco a causa degli alberi, ulivi enormi e vecchi di secoli, che ostacolavano presto la vista con le loro foglie e con le loro ombre. Partivano dal basso, salendo e popolando tutta la collina e animandola con le loro voci costruite sull’azione del vento. – Qua sì che si sta bene – pensò. Si respirava pace. L’aria era buona e il cielo sopra la casa senza una nuvola. – Bella seccatura abitare qui!
Linda sobbalzò. Un’anziana donna aveva aperto la porta. – Lo stavi pensando, vero? – No, stavo pensando anzi che è proprio un bel posto e l’aria… – Sì, sì, dite tutti così. E l’aria e gli alberi e la natura… ma se finisce il sale dove lo vado a prendere? Se occorrono pile nuove per il telecomando della tivù? Se ho bisogno di un’aspirina e non ne ho, o di un po’ di caffè. Lo chiedo ai conigli? Alle galline? Dammi retta ragazza, meglio abitare in città che in mezzo ai pioppi. – Credevo fossero ulivi. – Pioppi o ulivi, per me tra gli alberi non c‘è differenza. Entra, dai, che si riempie la casa di zanzare.
Si incamminarono attraverso un piccolo corridoio, la padrona di casa avanti seguita da Linda. – Signora Amina, lei è la signora Amina, vero? Mi chiedo il perché di questo invito. – Ti spiegherà tutto il vecchio. È di là in salotto. – Il vecchio? – Mio marito. È vecchio. Quindi come vuoi che lo chiami?
In salotto un simpatico signore si alzò a salutare la ragazza. – Benvenuta signorina Linda. È un piacere che abbia accettato l’invito. Si accomodi. – Chi avrebbe risposto di no a lei, signor… – Rosario. Mettiamo subito da parte i signori cognomi. Mi chiami solo con il nome.
Mentre Linda sedeva, i suoi occhi corsero agli oggetti presenti nella stanza. Vetrinette alle pareti esponevano collezioni insolite, a prima vista prive di valore, che però dovevano averne molto per il proprietario. Ali di farfalla in una, spezzate in più punti, dai colori cancellati, che non sembravano appartenere ad alcuna specie rara. Penne di piccione in un’altra, d’oca, di corvo, facili da reperire, tutte sporche, rotte, stropicciate. Come le foglie contenute in un’altra vetrina, comunissime, che cadono a milioni in autunno, impiegate forse in passato come segnalibri, tanto erano appiattite. – Cosa sono, ricordi? – chiese Linda.
Rosario stava per rispondere, ma la moglie lo anticipò. – Sì, mi ricordano che devo buttarli via. Questa casa contiene più roba fetida e puzzolente di una pattumiera. Ma uno di questi giorni sgombero tutto, faccio pulizia totale. – Che ne dici di sgomberare tu per adesso, vecchia, e di lasciarci in pace? Vai a preparare il caffè. – Vado, vado ma guai a te se racconti frottole alla ragazza. Io ti sento di là.
Andandosene Amina strizzò l’occhio a Linda. – Lei è proprio come immaginavo, Rosario, anche se l’ultima foto apparsa sui giornali risale a venti, venticinque anni fa. – Ventitré. – Ha il viso sereno e rilassato di chi ha visto cose incredibilmente belle nella vita. E la barba le dà proprio l’aria dell’uomo saggio che… – Che si macchia di sugo, quando mangia – aggiunse Amina dall’altra stanza. – Lasci perdere Linda: è vecchia. Piuttosto, stava dicendo delle mie collezioni, se rappresentano dei ricordi. In un certo modo, sì. Sono molto speciali per me. Non perché si tratta di oggetti rari, perché non lo sono. Non sono neanche ben curati, anzi li definirei piuttosto bruttini. Ma hanno volato. Ecco cosa me li rende preziosi. Li ho raccolti nel corso dei miei anni, senza cercarli e senza volerli e senza aspettare che il vento me li portasse. E il vento me li ha portati. – Capita a tutti di vedere una foglia depositarsi ai propri piedi, non capisco cosa ci sia di tanto speciale. – Diglielo, diglielo che non c‘è niente di straordinario, così magari li butta via lui! – disse Amina sempre da un’altra stanza della casa. Rosario spalancò gli occhi in segno d’intesa, come per dire che non la sopportava più. – Vero, è una cosa di tutti i giorni. Però è anche vero che non solo foglie e alucce d’insetto si sono posate sul mio cammino. Lo sa bene, Linda. E io non posso restare indifferente, quando l’evento si ripete, anche se riguarda oggetti banali e di nessun valore.
Linda sapeva davvero a cosa si riferiva Rosario.
Nella stanza c’erano in esposizione anche dei quadretti, piccoli pezzi di cielo dipinti. Capolavori non erano, eseguiti dalla mano grossolana del padrone di casa. Ad esempio in uno c’erano delle macchioline di colore bianco lasciato sgocciolare su una tela nera, che volevano essere stelle su uno sfondo di notte. Sembravano nati dalle manine prive di regole di un bambino. Ma secondo la ragazza nel signor Rosario doveva essere rimasto molto del bambino che era stato. – Ecco, le spiego perché l’abbiamo invitata. – Sono curiosa di conoscere il motivo in effetti, visto che da quando vivete quassù avete chiuso la porta ai giornalisti come me. – Ai giornalisti e non solo. Filosofi, uomini di scienza, agenti del governo: bussava gente di ogni genere alla nostra porta. E non mancavano i praticanti di magia. Un corteo senza fine che durava da quando ero piccolo. – Almeno si potevano scambiare due parole con qualcuno – attaccò Amina di là – sai che soddisfazione nel parlare con i pioppi. – Creda Linda, non se ne poteva più. Giungevano per intervistarmi persone da tutti i luoghi conosciuti e anche da quelli sconosciuti. Inviati venuti dai paesi più remoti. Neanche una volta però ho incontrato qualcuno capace di ascoltare, in grado di comprendere senza fretta di dare alle mie parole interpretazioni nel proprio interesse. Così un giorno che ero stanco più del solito ho chiuso e non ho riaperto. – Fino a oggi – concluse Linda. – Fino a oggi, visto che lei è qui, dentro casa mia. Ho letto parecchie cose del suo lavoro. Dalle sue considerazioni sui cambiamenti avvenuti nel mondo, ritengo che lei possa essere la persona giusta. – Giusta per cosa? – Per ascoltare la mia storia e quella di Afalor. E per capire. – Afalor sarebbe? È così che si chiamava… – Lui si chiamava proprio così. – Lui… l’Angelo – aggiunse Linda con occhi sognanti.
Seguì un breve silenzio, poi nella stanza riapparve Amina e annunciò che non aveva più caffè.


2.

Dal piano superiore della casa giungeva un rumore di finestra chiusa male, traballante sotto i colpi del vento. A chi l’apriva offriva il mare, chiaro e definito al di là dei riflessi argentati degli ulivi, in una strana illusione di vicinanza: sembrava che con una semplice mano tesa si potesse toccare l’acqua. Le persiane non erano serrate a dovere, e non occorreva molto al vento per vincere la loro resistenza e spalancarle. – Ora attacca con un giorno avaro di luce, la comincia sempre così la storia, stai a sentire – Amina disse a Linda. – Era appena trascorso un… – Ha cambiato inizio, da non credere! – Era appena trascorso, dicevo, un giorno avaro di luce. Le ore di buio erano scese premature, come sovente accade nelle sere invernali, e un cielo di carbone aveva preso il posto del cielo di cenere che dominava dall’inizio della giornata. Dato che pioveva, mi ero rifugiato nella rientranza di un portone per aspettare che smettesse, per poter tornare alla mia casa. Non ero solo, avevo a fianco gli amici di quegli anni, bambini come me. Cominciava a essere tardi anche per noi che passavamo l’intero pomeriggio a gironzolare per la città. Si ammorbidiva l’attesa con discorsi consueti per i ragazzini, con un occhio alle strade allagate e uno puntato al cielo e ai suoi capricci. Ci tenevamo pronti a partire come razzi alla prima interruzione della pioggia.
Il colore nero della sera si stendeva lucido e uniforme sopra le illuminazioni della città. Lo sporcava solo una macchia di luna, schiacciata sopra le nuvole nell’intento vano di brillare.
La pioggia sembrava non finire più, invece poi finì. Subito ne approfittammo, partimmo verso casa a passo veloce attraverso una città deserta, ridotta a un rumoroso sgocciolare di acqua dai cornicioni in caduta libera fino alle pozzanghere. L’aria fumosa di umidità prometteva che a momenti avrebbe ripreso a piovere, perciò il ritorno si faceva a ogni passo più frettoloso.
Non c’era tempo per far niente, neanche per rompere un lampione o il vetro di un’auto. Non potevo definirmi proprio un bravo ragazzino a quei tempi, e neppure i miei amici erano una compagnia di cui andare fiero. Anzi, formavamo una piccola banda di piccoli teppisti che combinava cento malefatte a ogni uscita. Sono sicuro che se non ci fosse stato l’incontro di quella sera le nostre vite avrebbero preso chissà quale cattiva strada.
Una delle mete abituali sul nostro percorso era il monumento ai caduti in guerra. Difficilmente non ci si fermava ai suoi piedi per una pausa. Ma quella sera andavamo proprio di fretta e l’intenzione era di passare oltre. La statua rappresentava un soldato visibilmente provato dalle fatiche della battaglia. Era stata messa in quel luogo, sulla strada che corre accanto al mare, allo scopo di godere dell’ondeggiare delle acque e dei riflessi dei tramonti al posto di chi non poteva farlo più perché la guerra se l’era portato via.
Quella sera a riposare ai piedi del soldato si era seduto Afalor.
Poteva immaginare la statua quale insolita creatura sarebbe venuta a rompere la monotonia dei suoi giorni? Penso che il metallo di cui era fatta abbia tremato, che si sia ferito di numerose crepe nel tentativo di muoversi, di girare la testa verso il basso, verso Afalor.
La mia banda arrivò correndo. Notammo la presenza dell’Angelo, quando fummo a pochi passi, tanto vicini che per poco non gli finimmo addosso. Ricordo che sbattemmo noi altri però uno contro l’altro, tanto brusco fu il modo con cui ci fermammo.
Un paio di noi riuscirono ad aprire bocca nonostante la sorpresa. – È lui vi dico, il marziano di cui si parla alla tele. Marziano? Non era un fantasma? Sì, che ora i fantasmi se ne vanno in giro così come se fosse una cosa normale. Perché i marziani ci vanno, dai dimmi, li hai visti tu?
La paura era tanta, naturalmente. Le parole poche e confuse, come avviene dentro ai sogni. Da buon fifone, forte solo all’interno del gruppo, io ero diventato muto davanti a quella figura.
Seduto sulla base del monumento, infreddolito in apparenza dal vento umido che proveniva dal mare, Afalor ci studiava con aria triste e curiosa insieme. Il suo corpo era nascosto da una coperta, avvolto in un abbraccio che andava dal collo alle gambe, come un bozzolo di seta scura da cui solo testa e piedi rimanevano fuori.
Nei miei ricordi è come se fosse accaduto tutto ieri. L’immobilità di quel momento, il gelo che si era formato, che aveva irrigidito il corpo di ognuno di noi. Un tempo che mi parve lunghissimo ma che in realtà non durò che qualche secondo. Poi l’immobilità si sciolse, il silenzio si ruppe, la paura esplose in una grande fiammata perché Afalor accennò a un movimento. Si mosse appena per alzarsi, ma subito fu bloccato dalla reazione dei miei amici che gridando scattarono via in una fuga che nessun ostacolo avrebbe potuto frenare. Si dileguarono nella sera in pochi attimi, senza voltarsi indietro neanche per dare la più piccola occhiata, lasciandoci soli, me ed Afalor, stupiti della loro paura. – Che fai, non scappi via anche tu? – mi chiese. Nella sua voce vibrava una nota di rassegnazione. Si stava abituando a reazioni simili a quelle dei miei compagni.
Risposi un no con un cenno della testa. E ancora oggi mi chiedo perché rimasi. Forse la curiosità era più accentuata in me piuttosto che in altri bambini. Forse la paura non mi faceva ragionare bene e magari sarei dovuto scappare anch’io via. Non lo so.
Restare significò comunque guardare meglio Afalor. E osservandolo l’emozione iniziale diminuì, sparì, e nacque al suo posto una sensazione piacevole, in pieno contrasto con l’ambiente cupo e piovoso in cui ci trovavamo.
Allora io avevo dieci anni e Afalor dimostrava più o meno la mia stessa età. Egli però era diverso non solo da ogni altro bambino, ma da qualsiasi altro essere vivente di questo mondo. Il suo corpo era solido e vaporoso insieme, allo stesso modo in cui ci appaiono le nuvole. E come le nuvole, quelle che vagano sole nelle giornate limpide e fredde, era biancastro, ma a guardarlo bene colorato da mille piccoli riflessi, quelli del paesaggio che ci circondava. I capelli grigio scuri, neri forse, erano uguali al cielo sopra di noi, mossi da leggeri movimenti che non dipendevano dal vento né da altre fonti esterne. Notai, cosa strana in mezzo a tante cose strane, che la coperta che lo avvolgeva era dello stesso colore dei capelli. Ma egli era un insieme di segni particolari e osservarlo nell’insieme era davvero l’unica cosa che si poteva fare. E gli occhi? Larghi più del normale, ma in armonia con il viso, pieni dell’aria ingenua tipica dei bimbi da poco al mondo, puliti da ogni vizio, da ogni cattivo pensiero.
Quella sera eravamo in piena caccia all’Angelo. In televisione non si parlava che di questo. Non ne conoscevo il motivo, ma pensavo che gli adulti dovessero avere le loro buone ragioni. In seguito compresi che non era così. – Dicono che vieni da un altro pianeta, è vero? – gli chiesi dopo aver preso un ampio respiro.
Non sapeva cos’era un pianeta. Gli spiegai che i pianeti erano stelle e ripetei la domanda. – Vieni da un’altra stella? Le conoscerai le stelle, no? – Sì, ma non posso venire da lassù. Sono lontanissime. Se tu sapessi quante volte ho tentato di raggiungerle, ma per quanto in alto sono salito non ci sono mai arrivato. Anzi, più andavo su, più sembrava che si allontanassero.
Lo ascoltavo con grande emozione. La mia immaginazione già accesa subì una netta impennata. Lo guardavo come farebbe ogni bambino, come un personaggio dei cartoni animati o delle favole, solo che egli era vero, vivo, in piedi davanti ai miei occhi. Potevo toccarlo. – Ci riproverò prima o poi a raggiungerle. Vorrei proprio vederle da vicino. Toccarle anche, perché no?
Parlava ancora delle stelle, l’argomento lo appassionava. – Se non sei di un altro pianeta, da dove arrivi allora? – chiesi io. – Da un altro posto – disse alzando le spalle, non sapendo cosa rispondere – da un posto diverso da qui, molto diverso. – Certo che ne hai creata di confusione in giro. Ti stanno tutti cercando, se non lo sai – gli dissi ridendo. Ma lui non rise. La sua faccia si annebbiò di tristezza.
Sedemmo insieme. Il buio della notte si era consolidato ormai. Si erano spenti gli ultimi rumori della città e i suoni del mare giungevano puliti. Nella luce dei fari puntati al monumento fumava una foschia densa che ci avvolgeva e ci nascondeva alla vista del mondo.
Il grande soldato sembrava la nostra sentinella, teneva lontano eventuali intrusioni, intanto che Afalor iniziava a raccontare la sua avventura in mezzo agli uomini.


3.

Ogni occasione sarebbe buona per i bambini per mettere a rischio la loro vita se non ci fosse chi li tiene lontani dai pericoli. Afalor non aveva genitori o altri a vegliare sulla sua salute, così andava dove la sua inguaribile sete di cose nuove lo portava, in totale libertà, senza conoscere limiti e con la convinzione che niente potesse dargli dolore. Certo, la sua natura gli permetteva questa sicurezza perché egli era immortale, come appresi in seguito dal suo racconto. Ma dell’incidente che diede inizio all’avventura in questo mondo avrebbe fatto volentieri a meno, se avesse potuto prevedere quali guai lo attendevano.
Passò da questa parte grazie a un insolito fenomeno naturale. Anche nel suo mondo era inverno e pioveva. Afalor aveva trovato riparo sotto ai rami palmati di un albero la cui specie non esiste qui da noi e attendeva quieto che il tempo migliorasse. Ma qualcosa disturbò il corso normale di quella giornata. Alzando gli occhi al cielo l’Angelo vide le nubi muoversi come se ruotassero attorno a un unico punto fermo. Si era formata una sorta di spirale dovuta chissà a che cosa, tanto forte da smuovere le nubi dalla loro ferrea immobilità.
Afalor non poteva rimanere a terra al riparo dalla pioggia, mentre un fenomeno tanto insolito si svolgeva proprio sopra la sua testa. Non bastava qualche goccia d’acqua a frenare la sua curiosità. Si alzò quindi in volo e puntò diritto verso il centro della spirale. Ma la sua eccessiva sicurezza di sé fu punita per la prima volta. Troppo tardi si rese conto che le nuvole non si limitavano a ruotare attorno a quel punto, ma venivano anche aspirate al suo interno. Agiva una forza in quella area del cielo cui presto scoprì di non potersi opporre e che lo tirò verso il centro della spirale, dove una breccia tra le nuvole lo attendeva per inghiottirlo. Per la prima volta nella sua vita millenaria Afalor conobbe la paura.
Non fece in tempo neanche a capire cosa stava succedendo che già era scomparso nel profondo della breccia, tirato via dai luoghi che tanto aveva familiari e che tanto amava, trascinato da una fragorosa corrente d’aria nel buio di un cunicolo scavato dentro alle nuvole. Tentò di tornare indietro, ma ogni sforzo fu inutile. La corrente lo sbatteva senza riguardi come una piuma sotto la furia di un tifone. Afalor chiuse gli occhi e cercò di pensare che stesse solo vivendo una nuova esperienza da aggiungere alle innumerevoli da cui era già passato, per quanto terribile essa fosse. Si sforzò di immaginarla come un nuovo gioco che avrebbe trovato perfino divertente una volta terminato. E magari avrebbe fatto anche un altro giro, come fanno i bambini del nostro mondo con le giostre più folli.
Poi la violenza della corrente cessò ed Afalor ebbe coscienza di precipitare da una grande altitudine. Gli occhi aprendosi incontrarono l’oscurità della notte. Era in caduta libera sulle acque irrequiete del mare. Riprese all’istante il controllo del volo e frenò in un lento e guidato planare.
Era passato dal suo mondo al nostro. – Scusa – lo interruppi – puoi volare? E con che cosa? – era dall’inizio che volevo chiederglielo.
L’Angelo mi guardò come se la mia fosse la domanda più stupida che gli avessero mai fatto. Indicò la coperta che aveva addosso. – Con queste, naturalmente.
Non compresi dapprima, poi notai che la coperta ondeggiava lievemente, si muoveva come se fosse una cosa viva. Provai l’impulso di scappare via. – Hai le ali! – urlai con orrore.
Accennai a buttarmi di lato in una fuga disordinata, tanto raccapricciante fu la scoperta. Invece, non so come, riuscii a superare anche quest’altra prova e mi ricomposi al mio posto. – Davvero allora hai tentato di arrivare alle stelle, non si trattava di una cosa detta così, tanto per dire!
Afalor mi guardava e non capiva il mio smarrimento. Egli non apparteneva al mondo delle bugie. Non ne conosceva il senso e quindi non ne poteva inventare. E poi che bisogno aveva di raccontarne, proprio lui che era più incredibile della più esagerata delle bugie?
Riprese la sua storia. Io lo ascoltavo, ma incollai gli occhi sulle ali e non li staccai più, pieni di stupore e anche di un pizzico d’invidia.
Il luogo nel quale era andato a finire era ignoto all’Angelo. Non c’era nulla di simile al mare nel mondo da cui proveniva.
Vagò sulla buia distesa d’acqua senza un punto di riferimento, vi si tuffò dentro come un uccello e l’attimo seguente fu di nuovo su tremante dal freddo. Scoprì che l’acqua era salata: bevve e tossì.
Il cielo chiuso alla luna e alle stelle non mandava riflessi. Era notte totale e Afalor manteneva un volo cieco al di sopra delle onde che si rompevano disordinatamente una contro un’altra. Si sentì smarrito. Mai gli era successo come in quella circostanza, e dentro al suo petto un lume di tristezza accennò ad accendersi. Ma un segnale di luce lampeggiò lontano, sulla superficie nera del mare, prima ancora che nel suo petto, e gli fece sperare di aver trovato una via d’uscita.
Con pochi colpi d’ali andò più vicino per scoprire di cosa si trattava. Erano le illuminazioni di una nave.
Non visto ci volteggiò attorno, al riparo delle tenebre, e osservò. Ci volle poco anche a lui che veniva da un’altra realtà per capire che qualcosa non andava bene.

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