Opere di

Rinaldo Bellingeri


Il cono del pesce (Un’utile guida per l’orsetto a pile)
Casa Editrice: Albatros – Il Filo – Collana Confini


Un Romanzo che nasce dalla necessità profonda di “interrogare il silenzio”. Il linguaggio come espressione diretta ed immediata del moto dell’anima, per rendere l’attimo irripetibile della coscienza.

“La notte è buia. I miei occhi si sono riaperti. Quante volte dall’inizio del mondo. Mi sono ricomposto, forse sono ancora una figura da giocare alla prossima mano, Pepe sarà contento, ecco guarda riesco a strisciare infin che al varco mi stramiglio, ficco il guardo in questo maledetto deserto, non riesco più a distinguere un sasso dall’astro morente”.

La narrazione è “in prima persona”. I protagonisti hanno della realtà visioni parziali, ciascuno vive nel proprio “cono del pesce”, e nell’alternanza serrata di brevi capitoli si forma la storia; difficile fissare l’identità dei personaggi, difficile svelare il mistero del quadro sostituito, il mistero della stele d’Africa, il mistero della scomparsa del pittore.

Emanuele aveva conosciuto il pittore Gianni ad una mostra, fra gente lontana anni luce dal suo mondo:

“Gianni era là, piantato come una roccia tra gli scrosci assurdi di colore, tra mostri di cartapesta e stralci di immagini psichedeliche ripetute all’infinito, luci e neon colorati lampeggianti, sì no, luce ombra, aperto chiuso, rombo cerchio rombo cerchio. L’automatismo della nostra civiltà, Dio com’è ben rappresentato, cara siamo ben oltre il concetto di civiltà industriale, vedi come il linguaggio è vuoto di contenuti, il messaggio sta nel simbolo che quindi non è più simbolo se non di se stesso, oibò come è vero, è proprio così, guarda caro quello non è il notaio Aldegrassi, l’amico dei Cicci Palla Micio Micio Bau Bau, ma no ti sbagli lui si era trasferito in Brasile, ti ricordi che era fuggito anni fa con una mulatta niente male, e a quest’ora puoi scommetterci se ne starà beato nella sua fazenda a fumar sigari sull’amaca, già hai ragione e pensare che era tanto carina la sua signora, ti ricordi ci invitavano sempre, ma tu non ci volevi mai andare, non è vero, siamo andati qualche volta, due volte solamente, e pensare che c’erano tante persone importanti, politici, c’era anche l’assessore Bonfanti, e il presidente della AUAUA, pezzi grossi, muovono il potere loro, e tu no, stiamo a casa che c’è la partita, così non farai mai carriera, perché scusa non va bene quello che faccio, non ti sembra che stiamo bene, adesso senti se non ti piace come vivi puoi anche dirlo, tanto lo so cosa vi dite con la tua amica Giugiu Parlichiaro tutte le sere, che ci vuole un mutuo solo per la bolletta del telefono, eh già certo ora non sono nemmeno più libera di fare una telefonata, oh poverina non è libera lei, trecento euro di bolletta mi tocca pagare, ah sicché mi controlli, pensare che non esco mai e tu mi conti le due lire che spendo per parlare con qualcuno che tu te ne stai sempre zitto a guardare la tivvù, ma cosa vuoi che ti controlli, le bollette arrivano a casa tesoro, e son io che le pago mica l’assessore Bonfanti.”

Emanuele vive in maniera ora dolorosa, ora ironica, l’impossibilità di comunicare con l’”altro”. Chiara è per Emanuele la possibilità di amore, e di vita.

“Chiara ha occhi castani colmi di giornate cristalline lungo il fiume, e di sogni volteggianti come gabbiani che dal ponte vecchio e dai castelli turriti planano quieti fino alle mura della città; le porte d’accesso sono chiuse, i sogni caduti, le ali fracassate, dentro le mura tutto è cambiato, la vita è andata avanti e per le strade sciamano giovani ubriachi d’illusione, nuovi palazzi sono sorti, e chiese dove veri fedeli innalzano preghiere in lingue sconosciute. Dio non potrà più ascoltarti, mai più, il tuo sogno di gioventù è morto per sempre.”

Nel frattempo Emanuele si perde nei suoi giorni, si perde lungo i sentieri tracciati dalle pagine del misterioso diario di Gianni, si perde nel talamo della Signora, e nel caldo abbraccio di Bianca. Egli vive la solitudine profonda davanti all’esistenza, e davanti all’allontanarsi di Chiara.

“Non sono io ad avere rinunciato a lei, è questa porca natura che ci muove come burattini, e ci lascia soli in pasto a mangiafuoco. Non potevo fare nulla davanti alla fata morgana che si portava Chiara lontano da me”

“La memoria lavora in me come il canto delle sirene, e ogni volta il dissolversi della nebbia mi sorprende, cane bagnato, abbandonato, vagabondo nei vicoli bui e sull’asfalto lucido ai radi fanali, eccomi a sgrollare su di lei schizzi di patetica nostalgia. Lei mi vuole bene ancora un po’, ma questo non vuol dire, e del resto vedo già in lei il fastidio del mio accorgermene, giochi di specchi, no caro mio queste son lacrime. Sento le sue parole, vedo le sue labbra, il suo volto pacato, nessun’altra si muove come lei, di nessun’altra posso respirare quell’essere femmina, testa e mani. Il suo cuore non mi appartiene, non più, per quanti salti mortali possa fare, piroette e contorsioni, il nano dalle sette braccia, il ventriloquo mangiafuoco, l’uomo sulla luna, lo scoppiettare rutilante del fuoco d’artificio, la scia di un razzo diritto nel costato, niente, niente basta a bilanciare l’altro piatto della bilancia, quel fottutissimo marchingegno che mi chiede sempre il conto, ma che porchissimo schifoso deve essere starato, perché sono sempre a debito; mi tocca cercare l’oro di Porsenna negli anfratti della stiva, raschiare inutilmente con le unghie tra le assi logore, respirare il fetore marcio degli escrementi, grattare il velo salmastro dall’anima nodosa della chiglia, l’eredità, l’unica, delle tempeste terribili che dovevano sconvolgere le profondità degli abissi, e portare alla luce chissà quali misteri; non è poi un gran merito l’essere sopravvissuti, ciò che rimane nel pugno, stretto in un moto riflesso, non è la corda dell’albero maestro, ma i rimasugli algosi imputriditi di viaggi immaginari, reali sì da avvolgere la vita. E finalmente la vita appare per quello che è, un susseguirsi ininterrotto di giorni nella calma piatta e nebbiosa del mare del nord; di tanto in tanto ti sembra di udire la sirena d’un’altra nave, arriva forse dalla profondità opaca oltre cortina, fors’anche t’illudi dell’oro vichingo, e solo quand’è ormai troppo tardi t’accorgi che la sirena era solamente l’eco della tua memoria. Non c’è verso, non puoi spostare d’un grado l’ago della bilancia. Chi la regga, poi, questa fottuta bilancia, io non l’ho mai capito, e son conoscenze che contano, queste qua, altrochenò.”

Emanuele vive con nostalgia struggente l’amore che poteva essere:

“«Tesoro» dio che voglia ho di abbracciarla, vorrei scaldarla dentro, ho la sensazione che la mia Chiara, la mia cerbiatta che apriva le pupille dilatate agli orizzonti più coraggiosi della tenerezza, la mia Chiara calda nel suo cardigan marrone che mi sorrideva con la dolcezza che era il ritmo stesso del suo cuore, ho la sensazione netta che la mia Chiara non ci sia più. L’hanno distrutta, rasa al suolo, trasformata in un mucchietto di cenere, silenzio e gelo, ecco ora io mi avvicino ma non è rimasta una cellula in lei che possa accogliere me, o nessun altro, ha fatto un buon lavoro quell’uomo non c’è cheddire, non è rimasto in piedi un fiore del bel giardino. Dio cosa pagherei perché il suo cuore battesse ancora, perché sentisse l’alito di vento e odorasse la viola che al primo calore di marzo già buca la coltre indurita sulla riva. Come vorrei tornare ad allora. Non avresti vissuto tutto questo dolore, sessolo t’avessi amato… ma io non ti ho amato, non ho amato alcuna donna se non lei, la mamma del mio bambino, colei sul cui grembo avrei versato tutte le lacrime della mia pena, colei che m’avrebbe dato la vita eterna, l’unica vita possibile fatta di amore di gioia piena ogni giorno alla luce del suo volto, avessi avuto il coraggio di essere l’Emanuele.”

La nostalgia si mescola al senso di impotenza esistenziale, ed alla rabbiosa ironia che ne consegue:

“Una gran baldracca, la vita, ti circuisce, ti seduce con i ricordi di una felicità che non c’è mai stata, ti manda i profumi dei mughetti e l’ombra dei noccioli come fossero l’antro protetto della madre terra, lo zucchero filato al luna park, per mano a un padre che non c’è mai stato.”

Emanuele parla talvolta con un bimbo, il bimbo che avrebbe potuto avere, se avesse vissuto un amore che pure è in lui, nascosto in qualche anfratto del suo cuore, e della sua memoria:

“Tu sei il mio bimbo e io ti ho generato, appena nato ti ho tenuto tra le braccia, corpicino mio inerme a me ti affidavi. Adesso sso chissei?”

La narrazione in questo punto diventa quasi un filastrocca:

“Ti vedo crescere, vedo chettimuovi articolato e connesso da ciò cchettussei, guardi me, e guardi il mondo, siamo tutti schierati al bordo del tuo orizzonte. Il cono del pesce. Ti prego, aiutami a ritrovare ciò cche sono, e non ho vergogna di chiederti aiuto, cosìccome i naviganti alla stella polare. Io adesso so cosa mi chiedi. Tu mi chiedi d’essere uomo. È difficile ssai figliolo, alggiornoddoggi, essere uomo, quando la sera crolli come l’orsetto che ha scaricato la pila, e non puoi pendere come la cetra al suo albero appesa, è difficile, figliuolo, e intanto il petrolio sale, diomìo ses-sale, orsù dunque reagisci, e se vacilli fatti curare, il popolo del comprabene te lo chiede, vedi dunque c’è il carciofo in offerta, es-setisbrighi pure al discount potrai passar, e un bel pezzo di formaggio potrai comprar. Oh cheb-buono il formaggio topicida, e che emozione l’ultimo telefonino, se lo strofini infin profuma, ée-ti fa la foto quatto quatto, éet-tela compatta, éet-tela manda pdf, via modem se mi credi. Oh che bellezza se ciavessimo il divuddì integrato pci ex pidiesse tivvù video connesso. Oh guarda il pay per view mandalloggiù, macché c’è da stirare, lavare, ché ordinati bisogna andare, se essere ominilli noi vogliamo, e lo pretendiamo, mac-ci mancherebbe altro, noi l’ominillo l’abbiamo prenotato mesi orsono, e mangiare bisogna, e non a caso bensì d’alimentazione varia e controllata, pochi grassi m’accomando, e in strada salutare bisogna, tutti tutti non ne saltare alcuno, tizio e ccaio non ti scordare, a casa di sempronio si dovea andare. E non ti crucciar se di lor non ti ricordi, vasi vuoti èi son, al museo li mettiàm.”

Chiara racconta la sua visuale, il suo “cono del pesce”. Il passato, il destino del padre, si mischiano con il presente, con il suo destino. Chiara e l’Africa:

“Il papà venne a prendermi all’aeroporto di Kinshasa. Ricordo l’impressione quando scesi dall’aereo, non avevo mai respirato prima d’allora il piombo fuso, fu come una colata densa e greve dentro al mio petto, era sera e le luci giallognole dell’aeroporto mi accolsero in un universo nuovo, galassia incontaminata tra le nuvole e il cielo, stavo per uscire dal cancello quando mi esplose l’angoscia, una paura vaga che non mi ero confessata per tutto il viaggio: e se nessuno fosse venuto a prendermi? […] Poi, improvvisamente, lo vidi davanti a me, il Sinai della salvezza […] Piansi, piansi tanto, lui mi prese in braccio e io piansi sulla sua spalla, piansi di un pianto irrefrenabile, caldo, liberatorio. Non ho mai più pianto così.”

“Se morissi adesso me ne andrei con negli occhi le foreste del Kasai. La testa appoggiata alla spalla di mio padre, io non dormivo, vedevo la nebbia al primo chiarore del giorno avviluppare le cime di alberi alti come giganti, essa era il mio respiro, e sentivo il treno sferragliare e ansimare non appena iniziava una salita, il mio cuore pompava e risucchiava secondo quello stesso andare […] Salimmo sopra un trenino minuscolo che se ne stette fermo per ore, ma a me non importava per me poteva benissimo starsene lì per l’eternità che tanto il mio papà mi teneva il braccio sulle spalle, quel contatto è più vivo in me di qualsiasi altro, più vivo di quest’uomo qua accanto con cui ho appena fatto l’amore, e se chiudo gli occhi sento ancora l’odore caldo della pelle di mio padre, e il ritmo lento del suo respiro; i due miseri vagoni ripresero a sferragliare lungo un sentiero nella giungla, finché ecco all’improvviso il tramonto sul Tanganica esplodermi in faccia e nel petto, l’hiroshima della mia memoria.”

“[…] uscivamo io e mio padre che il villaggio sulle rive del lago era ancora immerso nel buio della notte africana, la notte che avevo sentito palpitare mentre me ne stavo rannicchiata a uovo nel mio giaciglio, non potevo dormire nell’attesa che lui venisse a svegliarmi, tutto il mio corpo era teso in ascolto delle strane creature della notte, […] finalmente raggiungevamo la canoa, quando il primo chiarore dell’alba, violando la profondità del cielo, creava un mondo intermedio, non più quello pauroso della notte, e non ancora il mondo traslucido della luce abbacinante totale del sole africano, ma un mondo di ombre, strane inconsistenti mutabili forme, interi continenti e palazzi e fontane che per un attimo uscivano dall’oscurità, prima di svanire nelle solite capanne di paglia e fango; lanciavamo la canoa sulle acque immobili, affondavamo appena la pagaia con la deferenza che si deve al corpo sacro dell’universo intero, eppure il gorgoglio sordo dei mulinelli, echeggiando fin alle cime degli alberi dietro di noi sulla riva, bastava a rompere il silenzio ovattato del sacco amniotico, e i nostri movimenti erano assoluti ineluttabili come il destino, come il giorno che stava per nascere; la nebbia, denso respiro dell’acqua, svaniva poco a poco, e portava via con sé il mondo di mezzo, in cui per pochi infiniti momenti mi ero perduta, e la luce cruenta dell’alba colorava inesorabile il cielo d’oriente, disegnando i contorni neri ondulati dell’altra sponda, la sponda orientale, un mondo ignoto; i pescatori traevano già le reti gonfie delle creature guizzanti del lago, e tornavano a riva ritrovandosi poche ceste di pesce puzzolente, che sarebbe servito sìennò a nutrire le mogli dai seni cadenti, e le orde di bimbi occhio panciuti in trepida silente attesa; lo sguardo di mio padre correva intanto sulle acque come l’ala di un angelo, nutrendosi di tutte le cose animate e inanimate, per porgermele infine nel suo modo unico e familiare; abbracciandomi, consegnava a me inconsapevole il sogno eterno di libertà. Io non avevo che appollaiarmi sulle sue ali.”

Niente e nessuno è come sembra, la verità sfugge, ciascuno propone a Emanuele una propria verità. Sono tanti i misteri. Fra questi, quello di Monsignore:

“Monsignore giace in fondo all’antro, nel budello dell’ipotalamo. Dalla grande vetrata, l’imene che preserva incorrotto questo spazio etereo, entrano le luci della città; le nuvole nere e le ombre della notte lasciano aperto uno squarcio di luce al di là dei palazzi e al di là del cielo, uno di quei cieli tersi del dopo temporale che ti sembrano annullate le distanze tra il pensiero e le stelle. L’unico punto luce nella stanza, una piccola lampada da tavolo posta sopra il piano proiettivo della grande scrivania in vetro resina, aggetta lunghe ombre tra cui s’annidano monti e valli e interi continenti alla deriva nella notte dei tempi. Il volto di lui emerge dalla cucina fumosa dell’albero degli zoccoli, le patate cuociono nel pentolone di rame, viene dal fuoco del camino la luce che serpeggia tra le anime perse. Mi avvicino, ma… per Dio, è proprio lui, […]. E così è questo il volto di Monsignore. È Uno e Indiviso Colui al quale tutti tendono.”

La ricerca è nel linguaggio stesso, le parole devono tradurre emozioni dentro ad uno sguardo, le immagini si rincorrono per effetto del sentimento, a volte sfavillante, a volte drammatico, a volte pieno di nostalgia, d’essere uomo, uomo accanto ad altre creature; il susseguirsi d’immagini diventa la descrizione stessa del moto nell’anima, come nell’incontro con Alice:

“Pino porta sempre con sé Alice come fosse il lato bianco della luna, la sua luna. Alice, dov’è tua madre? Chi ti ha partorito? Alice ha sempre lo stesso sguardo colmo di una vita vissuta altrove. Sembra che nemmeno ascolti, ha il volto raccolto e impastato di paradiso. Il cherubino sì è nascosto dietro alla nuvola gonfia di terra e cielo, il vento spazza la campagna, sull’aia navigano frammenti di vita e sacchetti di cellophane si alzano sulla cresta dell’onda, la polvere finisce negli occhi, l’aria è arancione di pulviscolo mattone padano misto sabbia del sahara, tutto vibra nell’attesa del temporale, le formiche frenetiche corrono ai crateri, i vitelli si agitano nei loro recinti, gli uccelli spariscono nei nidi guatando forse di tra i rametti pelati, finché le gonfie nere mammelle riversano sulla terra il loro liquido distruttore vivificante, e infine è pace, e la frescura densa degli umori della terra, e di tutto quanto in essa vive, satura l’aria tersa e le narici dell’uomo, e il portone viene riaperto, e lo sguardo può volare sulla campagna frustata e gonfia, inseguendo la stradina lungo il fosso diritta fino all’aldilà. Passa, intanto, la macchina del contadino, e traccia i binari neri nel cielo d’acciaio. Non ci arriverò mai al campo che sta in fondo alla stradina, nemmeno mi posso avvicinare, né tanto meno accarezzare la coltre verde brillante di rugiada che si stende fin oltre l’orizzonte.”

Emanuele s’addentra nelle pagine del diario di Gianni:

“La mano ossuta del pittore ha tolto il magnete alla bussola, l’utile guida per il nulla eterno, e ha raccolto la realtà dentro alla sua anima in frantumi, una donna un uomo la casa il cortile la campagna le voci le facce di cartapesta i ghigni delle zucche vuote, una realtà così vivida e lucente da bucare le pagine del diario come la tela, una realtà da scagliare come una bestemmia dritta in faccia all’indifferente.”
Tu vieni da me, tu mio fratello vieni, e vorresti ch’io morissi. Checcifaccio io al mondo? Bevi il mio sangue, lecca la vernice smaltata del letto di morte, bancone ipercatodico di supermercato, radiazioni al neon diffuse tra gli scaffali fin al limitare della via lattea, benefiche sui polpacci, gente intorno che prende, accumula, carrelli gonfi come il cuore, kelloggio appollaiati, bottiglie, formaggi, biscotti, tanti biscotti, e il banco dei salami, prosciutti, arrosti preincartati, polli imbustati, l’ascensore scende al parcheggio, ma non si ferma, scende scende ancora, non si ferma più, mio dio scompariamo, l’ascensore accelera, i pollastri mi si incollano, il sacco delle arance mi si avvinghia, aiuto, non respiro, giù giù dove diavolo stiamo andando, mi sembra di gridare aiuto, ho la bocca spalancata, ma non esce alcun rumore, e del resto chi mi sentirebbe, quaggiù nel profondo del nulla, e giù, giù ancora, quanti chilometri avremo già fatto, anni luce, pesiamo tonnellate e abbiamo sfondato l’imene del peritoneo, siamo sulle montagne russe dello spazio tempo e questo maledetto pollo allo spiedo su vassoio di polistirolo e involucro di polietilene non mi si vuole staccare, credo scenderà all’inferno con me, e svolazzerà nel suo uovo per uscire frate medioevale all’alba del quinto millennio, quando il sole non sorgerà più, e ci sarà nebbia sulla valle tutti i giorni che giunga o non giunga il carro delle sementi. Mio fratello mi vuole morto, e io non riesco a parlargli, questo maledetto pollo plastificato me lo impedisce, adesso è cresciuto a dismisura, e stende su di me la sua ala che sa di penne strinate e di carne bruciata. Per favore, Andrea, parlami tu, fammi sentire il tuo fiato caldo, fammi sentire che il tuo petto trasuda particelle umide come il mio, che non ti disturba lo spazio che il mio corpo occupa e piega con il suo peso, incurvando lo spazio tempo come una supernova, proprio dove pensavi di passare tu. Ciao, sono venuto a trovarti. Tutto qua quello che mi sai dire, da sempre, tu vieni a trovarmi, e non sai nemmeno cosa dici, tu vieni qua, ma non mi cerchi, tu non vieni per trovare me, no, tu sei il guappo con gli stivali che non si sporca mai le suole nel fango, ebbene eccomi qua, tu sai chi sono? Gianni, prova a scandirlo, Gian-ni. Ti do una notizia sensazionale, sai Andrea io penso, e mangio, e cago, e scopo (tua moglie). Evvabbene, dio mio, parla, abla, dimmi chemmiodi. No, tu non mi puoi odiare. A te la carne non importa, nes pà? Tu non sai chissono io, né tua moglie, né te stesso, come puoi odiare chi non esiste, esisti solo tu behind yourself, tu non ti sei mai visto allo specchio io credo oppuresì ma il tuo specchio è una di quelle lenti biconcave del luna park, eppure tu vuoi i miei quadri, e vuoi i soldi, epperfarneche poi non lo sai neppure tu.”

Chiara rimane fedele ad un’identità che ne costituisce l’essenza più intima e, per Emanuele, irraggiungibile. Passato e presente, piani che si intersecano, verità risucchiate nel cono della memoria:

“Dove può essere stato, cosa può essere successo: finché ci saranno ancora domande come queste, difficilmente il guerriero deporrà la sua lancia. Non lo proveremo mai, ellacosa mi crea una qualche perplessità, devo dire, ma ora so che il destino della figlia è il destino del padre, entrambi materiali di risulta della stessa mano nell’unico ordito. È tutto come allora: l’Africa, la bottiglia ritrovata contenente il messaggio di millenni addietro, Franco. Chiara ha svelato il volto dell’assassino di suo padre. Finalmente conosciamo la verità. E abbiamo visto in faccia il Gran Burattinaio, offorse uno dei burattinai che magari già allora, già all’epoca della scomparsa del padre sul Tanganica, muovevano i fili da dietro al sipario, e guidavano le mani della marionetta sanguinaria e senza scrupoli. Apparenza, vanità, ecco cosa ci offrono, il sembiante borghese di monsieur bernardì, e quello senza classe d’appartenenza se non l’avidità di monsieur picassò, e il culo da serva a traghettarci, tutti a bordo, madame et monsieur, chi resta a riva è un coglione, tutti a bordo, gita premio, evvi offriamo anche la colazione, tutti a bordo che aspettate, si parte, la televendita è già in onda, presto, per i primi cento fortunati cissarà anche uno spremiagrumi elettrico, una ciclètte per la pancètte, uno stimolatore peritoneale e I promessi sposi con le figure a colori, un momento devo fare due conti, senta si possono cambiare I promessi sposi con la cintura vibrante che rassoda i glutei? Maccerto signora e ancora ci pensa? Dicchessipreoccupa, mascusi pagherà quando vuole, dal duemilaevventi se crede, con settemiladucento comode rate di soli centossessantun euri al mese ecchessarà mai manco li sente ci mangia siennò du pizze e ‘na coca cola, eppoi guardi ecco un comodo finanziamento al dumilapercento, masuvvia ci basta solo la sua busta paga evvìa le diamo subito il conquibus, a ‘sto punto non ci può proprio dire di no, ecchessilavora affare se non ci si può nemmeno permettere il tv plasmaferesi per rincoglionircisi davanti, iva e figli compresi?”

“La sera non mi dicono nulla, è presto vediamo come va nella notte io sono qua non mi muovo non mi muoverò mai più, non riesco a pensare a niente nessuno non riesco a pensare a Chiara lei è il nodo che mi stringe l’anima è la lama della ghigliottina che sta calando su di me è la bomba d’hiroshima già esplosa sulla mia testa è la lastra di marmo che coprirà per sempre ogni mia speranza ogni mio pensiero ogni mio respiro ogni mio battito ogni mio istinto d’essere uomo e d’essere vivo. La mattina dopo mi dicono ch’è entrata in coma che purtroppo la situazione è senza speranza ma che bisognava tentare non c’era alternativa. Solo il cuore batte ancora, stupido muscolo ignorante ti muovi senza senso quando tutto il corpo t’abbandona, e il cervello, milioni milioni di sinapsi sempre lì come nulla fosse a creare nuove dimensioni fino all’ultimo respiro O2 – CO2, come non fosse vero che stai morendo e sei pronto al tuo destino di inutile poltiglia per i vermi, tutto ciò che era e anche il suo sorriso l’ultimo che mi porto dentro tutto svanito polvere alla polvere e così sia. Senza speranza. Sono qua fermo al suo sorriso e il tempo non passa non passano le ore non c’è niente di vivo quattorno ammé […].”

“Come in un Film.
Tutto succede come in un film forse non sono io colui che cammina sulla strada di casa entra in cucina prende il coltello della carne quello lungo due spanne lo infila nel giubbotto scende nella metro incrocia migliaia milioni di persone ragni ignoranti ognuno nella sua tela e poi nella notte la pioggia la luce dei lampioni le automobili macchine infernali il selciato lucido i palazzi dirupi infiniti forse non sono io che lo attende nell’ombra dell’androne minuti ore infiniti senza confini freddi come la morte che ci attende forse non sono io che lo affianca quando lo vede comparire dalle scale dice […] il suo nome lo vede alzare il volto un attimo prima che gli infilo il coltello nell’addome e allora sì sento il coltello il suo corpo piegarsi il sangue caldo sulla mia mano il suo volto mutarsi tutto ciò che un secondo prima era vivo ora s’è coperto del punto interrogativo dell’esistenza quando cala il velo freddo della morte. Poi ritorno dentro al film ed ecco mi vedo per le strade che potrei essere a terra o nello spazio o per le vie della città immaginaria, ma quella scritta […] è vera. Qua doveva finire il mio viaggio, questo l’approdo che ho tanto cercato.”

Nella seconda parte si scoprono i volti, negli occhi visionari di Gianni, e negli occhi semplici da contadina di Bianca. Il lettore, attratto nel vortice della storia, scoprirà, poco a poco, le verità nascoste, il destino del pittore.

Gianni:

“Lei si china e mi abbraccia da dietro, solo adesso realizzo che da un po’ ne sentivo la fragranza. Prima di venire da me io lo so lei si fa sempre un bagno caldo […] «Basta lavoro, dai, facciamo una pausa». «Aspetta, finisco il tronco». «Sembra un uomo coperto di letame». Il paragone non m’offende, strano, niente di quello che mi dice Bianca m’offende. E del resto è vero, è così, ho iniziato adesso a tirare fuori qualcosa dalla massa, e non so nemmeno dove andrò a parare. Per ora vedo una torsione, la cosa migliore è assecondare la materia.”

La salvezza di Gianni era venuta da Bianca. Emanuele lo aveva scoperto nel diario:

“[…] appena prova a prendere il pennello, l’anima si mostra liscia come un pezzo di lamiera all’acqua piovana, e dalla camera fotografica sgangherata della coscienza non escono che lampi snaturati e sconnessi, quello che ritrae non è più il suo mondo, ma la riflessione sconvolta della sua disperazione. Quella stessa sera egli si avvia nel tramonto lungo la stradina, nell’ora in cui i moscerini zig zagano impazziti, e l’aria assorbe il riverbero del calore che la terra finalmente può rilasciare. Sente l’angoscia crescere e uscirgli dalle orecchie, dagli occhi, non ci sono vie di fuga, e la pressione spinge dall’interno su tutta la volta cranica, sì che la cupola delle stelle fisse cede financo nell’ossatura, nei costoloni portanti delle pietre vive. Così pianta in terra il suo fardello di pittore, e prende a correre all’impazzata. Non ricorda nulla di più di quelle ore, fino all’apparizione della contadina. Lei ha larghi i fianchi, e tondo a mappamondo il sedere. Le cosce sono tornite, saldi i polpacci, i piedi ben piantati infilati in un paio di ciabatte.[…] Lui la guarda, e le si butta ai piedi, chiedendo aiuto. Lei non dice una parola, lo solleva con una forza inaudita, la forza di mille braccia d’acciaio che sollevano le montagne. Così i giganti reggevano la terra, e anche la volta del cielo. È ben difficile andare a zonzo per la galassia della follia, a meno di non trovare due braccia di contadina che ti sollevino. Da quel giorno Gianni smette di dipingere, e comincia a fare anche lui il contadino. E io ne sono certo, oramai: è Bianca la contadina ch’ha la forza di Atlante, e tette e culo di Marylin Monroe.”

Ma Gianni non ha trovato la pace.

“Bianca ce l’ho ficcata io nel guazzabuglio delle mie ombre, nel retrobottega buio della memoria tra cataste di ricordi polverosi e scarabocchi disegnati sulla mia coscienza. Ce l’ho mandata io alla ca’ del mezzo, non potevo farne a meno. Forse volevo solo presidiare i miei territori, forse non me ne sono staccato del tutto, non nella memoria, come un salmone impazzito già infiocinato penso come sarà dolce il giorno in cui risalirò ancora la corrente verso casa, la casa del sogno di bambino, la casa ancestrale della felicità mai provata ma la cui nostalgia mi stringe tanto il cuore da mandarlo in frantumi.”

C’è un quadro in particolare che sta cuore a Gianni, un autoritratto che nasconde il terribile segreto. Il quadro sparisce. Iniziano i capitoli della follia. Gianni vive la sua follia in un mondo visionario, un deserto dell’anima popolato da strani personaggi. In questi capitoli il linguaggio si fa fortemente evocativo.

“«Non c’era sentiero, così abbiamo seguito il greto secco del fiume fino al suo dileguarsi nella piana bruciata. Siamo arrivati fino dove potevamo, fino al castello diroccato dei conti senesi, era disabitato, i portoni sfondati, ma le mura tutte in piedi[…] ».”

“«Tu sei sempre qua, no?».
«Sempre qua, sempre qua, non è così semplice. Per ora son qua, ma prima o poi lo devo riprendere il cammino, non c’è altra possibilità».
«E dove pensi di andare!?».
«Il nome del luogo non lo conosco, guarda, sinceramente, te lo direi. C’è un deserto da attraversare, un oceano di sabbia e ciottoli levigati, qua e là stoppie e rametti secchi tranciati, e la distesa crepata del lago salato, una crosta di salgemma solcata dal seguitare ininterrotto di profondissime rughe nere, e infine oltre i confini del mondo laggiù dove ho sognato la sfumatura azzurrognola dei monti infine forse un giorno di un’altra vita ci sarà il compimento del mio destino, io credo sia là dove devo andare, è là dove la troverò».
«Ma è la morte, scusa, un lago salato e secco, il deserto, mi sembra un sogno di morte… e chi, dimmi, chi ti aspetterebbe, sui monti?».
«Aspettare me… no, la sacra stele è là da un tempo infinito, non aspetta nessuno, ma il popolo ne ha bisogno, e io potrei servire. Solo che c’è da fare chiarezza, a Palazzo. Se solo il Consiglio si decidesse, oh allora sì sarebbe l’ora, l’Alfiere potrebbe compiere la sua missione, e il popolo ci seguirebbe».
«Il Consiglio, l’Alfiere, ovvìa ma che siamo nella storia de l’armi e de’ cavalieri, scusa ma proprio non ti capisco, eh no eh no, cosa mi vai a raccontare. Suvvia, non ci pensiamo, e mettiamoci al lavoro…».
«È scritto, è scritto che sia così, anche Pepe lo sapeva. Non c’è scampo, devo fare questo cammino. E al Palazzo qualcuno sa, ma non dice, non vuole dire. Bisogna che sia fatta chiarezza, non è possibile andare avanti così, e non c’è più molto tempo, oramai. L’uomo del carro vive talmente nel sortilegio che non vede, si strompia le messi, brucia il pagliaio con le sue stesse mani, e il fumo è denso, acre, copre il cielo e spariscono le stelle, la terra è arsa perché a nessuno ma proprio a nessuno viene in mente di bagnarla nel pianto. Solo lei lo sa».
«Ma chi scusa, chi sa, e che cosa?».
«Alice lo sa, basterebbe lasciare che il pianto bagnasse la terra».
«Tu ti confondi, Gianni, io non la capisco bene, ma credo che il tuo viaggio non avrà mai una fine. E chil’lè codesto cocchiere… nessuno piange a gratis, credam-mé, non è così che funziona, il pianto rende duri, e vendicativi. Écci sarà sempre qualcuno intorno che ti scruta, e bocche da sfamare, étti assicuro che ci vuole del manico per andare avanti, e ci vuole stomaco per ciucciarsi quel fantoccio fatto di stracci che manco riconosci, ma che continui a chiamare moglie. E l’è tutto qua essere òmini, credammé, Gianni, l’è tutto qua. So anch’io chec-ci vuole uno stomaco tappezzato di pelo per accettare l’idea, e per reggerla ogni maledetto giorno che ci tocca stare su codesta terra, ma è così, Gianni, non ti credere, è tutto qua. Guarda io non lo so cosa vai cercando, né che cosa t’abbia fulminato sulla via di Damasco, però so che se affronti la realtà l’è di molto meglio».
«Sei un ingenuo, tutti, io tu tutti proprio tutti siamo dentro al sortilegio. Il bovaro ha fatto bene il suo lavoro. Se solo si potesse spaccarlo in mille pezzi codesto specchio, allora sì ci accorgeremmo ch’era tutto un inganno, uno sporco trucco, suo e dei suoi saltimbanchi».”

Adesso tutti cercano il quadro vero. Sono disposti a tutto per riaverlo. Per Gianni, arriva la fine.

“Un’ombra scivola accanto a me, ecco la biscia s’intrufola tra uomini e cose, qua davanti all’onnipotente alza la sua testina dalla lingua biforcuta. […] «Questo è il mio cielo, io non ho altro posto, c’è solo una stanza deserta làffuori, e io sono stanco, oramai… non ricacciatemi nel deserto, che là c’è solo la morte. […] E allora guarda, guarda laggiù tra le anime dannate, vedi, lo vedi chi si stringe là nell’angolo dei morti, che per l’etternità non una goccia di speranza li bagna, lo vedi, eh, dì un po’, lo vedi? Tè ssei, te tu sei tu che t’abbranchi al mio sangue[…]». Ecco, ecco lo maggior corno dell’inutile falò che s’alza e or quinci or quindi al grande affresco s’appropinqua, e tutto il vede e il squadra, e poi ch’ha veduto, tutto gonfia il collo siccome il gallo allo starnazzo. «Come hai osato, e in che posa poi!». «[…] il pennello fè giustizia, e io nulla potei contro cotal sentenza. E sarà per sempre, da che non mi vuoi ascoltare, e non vuoi salvare l’innocente. E non capisci che lei è dig-già salva. E tu dannato per sempre». «Tu maledetto pazzo, tu la mia rovina. Anche qua mi hai ritratto, maledetto, non ti bastava quel quadro» eccolo dimenarsi tra le panche, come il palloncino quando per dispetto il pargolo cittoglie il tappo, chediolostrafulmini, macchef-fa con quel candelabro in mano. « […] Tu la pagherai!» eccolo, è verso di me ch’èl viene, vedo la sua sagoma, il suo volto è sparito, vedo l’ombra nera di tutti gli uomini sollevarsi verso di me, e sollevare il brando, dunque è qua che doveva finire il viaggio, dunque queste sono le tavole della legge… Mamma…”

Chi è l’assassino? Bianca non lo può sapere, ma per lei la storia non può finire con la scomparsa di Gianni.

“Alla fine Gianni hai ceduto hai smesso di rinchiuderti sei uscito da quella maledetta prigione, nessuno ti tormenterà più. Potresti essere in pace, che io lo so la tua mamma è già pronta a prenderti per mano, lei non ti lascerà da solo nel freddo nella paura della morte tu sei il suo bambino da sempre e a lei tu puoi guardare tendi la mano piccolino, ma c’è una cosa che ti tiene ancora qua, e non può essere che la preoccupazione per una persona cara. E non sono io quella persona. Tu forse già conosci i destini… accidenti a me vedi cosa vado a pensare, Gianni, tu non ci sei più. Ecco tutto. Morto. Io ti ho leccato, io ho leccato la tua pelle, lo sento ancora il tuo sapore amaro il tuo odore denso e umido… E adesso? Sotto terra, cibo per vermi, come è possibile, non sentirai più l’aria nel petto mai più, è così, inutile pensare diverso, è così, io lo so. Tu eri in me, tu eri la mia carne, io ero la mòlta la creta l’impasto che tu facevi girare sul perno, ecco sono nel vapore denso in cucina, sento l’abbraccio sul divano la sera, tu il tuo sorriso, tu la lacrima che scende, quando t’accorgi che forse non sei solo a questo mondo. Non posso più stringerti, nemmeno per un attimo rubarti alla morte per dirti addio… addio, amore mio.”

“Dio che caldo sembra l’estate profonda delle vacanze, ero giovane e avevo di che correre ridere e fare all’amore nell’erba, ora non sono che un sacco vuoto, non vedo non sento non parlo non rido, mangio perché devo mangiare dormo perché devo dormire, ma alla fine vorrei tanto sparire. Avessi almeno il mio bambino da crescere, lo sentirei lo vedrei correre per le stanze nell’aia… sarò matta, e forse Gianni non era così lontano da me, che alle volte mi sembra davvero di avere il mio bambino qua accanto, e allora penso che forse il suo corpicino senza vita non era che la prima pagina di un libro, il libro che qualcuno e tu stesso bimbo mio stai scrivendo, e anch’io con te, se solo riuscissi a voltare questa maledetta pagina imbrattata di sangue e allora sì incontrarti e vedermi con te lungo la stradina dei campi prenderti per mano tu nella luce tu le tue gambe magre la tua pelle chiara le calze raggomitolate sulle caviglie i calzoncini corti azzurri la maglietta bianca il tuo viso dolce di bimbo sveglio i lineamenti delicati i capelli un po’ lunghi la frangia sulla fronte, tu che mi sorridi e i tuoi occhi e la tua bocca sono dell’angelo che sta in fondo in fondo al mio cuore scappato da mio padre scappato da tutti gli uomini della mia vita. Il mio destino finito chiuso come la remola dentro alla màdena e le carrube ch’io mangiavo gettate ai porci. Basta, devo uscire […] solo mi sembra di essere uno di quei pupazzi fisarmonica che ritagliavo da piccina, nella carta, uno due quattro otto catena infinita, legati alla sedia ciondolavano per un bel po’ nella cucina dei grandi.”

Tanto terribile il segreto nascosto nel quadro scomparso, che anche Alice, bambina innocente, viene rapita. Bianca trova la forza per scendere all’inferno e risalire, riportando Alice. Bianca non conosce il perché di tanta cattiveria e di tanta sofferenza. Per lei è il momento della resa dei conti. Il ricordo dei genitori. Simmetria (anti-simmetria) con Chiara che ricorda suo padre.

“Non ti ho mai vista così, mamma… ti avessi potuto amare! Allora sì adesso potrei correrti incontro, tu mi abbracceresti e accoglieresti anche quest’anima nera, ora forse potrei anche piangere per il tuo perdono. Tu sei con lui, lui che ti tormentava ti spegneva ogni giorno, eri diventata un cencio senza vita accanto a lui, però mi sembra tu vuoi dirmi qualcosa e la tua mano su di lui forse vuole dirmi che lui è cambiato ma io come faccio a dimenticare se non riesco nemmeno a pensarci, è come un’ombra nera dentro di me, l’ombra che veniva nella mia stanzetta certe notti ma non per il bacio della buonanotte… ma lui era… era mio… lui ansimava accanto a me, la sua bimba. Smetti di tormentarti, non ti ha mai fatto niente in realtà, sì ma non riesco a dimenticare quei momenti le sue carezze sulle mie braccia, e io che stringevo sempre più patti la mia bambola di stoffa e fingevo di dormire e avrei voluto sprofondare, apriti materasso e ingoiami nel buio fuori da questa stanza fuori nel cielo nero della notte calda nell’odore intenso di gelsomino. È ancora tutto così vivido come l’avessi vissuto questa notte. Riesci mamma a capire, era il mio mondo, tu e lui i miei giorni tutto ciò che c’era di giusto e sbagliato, allora pensavo non potevo che essere io a non capire, le provavo tutte e piangevo sola nella stanza piangevo di vergogna ma il giorno dopo cercavo di essere una brava bambina mi sforzavo in ogni modo, “madonnina mia aiutami tu a essere una brava bambina, ecco vedi mi dispiace ho sbagliato ancora aiutami sono brutta ma io gli voglio bene aiutami”, non mi rendevo conto di cosa mi stavo facendo dei ferri roventi che mi stavo piantando dentro all’anima. Non riuscivo più a guardarlo in faccia abbassavo gli occhi e pregavo di sprofondare ogni volta, speravo che non mi guardasse e mi faceva troppo male se mi parlava come se niente fosse come un padre parla alla sua bambina e dice angelo mio. Cresciuta, lui non è più venuto da me, io non gli interessavo più, ma come non ti interesso più ora che non sono più la giovane luna ora che le crepe da oriente hanno ricoperto l’intera faccia nascosta ora che mi fa rabbia il mio inutile corpo di giovinetta e mi feriscono i risolini compiaciuti delle altre quando un ragazzo le guarda e invidio le compagne che si riconoscono donne agli approcci agli scherzi ai tocchi agli sguardi dei maschi, ora che so non potrò mai essere felice, mai donna come le altre. Colpa, vergogna, io ero diversa come il brutto anatroccolo nella nidiata dei paperi. Eppure desideravo che lui venisse da me, che non mi abbandonasse dopo quello che mi aveva fatto, forse volevo punirlo, volevo darglielo il mio inutile corpo il mio inutile essere sprecato bruciato prosciugato per sempre, ecco prendi il frutto del tuo amore, ma lui mi ignorava.”

Siamo all’epilogo. “Io voglio chiuderla questa porta e ho la certezza che se trovo l’immagine che ti ha sconvolto io troverò anche la verità e il MOVENTE PER CUI T’HANNO UCCISO”[…] “La voglio trovare, l’ultima l’unica tela di Gianni.”

Così Bianca, cercando la tela, trova Emanuele. Ma è solo un’ombra sul pianerottolo, per ora, la stessa ombra con cui si era aperto il Romanzo. Simmetrie.

“Piove cheddiolamanda, un reticolo fitto e gelido teso davanti alle luci gialle bianche azzurrognole delle auto, dalle vetrine mi passano via veloci manichini in abito scuro vassoi di lasagne tv color cellulari e tanti tanti aggeggi che non so, la mia ombra è assorbita dai muri neri di pioggia e dai grandi portoni di legno massiccio dei palazzi del centro, incrocio sagome cappotti neri piumini impermeabili inglesi che paion persone sotto ombrelli cappucci sciarpe baveri alzati ma è solo per un attimo che sento ancora il loro passo veloce poi mai più, tanto piacere io sono Bianca la contadina, odore di strada bagnata uno schiaffo freddo alle narici, non ce la facevo più lassotto nel budello così sono scesa due fermate prima, che mi sembrava eravamo tutti cadaveri nella luce bianca dei lampanari, […] mi mancano le forze ho paura di non farcela da sola, e qua piove piove dappertutto piove su tutto il mondo piove anche alla ca’ del mezzo e sul mio paese piove sulla campagna che è lì da sempre a prendere la pioggia come il sole e la luce della luna e la brina e le gocce di rugiada piove su me bambina e sui miei mostri di allora di oggi di sempre piove a tamburello sulla mia tomba di pietra nera, scordati il riposo eterno bambina. La pace è un lusso per me, è ora che me lo ficchi nella mia testa vuota di mucca ambulante, ma che importa io ho un potere che neanche le montagne, io posso sentire le mani di un uomo sul mio corpo, e posso sentire il calore del sole inondare la mia pelle fino a farmi rabbrividire, e penetrarmi dentro. […] Cosa sto facendo? Vado a caccia di un quadro senza avere un’idea di come prenderlo, e quand’anche ce la facessi, che magari gli spiriti dei morti han deciso di darmi una mano, che possibilità avrei di tenermelo? […] Eccomi su questo coso sferragliante che scivola giù per il viale, la luce giallastra dei lampioni mostra le forme ripetute sulle facciate dei palazzi, quadrato quadrato rettangolo quadrato quadrato rettangolo, l’occhio corre a scatti attraverso la pioggia e io corro con lui, come un saltatore d’ostacoli che non corre per medaglie che poi dove le metterebbe, forse qua su questo seno inutile stretto nelle bende da mummia ch’io sono, egli corre perché non ha altro e allora corre. Non ho avuto altro pensiero per tanti giorni senza fine, correre a prendere il suo, e ora vedo quanto è inutile questo correre che tutta questa strada me lo sta dicendo, con le sue luci appese da lato a lato che oscillano come le zucche alla sagra del paese e le vetrine bianco illuminate ben disposte di vestiti gioielli e strani aggeggi forse per fotografare o per la musica chissà, poi saracinesche abbassate e portoni chiusi, siamo sole io e questa donna su questa carrozza che salta traballa ma questa luce calda del tram ci scalda entrambe ai due poli dell’equatore, chissà se anche lei non sa bene dove va o forse lo sa troppo bene forse a casa non c’è nessuno e allora se ne va a quest’ora di sera su un tram che non la porta da nessuna parte, basta pagare il biglietto e si gira fin che si vuole fin che la corsa è finita, poi se ne prende un’altra e si torna da dove si è partiti e si guarda dal finestrino rigato di poggia e tra i riflessi della città che passa laf-fuori. Scendo alla prossima. Ecco, arrivata. La donna rimane a bordo, sola con il suo destino.

Dev’essere quella la via che cerco, dietro l’angolo dove la strada finisce nel buio del parco. […] Ma ecco, è questo, numero quarantotto. Ci sono i nomi… ecco, sì, è lui, Emanuele Guerra. E adesso? Ma via cosa cerco dietro a questo portone io non lo so, e tanto già lo so non la troverò questa sera una risposta. […] devo trovare un altro modo ma devo agire adesso, quando l’avrà consegnato il quadro sarà perduto per sempre, figurarsi con i sistemi di allarme che ci avrà Monsignore, che poi chissà come mai con tutti i soldi checcià non se lo è fatto portare a casa con un furgone di quelli blindati portavalori. Avrebbero potuto obbligare anche questo Emanuele, a meno che… diossanto è così, quelli vogliono che succeda qualcosa, così avranno il capro espiatorio di tutta questa sporca storia, l’uomo la donna la pulce d’acqua cui dare la colpa di tutto. E il quadro tornerà al dottore. L’è tutta una manovra del Picasso. […] Quella porta… eh sì, l’ho trovata, è questa. Dietro questa porta ci deve essere il mio destino, una volta per tutte. E adesso? […] Ecco la porta si apre sui miei pensieri, si squarcia il varco ed esce una lama di luce, una sagoma nera in controluce ecco avanza… via, devo andare via.”


Epilogo

L’epilogo non può che essere la prima parte del Romanzo, ma negli occhi di Bianca. Simmetrie.

“È passato tanto tempo da allora. Ora lo so, ora ho capito. Non era il quadro che volevo, volevo far pace con Gianni volevo ritrovarlo in queste stanze nelle sue dove era cresciuto era diventato uomo e si era perduto dietro a una donna. Ed è strano, ho fatto pace con lui solo ora che amo un altro che lo insegue, uno che viene e va ma non m’importa io gli appartengo, il mio corpo il mio cuore sono suoi ne faccia ciò che crede, non m’importa nulla se va per altre strade se conosce altre donne io sono sua e tutto il mio tempo è una lunga attesa per quando lui verrà, e se non verrà bè non cambia il mio tempo gli appartiene.

Emanuele quando mi è apparso alla porta la prima volta ho capito che il cerchio si era chiuso, finalmente, ho capito che non potevo fare più niente, che però potevo amare, e allora anche i miei ricordi di allora si sono vestiti della veste morbida della tenerezza, della pena che provo per chi ha sofferto, per Gianni, per Alice, per Pino, e anche per tutti loro che non hanno mai provato ad amare, e per me, un poco, anche se ci sono ancora mattine in cui mi pare di essere in prestito dappertutto, e allora mi piace stare con i miei animali, loro sì hanno bisogno di me delle mie mani che impastano il pappone che muovono il fieno e che mungono le mammelle gonfie di latte. Aspettando Emanuele. Lui è diverso, lui adesso sta sbattendo la testa a destra e a manca ma non ha mai perso sé stesso se ne accorgerà da solo non posso fare niente per lui. Solo accoglierlo, lui è il mio uomo, quello che lui è io lo so non è in vendita e non cambierà ed è tanto grande e allora tocca a me accarezzarlo quando lui si schiaffeggia e si sberleffa, perché è proprio l’Emanuele piccino che viene a rannicchiarsi da me quando ha freddo paura fame che in fondo io amo e che mi ha salvata.

Era tutto deciso fin dall’inizio ora lo so. Il quadro, l’unico mai esistito, protetto per sempre dalla copia allo specchio, una vita sopra l’altra, un dolore sopra l’altro, ma sempre lo stesso volto, e la stessa mano a ritrarlo. Finirà appeso alle spalle di quel Monsignore, in una bella cornice di legno antico, e così sia.”


Il Club degli Autori - Concorsi Letterari - Montedit - Consigli Editoriali - Il Club dei Poeti
Chi siamo
La Rivista
La voce degli Autori
Tutti i nostri Autori
Per iscriversi
ClubNews
Il notiziario gratuito
Ultimi inserimenti
Homepage
Avvenimenti
Novità & Dintorni
i Concorsi
Letterari
Le Antologie
dei Concorsi
Tutti i nostri
Autori
La tua
Homepage
su Club.it