Mio fratello Giuliano

di

Rino Gobbi


Rino Gobbi - Mio fratello Giuliano
Collana "Le Schegge d'Oro" - I libri dei Premi - Narrativa
14x20,5 - pp. 134 - Euro 11,40
ISBN 978-88-6587-2710

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In copertina Campagna Veneta © VeSilvio – Fotolia.com


Pubblicazione realizzata con il contributo de IL CLUB degli autori in quanto l’opera è finalista nel concorso letterario Jacques Prévert 2012


Ringraziamenti

Un sincero ringraziamento a Stefano Salvagnin per l’oculata revisione del testo.


Prefazione

Un albero, una strada, una Chiesa.
Il quadrato del cielo confinato tra i palazzi, il volto del nostro vicino, il profumo dell’erba tagliata o l’odore della strada dopo la pioggia.
Sensazioni, ricordi, emozioni che custodiamo nella nostra memoria. Sono le coordinate della nostra esistenza, l’immagine riflessa che ci ritorna a conferma che occupiamo un posto, qui e ora, nella mappa del mondo.
I volti delle persone a noi care, i legami familiari, la rassicurante conferma di esistere.
E se tutto questo venisse messo in discussione? Se, al ritorno da un viaggio, le coordinate non ci riportassero più al nostro sicuro porto? Se strade, volti e voci non fossero, al nostro ritorno, quelli lasciati? O, peggio, se alla porta di casa si presentasse un nome conosciuto ma la faccia di uno straniero?
Cosa ci può angosciare di più che l’improvviso mutare della nostra situazione familiare, il cambio repentino di uno scenario considerato immutabile e sicuro?
La vita, oltre la metà dell’esistenza, scorre tranquilla in paese, finché un evento lieto ed atteso instilla la peggiore delle condanne: il dubbio.
In una provincia soffocata dal cemento, che ha perso se stessa ed il senso del proprio essere, si muovono, in un crescendo di tensioni laceranti, i protagonisti del nostro libro.
L’autore cesella personalità, stati d’animo e volti che potrebbero essere quelli dei nostri vicini, delle persone della casa accanto, tratteggiando paesi e luoghi che potrebbero essere i nostri; e tanto più avvertiamo questa assonanza con il nostro ambiente, tanto più l’angoscia e la partecipazione a questa vicenda, diventano nostre.
Un passato racchiuso da una pietra tombale, chiusa la quale si è trovata la forza di esistere ed andare avanti dolorosamente, si para innanzi ai protagonisti della nostra storia che dovranno scegliere se affrontare i nuovi fantasmi o far finta di non vedere, di non capire preferendo la convivenza con il dubbio all’incertezza di nuovi scenari delineati dalla verità
Rino Gobbi, magistralmente, tratteggia una vicenda che esce dalle pagine del libro e coinvolge il lettore grazie alla capacità di ricreare l’ambiente comune nel quale tutti noi siamo cresciuti.
Grandioso spaccato sull’amore fraterno, gratuito, pur nelle incertezze delle intenzioni, amore che rimprovera e riprende ma sa accollarsi responsabilità e rischi in nome dei legami familiari messi sopra ad ogni altra considerazione.
La tempesta di emozioni contrastanti che coinvolgerà i nostri protagonisti, li porterà a rimettersi in discussione, a vagliare la bontà dei propri sentimenti, a capire dove inizia la convenzione dei rapporti sociali e l’autenticità dei legami familiari.
Scavati psicologicamente, delineati nei pensieri e nelle azioni i personaggi rimangono impressi per la loro umanità, per la totale mancanza di artifizi, per la genuinità dei loro moti d’animo, a volte apparentemente incongruenti proprio perché estremamente umani.
Spesso la razionalità, così freddamente presente nella letteratura odierna dove la trama di un romanzo è mossa unicamente dal puro calcolo, cede il posto all’emozione pura, caratteristica imprescindibile per la veridicità di un racconto.
Il romanzo non è ambientato in luoghi esotici, in paesi lontani, i nomi dei protagonisti non ci sono estranei, i personaggi sono l’archetipo del mondo a noi noto: quella campagna padovana che d’inverno si ammanta di nebbia, chiazzata di miriadi di zone industriali che arrivano a stravolgere il paesaggio, a cancellare i riferimenti della nostra vita. Quella parte di mondo che fino a pochi anni fa era l’unico mondo a noi conosciuto.

Stefano Salvagnin


Mio fratello Giuliano


I

Alla stazione di Padova il treno si avvicinava lentamente. Dentro c’era mio fratello che tornava dall’Australia. Con lui stava arrivando il periodo più fervido della mia giovinezza. Separati da tanto tempo, ora il destino ci voleva unire, in che modo, quando i legami erano stati corrosi dal tempo e si salvavano quelli di sangue, ma forse non quelli dell’affetto?
La locomotiva ora si avvicinava di tutta fretta, pareva fissasse solo me fra tutta la gente che c’era, pronta ad aggredirmi; d’istinto mi spostai. Il rumore si fece improvvisamente più intenso, paurosamente insopportabile. Poi cessò, lasciando il posto agli sbuffi che invitavano i passeggeri a scendere.
Quando lo vidi, neanche lo riconobbi, e non soltanto perché era solo, ma perché mi aspettavo lo stesso fratello pacioccone di quand’era partito, o almeno un po’ dimagrito, ma non così tanto! Fu lui a dirigersi verso di me trascinando la valigia con passo niente affatto affrettato, come se dovesse compiere un’azione noiosa. Guardai oltre, per vedere scendere il resto della famiglia, ma lui era già vicino e mi strinse con un certo riguardo. Era mio fratello Giuliano, che non vedevo da diciassette anni. Temetti che il suo abbraccio fosse sforzato, che non mi riconoscesse più, come per poco non lo riconoscevo io, e che quell’effusione fosse stato un atto dovuto per riallacciare i rapporti ed essere ospitato nella mia casa. Ma questo, in fin dei conti, non era quello che io immaginavo che lui pensasse di me: era la mia titubanza nel vedermi davanti un individuo che non assomigliava per niente a mio fratello. Solo alcuni tratti me lo facevano ricordare, e gli occhi verdi che, quelli sì, erano rimasti ancora gli stessi, furono loro a infondermi un che di sentimento e accettare il suo abbraccio.
“Ma… la tua compagna? E Marc?” esclamai.
“Te l’ho scritto che venivo da solo.”
“Tu non hai scritto niente, dove sono?”
“Sì che te l’ho scritto; comunque sono andati dal padre di lei che sta molto male.”
“Molto male?” scandii.
“Sì, non ti ho informato per non allarmarti.”
“E tu sei tornato lo stesso?”
“Come vedi…”
Rimasi amareggiato, era come se si fosse sbarazzato della famiglia che noi non vedevamo l’ora di incontrare. La cassetta video che ci aveva mandato l’anno prima riprendeva la sua compagna, bruna, magra, esuberante, che giocava con il figlio di undici anni afferrandolo e strattonandolo a terra in una lotta mascolina. Poi fissava la cinepresa facendo l’occhiolino, e ancora si gettava sul figlioletto. Classica scena amatoriale più volte vista alla tv; ma la ragazza che gesticolava così spavaldamente mi metteva a disagio: era un’australiana, una straniera, adombrata da un’espressione malinconica sotto la sua vivacità, che incuteva una sensazione morbosa.
Giuliano aveva scritto che avrebbe portato la famiglia in Italia dopo tre anni dall’arrivo della cassetta, invece dovette passare solamente un anno. Glielo ricordai mentre ci dirigevamo verso l’auto. E gli ricordai pure la sua incomprensibile avversione ai moderni mezzi di comunicazione, come internet o il cellulare. Era un tipo incomprensibile mio fratello, racchiuso in un mondo tutto suo, che faticava a rapportarsi con quello esterno, con la moderna tecnologia. E le rare lettere che scriveva erano per lui l’unico modo per farsi sentire, forse con rammarico, perché lo scarno rapporto tra noi due poteva essere causato dal suo volere stare in pace con se stesso, staccato da tutti, anche da suo fratello.
“Ma non capisci?” continuò, “ho approfittato del fatto che la mia compagna è andata dai suoi e sono venuto in Italia… Mi sembri deluso.”
Certo che ero deluso: il suo modo di fare staccato, la bugia sul fatto che era solo, mi avevano tolto la soddisfazione di rivedere mio fratello con entusiasmo.
Non volli insistere, anche se il fatto che il suocero forse stesse morendo e lui non fosse andato con la compagna a trovarlo mi lasciava perplesso. Sicché tutte le domande sull’ambiente australiano, sul suo lavoro e la vita di quel posto mi rimasero in gola.
Mentre ci dirigevamo alla macchina ad un tratto disse: “Come sta lo zio Pasquale?”
“Bene” risposi, e ricordandogli che lo zio era costretto su una sedia a rotelle, soggiunsi: “Si è completamente adattato alla sua condizione; sai com’è divertente? È quello che tiene su il morale a tutti.”
“Povero zio!” esclamò.
Per la strada che portava a Pozzonovo, il paesino dov’eravamo andati a vivere diciannove anni prima, fu una scena muta. Ancora non osavo chiedergli come andava laggiù. D’altronde lui s’era appiccicato al vetro e non smetteva di guardare fuori, come volesse essere lasciato in pace: diciassette anni di lontananza avranno avuto sicuramente il loro peso sui nostri rapporti. Ma non poteva dipendere dal tempo trascorso, forse dal motivo della sua partenza; però neanche quello poteva essere, qualcosa indubbiamente era successo nella sua vita. Dalle poche lettere che scrisse mi aspettavo sentire di lui che galoppava nelle praterie così decantate, o nel deserto, o a contatto con i canguri. Invece niente! Scriveva del suo lavoro, che svolgeva diligentemente, della simpatia che s’era guadagnato e della carriera che lo aveva portato a diventare capo nel suo reparto di tornitori. Tutto come se si fosse volontariamente segregato in un ambiente di clausura.
“Sta veramente male tuo suocero?” gli domandai per rompere il silenzio.
“Certo che sta male!”
Voleva aggiungere qualcosa, ma non sapeva cosa, e si rattristò.
Intendevo se stesse “tanto male”, ma vedendolo così abbattuto lasciai perdere. “E la tua compagna?…” Non ricordavo che si chiamava Edith, “E Marc, stanno bene?”
“Sì, sì, loro stanno bene. Marc è cresciuto, vedessi quanto è alto! Ma tu, tu sei già andato in pensione?” Era forse un cambiamento di rotta effettuato per modestia in quanto lasciava a me la facoltà di parlare? Una cosa era certa: lui non voleva confidarsi, lasciandomi intuire fosse stato per la stanchezza del viaggio o per la delicata situazione del suocero. O per la sorte di nostro padre: sarebbe stato patetico se si fosse ancora intestardito su quest’ultima ipotesi. Ma un individuo lontano dagli affetti familiari può seguire strade che portano più in alto di chi si è lasciato, ma anche soccombere sotto le difficoltà della vita intrapresa. Non serviva essere psicologi per avvertire in mio fratello Giuliano qualcosa che lo soverchiava. Accettai la sua scelta e volentieri gli raccontai che ero già in pensione, che commosso avevo lasciato l’insegnamento delle Lettere alla Scuola Media di Monselice, anche se ero laureato in psicologia; ma come si sa, è difficile lavorare nel campo per cui s’è studiato. Non parlai della festa che i ragazzi mi avevano riservato, sarebbe stato uno sfoggio della mia vanità; ma quando si vedono i giovani che hai cercato di crescere con le migliori intenzioni darti ognuno la mano e volerti innalzare in trionfo, cosa che non accettai, ti vengono veramente le lacrime agli occhi. È come una vittoria inaspettata, non tanto perché potevi anche perdere, ma perché non sapevi che stavi partecipando a una gara. Anche i colleghi si erano complimentati, così come il preside, e la targa che mi offrirono era il segno che qualcosa di buono avevo fatto.
In seguito la mia vita, senza l’andirivieni da Monselice, s’era ridotta tra casa e il bar del Pozzo. Naturalmente sapevo che era un disagio comune a tutti i neo pensionati: cambiare la tua giornata ritmata dagli orari in una di assoluta libertà ti crea un senso di vuoto che devi per forza superare; ti senti inutile al mondo, come se questo ti avesse abbandonato in un’altra dimensione. Poi reagisci e cerchi di dare un senso alla giornata che si presenta davanti, cercando di abituarti al nuovo cadenzare delle azioni. Ma non trovi assolutamente niente di impellente da fare, sei consapevole che nulla è importante e pensi che qualsiasi cosa tu compia non sia meritevole di essere fatta.
Sì, all’inizio fu difficile, ma poi mi abituai alla nuova condizione: leggere il giornale tutte le mattine al bar mi rasserenava e allo stesso tempo mi proiettava ancora in comunione con la società. I pochi avventori si appartavano da me, un po’ perché ero intento alla lettura e un po’ perché mi vedevano come un individuo al di sopra della loro cultura. A casa non sapevo che fare: i due campicelli rimasti, in fondo alla strada cieca che passava di fianco alla nostra abitazione, li avevo affittati, e mi pareva arbitrario riappropriarmene, tanto più che non li avevo mai lavorati. Soltanto l’orto, da tanto tempo abbandonato, fu ripreso e portato agli antichi splendori.
Sulla strada che da Padova porta a Monselice vedevo mio fratello Giuliano osservare i Colli Euganei, saranno stati per lui il simbolo dell’ambiente di casa, forse un qualcosa che si era portato dietro. Ma la mura che fungeva da parapetto al canale impediva tale visuale; più volte anch’io, facendo quella stessa strada, mi chiedevo perché si occultasse una tale vista. Osservavo mio fratello e soffrivo per lui, era più che mai evidente la sua impazienza di incontrare uno squarcio su quella mura. Lo trovò a Mezzavia, la località da cui si diparte la strada che porta a Montegrotto Terme e poi ad Abano. Lo vidi soffermarsi con lo sguardo sulle montagnole lontane, finché la mura non si frappose ancora tra lui e il paesaggio. Ma fatti una cinquantina di metri si aprì un altro varco, che mostrava i colli con gli alberghi ai loro piedi: un bene da tenere in considerazione per i visitatori che là vi soggiornavano per le cure. Era piacevole ammirare lo splendido paesaggio di piramidi silenziose, dove il sole scendeva inondando il cielo di porpora, ben armonizzandosi con il violetto dei colli in uno spettacolo degno di quello africano.
Il Monte Venda con la sua lunga antenna, e il Cerro dalle antenne piantate come la chioma irta di un ragazzino moderno, si staccavano dagli altri colli per la loro conformazione perfetta. In quei colli dove il Petrarca volle vivere l’ultima parte della sua vita libertina, combattuta tra l’effimero e il trascendente, morendo ad Arquà, nella sua biblioteca, sopra un libro di Virgilio. È strano come personaggi di fama universale possano oltrepassare la barriera del distacco umano per farti partecipe della loro vita e delle loro miserie venendo ad abitare vicino a casa tua, elevando un paesino anonimo a luogo noto in tutto il mondo.
Lasciammo a destra Palazzo Cataio, di cui si dice sia stato costruito con 365 finestre, tante quanti sono i giorni dell’anno: valli a capire questi nobili, con le loro manie! Vidi mio fratello Giuliano fissare il Monte Ricco, la sua forma ricordava anch’essa le piramidi, d’altronde i Colli Euganei sono di origine vulcanica Avrà avuto la sensazione di trovarsi davanti a qualcosa di ancor più familiare, ma che non sai soppesare perché improvvisamente l’ambiente ti si para davanti, mentre la tua consapevolezza è ancora altrove. Poi si propose la Rocca, il simbolo di Monselice, con in mezzo quella macchia bianca che è villa Duodo, dove appena sotto, un parco dava refrigerio agli uccelli e allo spirito di chi vi si inoltrava.
Ad un tratto, all’incrocio che portava al centro di Monselice, mio fratello ebbe un sobbalzo. “Guarda!” esclamò. Osservai l’auto che lui mi indicava e al volante vidi una giovane con i capelli biondi raccolti. Rimase interdetto, poi: “La conosci?”
“No, come potrei conoscerla, sai quante bionde si vedono in giro?” risposi scherzosamente.
“È lei, è lei sicuramente… quella bambina!”
“Quale bambina?”
Tacque, come fosse incorso in una gaffe, quindi: “Quella del funerale.”
Il funerale di nostro padre, quel giorno di diciassette anni fa, quando era andato all’osteria nella frazione di Stroppare con suo cognato Pasquale, fratello di nostra madre. Era da poco che lo zio alloggiava da noi, essendo rimasto solo; all’inizio viveva in una casa spaziosa alla periferia di Padova con un fratello, due sorelle e la madre. Le due sorelle si sposarono, una era mia madre, andando a vivere fuori città; suo fratello fece degli investimenti sbagliati e si mangiò la casa, riuscendo però a procurarsi un appartamento dove viveva con sua moglie in modo spartano. La vecchia casa fu venduta all’asta e così lo zio Pasquale e mia nonna dovettero adattarsi a vivere in una catapecchia assegnatagli dal Comune. Lui era celibe perché, come aveva sempre affermato, gli piaceva troppo la libertà, la compagnia degli amici con i quali divertirsi, lo ammetteva con fare canzonatorio, e forse diceva la verità. Alla morte di sua madre, lo zio Pasquale restò solo; il Comune non poteva sfrattarlo, ma lo obbligò ad accettare la coabitazione con un individuo disadattato che, sempre secondo le sue affermazioni, beveva. Lo zio non accettò e si rivolse a mio padre per essere ospitato da noi. Nostro padre fu ben felice di compiere un gesto di bontà verso chi era messo alle strette in quel modo, e lo accolse in casa.
Quella sera fu l’occasione perché loro due festeggiassero l’avvenimento all’osteria, davanti a un bicchiere di vino. Alle undici Giuliano doveva andare a prenderli: li aveva portati con l’auto e aveva promesso loro che sarebbe stato puntualissimo, alle ventitré. “Così berrai un bicchiere con noi!” fu l’esclamazione dello zio. Ma le cose non andarono così, nel senso che Rodolfo, un amico di Giuliano, l’aveva invitato per uno spuntino nei colli, convincendolo che avrebbero fatto a tempo a ritornare per prendere i due parenti. Ma la malasorte si accanì contro Giuliano perché al ritorno, quando furono a Marendole, una località tra Este e Monselice, rimasero senza benzina. Più che il disagio della camminata fino a Monselice, dove era stata parcheggiata la macchina di mio fratello, fu il rammarico, l’angoscia immaginandosi i due che lo aspettavano invano.
Intanto nostro padre e lo zio Pasquale, dopo la chiusura del locale s’erano incamminati lungo la strada buia, in attesa di incontrare Giuliano. Forse avevano bevuto un po’ troppo, forse se la spassavano dal ridere dalla soddisfazione della serata, sta di fatto che la loro andatura non era rettilinea e spesso occupavano parte della strada, come ci disse zio Pasquale. Non si accorsero di un’auto che sopraggiungeva da dietro, che non li vide, e investì nostro padre che morì sul colpo; poi l’autista fuggì. Di questo incidente mio fratello si sentì sempre in colpa; lo vedevamo ritirarsi sempre più in se stesso, sicuramente maledicendo la sua dabbenaggine, finché decise di partire per l’Australia.
All’incrocio di San Bortolo mio fratello Giuliano si girò indietro quando oltrepassammo il chiosco del venditore di angurie e granatine: un’attività quella, condotta da chi certo non pensava al guadagno smisurato, ma al necessario per tirare avanti, prolungando così, senza saperlo, una tradizione che si stava perdendo nel tempo. A destra si estendevano fabbriche piantate là dal progresso anche in zone come questa, essenzialmente contadine. Capii che quella vista portava Giuliano ai ricordi di un tempo, quando ancora l’innocenza e la quiete mentale predominavano in lui. Fino alla morte di nostro padre: spartiacque tra una vita giovanile felice e il rimorso. Tra l’Italia e l’Australia, dove si rifugiò per non dovere sottostare agli sguardi di chi secondo lui giustamente gli addossava la colpa. Per noi familiari era pacifico che non fosse minimamente responsabile, ma il suo carattere sensibile e chiuso lo portava a flagellarsi e richiudersi nel suo mutismo. Come ora, mentre fissava i grossi capannoni che accompagnavano la strada, non proferendo parola.
“Non giri?” disse quando all’incrocio di San Bortolo tirai dritto.
“Perché? Quando c’è una strada larga che ti porta in paese…” E proseguii nella direzione di Rovigo. Speravo che mi chiedesse ulteriori informazioni sulla viabilità, ma lui imperterrito si addossò ancora al finestrino. Quando giungemmo allo svincolo sopraelevato che porta a Rovigo e a Sottomarina, la spiaggia dove lo iodio è maggiore che in tutte le altre spiagge d’Italia, guardò da basso come in cerca di un punto di riferimento. Sicuramente non lo vide: le nuove strade si snodavano circolari e larghe nella campagna, che per i nostri paesini era un’opera ciclopica, come una cattedrale nel deserto.
“Quanto manca?”
“Su questa “autostrada” arriveremo neanche in dieci minuti.” Infatti eravamo sulla statale denominata “Monselice-Mare”, tagliata da tanti incroci, dove ai lati erano sorte casette ben rifinite, distributori di carburante, fabbriche, depositi di legna, eccetera. Quando un semaforo lampeggiante pareva sbarrarci la strada, deviammo per Pozzonovo. La tonda scultura in ferro di Gialain, il fabbro del paese, accoglieva il visitatore come volesse essere quella una zona dove il ferro battuto testimoniava la sua caratteristica. Subito dietro, un vivaio con serre, che si esaltavano soprattutto nel mese di novembre, il mese dei morti, quando i crisantemi occupavano tutto lo spazio disponibile.
Da qui la strada si presentava pressoché solitaria; ma poco dopo appariva una serie interminabile di abitazioni, fabbriche, e ancora abitazioni: chiaro segno che ci si stava inoltrando verso il centro del paese.
“Ma siamo a Pozzonovo qua?!” esclamò.
Avevo capito che voleva rompere quel rapporto freddo prima di arrivare a casa.
“Tu stai lontano e noi costruiamo!”
“Vedo, vedo” fu la sua risposta.
Ormai ci approssimavamo al centro. A sinistra un cartello indicava la pista di volo, lui lo osservò e non disse niente.
“Guarda che la nostra casa non è più quella di una volta.” Gli spiegai che avevo fatto sostituire la massiccia rete metallica, con una ringhiera. Che avevo fatto sradicare i quattro pini giganti che occupavano interamente il giardino, e che Gisella, mia moglie, aveva voluto farvi piantare al loro posto una magnolia, un acero platanoide, una acacia e altri arbusti. Aveva fatto crescere l’edera intorno al pozzo, attorniato da un bel tappeto inglese. Gisella aveva sistemato anche delle fioriere e seminato fiori rasente al muro, con delle calle… insomma la palazzina si mostrava molto più ariosa, decorosa e rilassante.
Non sapevo come dirgli che avevo venduto degli appezzamenti di terreno che continuamente mi venivano richiesti. Perché non vendere, recuperare dei soldi che ci occorrevano, e allo stesso tempo soddisfare chi voleva farsi una casetta poco distante dal centro, in una zona tranquilla? E poi, in fondo in fondo, un po’ di compagnia sarebbe stata piacevole per noi che non avevamo figli, per Gisella soprattutto, che si dava da fare dentro e fuori casa, ma in quanto a rapporti con il vicinato era sacrificata per la scarsità di abitazioni.
Nei brevissimi dialoghi lui annuiva e non ribatteva, in conseguenza di ciò non vedevo l’ora di arrivare a casa per togliermi da quell’imbarazzo: Gisella parlava più di me, che un po’ somigliavo a lui, e mi avrebbe sollevato dal disagio. Continuavo a riflettere sul suo comportamento: veramente speravo dipendesse dalla lunga assenza dal paese, dall’aver vissuto in un luogo totalmente diverso dall’Italia, e non fosse stato per la sua ipotetica colpa per la morte di nostro padre, sarebbe stata allora una patologia difficile da scardinare se fosse rimasta nonostante il tempo trascorso.
E arrivammo a casa. Lo zio Pasquale ci stava aspettando fuori sulla sedia a rotelle, vicino al tavolino e alle due panchine in ferro, ma con i ripiani di legno che servivano più da ornamento che per la loro funzione. Lo zio era immobilizzato sulla sedia a rotelle in seguito a una brutta caduta dalla finestra del primo piano dell’abitazione mentre tentava di districare la tenda, tirandosela dietro in un volo di quattro metri. Non c’era nessuno in casa, Giuliano era partito due mesi prima, e lui dovette avere sofferto terribilmente perché non poteva chiedere aiuto dato che la voce gli usciva strozzata. Lo trovammo io e Gisella quando tornammo da Monselice, dove eravamo andati a fare la spesa al supermercato del centro, capimmo subito la gravità dell’incidente e chiamammo l’ambulanza. Frattura alle vertebre e paralizzato a vita: questa fu la diagnosi.
La morte di mio padre e l’immobilità dello zio mi prostrarono, tanto che il lavoro a scuola era diventato una sofferenza; gli studenti, pur conoscendo la mia situazione, dopo qualche tempo cominciarono a dare segni di svogliatezza. Il preside se ne accorse e un giorno mi chiamò dicendomi se non fosse stato il caso che mi dessi ammalato finché non mi fossi ripreso. La cosa non era sbagliata: dopotutto la mia era una malattia. Ma cosa avrei fatto a casa? Ad accudire lo zio c’era Gisella, sicuramente sarebbe stato un tormento più grande. Decisi di no, che avrei continuato a insegnare ai miei studenti, sforzandomi di non badare alle preoccupazioni.

[continua]


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