Viaggio nell’infanzia a Campolongo Maggiore

di

Rino Gobbi


Rino Gobbi - Viaggio nell’infanzia a Campolongo Maggiore
Collana "Le Schegge d'Oro" - I libri dei Premi - Narrativa
15x21 - pp. 146 - Euro 11,50
ISBN 978-88-6587-0235

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In copertina: fotografia dell’autore


Pubblicazione realizzata con il contributo de IL CLUB degli autori in quanto l’autore è segnalato nel concorso letterario J. Prévert 2010


Ringraziamenti

Un ringraziamento particolare alla prof.ssa Antonia Panizzolo per l’acuta rifinitura del testo.


Prefazione

Il seme che ha dato vita a “Viaggio nell’infanzia a Campolongo Maggiore” è stato un quaderno dove Rino Gobbi ha iniziato a fissare i suoi ricordi fin dall’infanzia e poi, nel continuo fluire della memoria, ha continuato ad annotare le sue esperienze fino ad oggi.
Dal costante recupero memoriale nasce oggi questo libro, che fa riferimento al periodo dell’infanzia, (e al quale seguiranno altri che riguarderanno logicamente i periodi successivi), che rappresenta una profonda e attenta testimonianza densa di ricordi e frammenti esistenziali che sono la sostanza della vita stessa dell’Autore.
Il diario di sommessi ricordi, intenso, genuino e spontaneo, viene fatto rivivere con parole, profondamente sentite da parte di Rino Gobbi, che si alimentano di nuova linfa nel costante susseguirsi del racconto della propria vita ed è sempre accompagnato da un amorevole sguardo al mondo del tempo della sua infanzia.
Dalle prime pagine si inizia subito a comprendere la vita del tempo vissuto in un paesino di campagna come Campolongo Maggiore.
Ecco allora riaffiorare, nell’oceano dei ricordi, le immagini della casa colonica agli inizi degli anni Cinquanta, con il boschetto vicino alla casa che era il regno dei giochi con gli altri ragazzi, le lunghe corse in bicicletta e i piccoli lavori che doveva svolgere per rendersi utile, come bagnare e pulire il cortile o tagliare l’erba del viottolo.
Il ricordo corre a quei tempi duri e difficili quando il padre faceva il muratore e sovente era in malattia a causa del forte mal di schiena di cui soffriva e, in quei brevi periodi, riparava gli orologi che erano la sua passione. È ancora vivo il ricordo dei momenti passati con il padre a pescare e a raccogliere la camomilla vicino a Campolongo. E poi la figura della madre che preparava il riso e il latte al mattino, la sua costante e amorevole presenza, la numerosa famiglia con le quattro sorelle e il fratello Galdino.
Tornano alla mente il ricordo più tragico della sua infanzia con il corpo martoriato del povero Bruno Piovan a causa dello scoppio di una bomba sul ponte del fiume Brenta nel 1952 e, al contempo, il primo libro letto che si intitolava “La legge dell’amore” dopo aver sfogliato i giornalini come “Lupo solitario”, “Monello”, “Intrepido” e il famoso “Tex”.
Qualche anno dopo, le giornate passate andando a pescare a mani nude durante le secche del fiume Cornio e dei fossi limitrofi, le scorribande al piccolo laghetto di Trincanato o giocando agli indiani e con le figurine che allora erano in voga: le immagini che fluiscono riconducono alla piccola baracca di legno presso la stazione dei treni che da Adria porta a Venezia, una casetta sospesa come una palafitta con la casellante Maria che vendeva i dolciumi d’ogni genere; le passeggiate a raccogliere l’uva, le noci, le prugne Santa Rosa, le canne di bambù, o le spugnole, funghi che crescevano al di là della ferrovia e, stranamente, era l’unico luogo dove si potevano trovare.
Quindi arriva il momento del periodo della scuola con la maestra delle elementari chiamata “La Siciliana” e il maestro Giannino, poi, le amicizie che rimarranno immutate nel tempo come con il grande amico Nino Saènte, sempre insieme sfidando i pericoli; il giorno della prima comunione e della cresima, le partite a calcio, il gioco pericoloso degli “spari al carburo” con il tremendo boato finale e poi, quasi dodicenne, i primi lavoretti presso il tacchificio a San Pietro di Stra durante il periodo delle vacanze; qualche volta a stendere la saggina sulle sponde del Brenta o a zappare i campi di barbabietole o ancora come bigliettaio al cinema parrocchiale, che non era poi male perché offriva la possibilità di lasciar passare qualche ragazzina ed infine la Scuola di Avviamento professionale a Piove di Sacco che segna l’inizio di una nuova stagione della vita.
In queste pagine dense di ricordi e d’immagini legate al tempo vissuto, Rino Gobbi sembra ridare vita alla bella età dell’infanzia, quando si sentiva in contatto con la natura, poteva fare affidamento sull’amicizia o divertirsi nelle scorribande nei campi o a far scorpacciate di frutta con il rischio di beccarsi qualche bastonata. Le atmosfere di quel tempo erano pervase dalla spensieratezza e da uno stile di vita che era completamente differente seppur doveva fare i conti con una condizione più difficile: ma si poteva ancora ascoltare la voce dell’ambulante che arrivava in paese, ci si poteva divertire alla sagra di Campolongo con le sue bancarelle e l’albero della cuccagna nella solita atmosfera delle feste di paese di una volta, senza dimenticare il profondo legame con la natura che emerge chiaramente in numerosi frammenti della memoria.
Una lunga serie di vicende e un mare magnum di immagini del passato che si illuminano nel ricordo amorevole in un continuo affioramento nella memoria di un uomo che non dimentica ciò che è stato, ciò che ha vissuto, ciò che ha amato come a fissare su queste pagine del personale diario, in modo indelebile, quel “suo” mondo che non merita di essere dimenticato, che non può cadere nel fiume dell’oblio.

Massimo Barile


Viaggio nell’infanzia a Campolongo Maggiore

I

Il carretto procedeva lento e le sue grandi ruote con i cerchioni in ferro frantumavano i sassi della strada con quello stridio che ancora mi è impresso nella mente. Sedevo davanti, a destra, con le gambe penzoloni, e accanto a me c’era un arcolaio, che noi chissà perché chiamavamo fuso, con tre gambe e una grande ruota; forse era l’unico oggetto, oltre a qualche mobile, che ci portavamo via dalla casa dove sono nato. Ecco, questo arcolaio è l’oggetto che rappresenta il primo ricordo della mia infanzia, che funge da filo conduttore dalla vita inconscia a quando ho cominciato a “vivere” all’età di tre anni, per cui per me rappresenta un qualcosa di sacrale che va al di là delle sensazioni terrene, che mi porta in un mondo inesplorato, arcano e meraviglioso. Abitavo a Campolongo Maggiore, era l’undici novembre del 1950: stavo traslocando da Corrado, da una casa dove vivevamo in cinque in una camera e la cucina serviva per noi e per altre due famiglie parenti alla lontana di mio padre.
In questa casa, come quasi in tutte le altre case coloniche, la stalla era attigua all’entrata, separata da una porta di legno, con un chiavistello che si alzava e abbassava. In quella casa ebbi il mio primo incidente che, anche se non posso ricordare, dato che avevo poco più di due anni, merita di essere segnalato: la padrona di casa, “Mèlia Corado”, aveva posato per terra il “calière”, cioè il paiolo di rame su cui si coceva la polenta impastata con la “mèscoea”, il mèstolo; ebbene, l’aveva poggiato con l’acqua bollente proprio per terra, perché il pavimento era in terra battuta, che forse era stata pressata con la “becanèa”, quel grosso tronco cilindrico che per impugnature aveva due lunghi manici di legno; solo in seguito ci fu l’avvento del pavimento di pietre; io, che ancora non sapevo camminare, mi avvicinai carponi verso quel vapore e mi rovesciai addosso l’acqua sulla parte superiore della gamba sinistra, dove porto ancora il segno. Mi vedo per tutta la fanciullezza osservarmi con vergogna quella piaga che non lasciava passare il sudore e, siccome avevo sentito dire che chi aveva i pori della pelle otturati era destinato a morire, mi preoccupai.
Traslocati in quel posto che poi si chiamerà “Corea” per il motivo che a suo tempo spiegherò, mi ricordo della brutta fine che fece l’arcolaio: fu un giorno in cui sentii mio padre chiedere a mia madre “E de sta roba qua, cossa ghe ne femo?” Evidentemente non serviva più e penso che mia madre ne fosse convinta perché lui lo fece a pezzi con la scure e lo gettò sopra la catasta di legna che si trovava sotto la tettoia.

Mi ricordo che quando stava per nascere Lidia, una delle mie quattro sorelle, qualcuno esortò me e mio fratello Galdino ad andare dai nonni poiché la mamma stava per avere un bambino e doveva stare tranquilla. Ricordo anche la sensazione che provavo: che ci avessero mandati via perché doveva arrivare una donna con un bambino per venderlo ai nostri genitori, che si trattava di un evento strano e sorprendente che doveva accadere, che noi avremmo visto a fatto compiuto. Evidentemente Lidia è nata in casa e sicuramente sarà stata avvolta dalle fasce, come si usava a quel tempo, perché vedo nella mia mente una sorella castigata in questo modo e mia madre nell’atto di sfasciarla.
Le donne incinte, specialmente negli ultimi mesi di gravidanza, dovevano venire soddisfatte in ogni loro desiderio, altrimenti il figlio nasceva con le voglie, che potevano essere di vino, che si stampavano sul viso, magari grosse e tumefatte, e rappresentavano una vergogna che ti portavi per tutta la vita; mia madre sicuramente non poteva avere di questi “capricci”, perché eravamo molto poveri, tuttavia, se ben ricordo, non so durante quale gravidanza lei ebbe voglia di anguria, in questo caso non sarebbe stato difficile accontentarla, se non che eravamo in inverno.

Una volta una delle mie sorelle stava molto male: era bianca in volto, aveva il convulso, pareva dovesse svenire da un momento all’altro; “aveva i vermi”, come si diceva; e vedo attorno a lei alcune persone e mia madre che la sorreggeva e la chiamava; sentii dire: “Dell’aglio!” e poco dopo vidi la bambina con una collana di aglio intorno al collo (a quel tempo se il dolore perdurava se ne introduceva uno spicchio nell’ano). I “vermi” erano causati dall’indigestione o dalla frutta acerba; questi vermi dovevano essere quelli che uscivano durante la defecazione e per quanto mi riguarda era una sensazione schifosa e uno sforzo ripugnante che dovevo fare nel tirarli fuori affinché uscissero del tutto. Si diceva che il verme si chiamava tenia e quando a scuola seppi che poteva essere lungo anche sei metri, mi spaventai. L’antidoto per questo disturbo era la vermolina, un liquido che io ricordo rossastro.

Non so se sia stata Lidia o Silvana che, forse in occasione della Prima Comunione, vidi sopra una sedia che indossava una gonna bianca che si allargava tanto da ricordare un abito delle ragazze nobili dell’Ottocento, e mia madre con altre persone che le stava accomodando di sotto un cerchio, meglio dire un telaio, che allargava il vestito. Era usanza in queste occasioni portare un braccialetto e una collana, realizzati infilando le “perle” colorate in un filo; mentre era per divertimento che si mettevano un paio di ciliegie alle orecchie.

Quando andammo ad abitare in Corea, esisteva la casa di mio padre detto “Cicio Mursi” (una cucina e una camera con le travi di legno ad angolo che sostenevano il tetto); quella di “Giulio Tirarèsso”; quella dei “Saènte”; della “Tassa”; dei “Crìncoeo”; e davanti ai Crìncoeo, quella dei “Caeociòi”. Più a nord si confondeva con gli arbusti il caseggiato dei “Munci”, con vicino la piccola abitazione dei “Lupo”. Nella casa dei Caeociòi, dopo che se ne andarono forse per non sopportare ulteriormente le ostilità di “Toni Saènte”, venne ad abitare “Nani dea Tassa”; e dopo di lui i “Pittarèa”. Dove abito adesso io sorgeva il casone di “Gioàni dea Tassa”, padre di Nani; e vicino, verso ovest, la casetta di “Tetìna”, una donna che si distingueva per il fazzoletto che portava sempre in testa, che noi chiamavamo “la Corsara”. In seguito, la casa della “Corsara” fu abbandonata e vi si insediò un piccolo laboratorio che lavorava il vetro: di più non so, ma ricordo un mucchio di questo materiale posto davanti al manufatto e l’emozione di avere una “fabbrica” vicino alla mia abitazione.

Ricordo che quando mio padre stava realizzando l’ampliamento della nostra casa si lanciavano le pietre al primo piano, dove un altro le prendeva al volo (in seguito si usò una paletta di legno dal manico lungo), e i forati venivano “consegnati” con una pertica che terminava a croce. Ricordo appena che, una volta ultimato l’ampliamento, mio padre fissò sulla copertura la classica frasca che indicava che la costruzione era stata “portata al tetto”, tetto che era “all’americana”, cioè sfalsato sulla “coppara”, com’era di moda a quel tempo. Non ricordo se quella volta si fece “la vanzèga”, il pasto di fine lavori; forse no perché si era lavorato in economia con noi figli; ma se il lavoro fosse stato eseguito da altri, il padrone avrebbe organizzato una sostanziosa mangiata per tutti gli operai. Era la stessa frasca che si metteva bene in mostra, magari legata ad un palo, all’ingresso di quelle case dove si vendeva il vino sfuso, che si beveva a bicchieri seduti su delle rudimentali panchine davanti ad un rudimentale tavolo nel cortile ombreggiato, o all’interno: erano le mescite.
Mio padre dovette usare sicuramente la calcina per costruire la casa, perché mi ricordo di una grande fossa di forma quadrata contenente della calce viva che, aggiunta alla sabbia, formava la malta. La calce la si andava a prendere allo zuccherificio di Pontelongo, là, in qualche modo serviva per lavare le barbabietole. Questa calce pura, mista ad acqua, veniva sovente usata anche per tinteggiare le stalle e i pollai: più che per il decoro era per evitare la comparsa di malattie per le bestie.

Davanti alla nostra abitazione e quella di Giulio Tiraresso, si trovava una piccola boscaglia con il fosso che delimitava la strada; era il nostro regno dei giochi, vicino al quale si estendeva un prato sempre grande, là si correva, si giocava e si mangiava “l’uva secca”, che per quel che mi ricordo era una sorta di uva passita di una vite che pareva essere là apposta per noi; e poco distante, un filare di uva “curbinèa”, dagli acini neri, piccoli e appiccicati, non tanto dolce, ma comoda da prendere, e pure un filare di uva “patarèsca” c’era, dagli acini grossi e rosseggianti; mentre l’uva più comune, la “grinta”, dagli acini neri e più piccoli della clintòn, veniva coltivata un po’ dappertutto. Fu in questo prato che, giocando, non so quale mia sorella perse un anellino d’oro. Il fatto è singolare non tanto per la perdita del gioiello, ma perché uno di noi aveva un tal valore addosso, essendo noi veramente poveri; data l’età non poteva essere stato un regalo della Comunione e neanche di Battesimo, per cui il mistero rimane. Ad ogni modo l’anello saltò fuori più tardi: non dal prato, ma dal cortile di casa, dove mio padre lo trovò rasando l’erba vicino all’orticello; mi ricordo il punto esatto dove fu trovato, ma non la gioia che si sprigionò in casa. Di orti ne avevamo due: uno a est della casa, appunto l’orticello, e un altro a ovest: più grande, dove le colture consistevano principalmente in patate, finocchi, carote, aglio, leguminose e verze, di cui mangiavo con avidità i tutoli; nell’orticello invece si coltivava insalata, prezzemolo, sedano, pomodori, melanzane e peperoni. Due orti tenuti dai nostri genitori come fossero giardini. La rovina dell’orto grande erano le “porseète”, i grillotalpa, che divoravano patate, carote e ogni altra radice. Erano piacevoli da vedere quando raramente uscivano da sottoterra e non sapevano quale direzione prendere; ed era la loro fine perché le rincorrevamo e con la vanga tagliavamo loro la testa. A tal riguardo mi ricordo le faticacce che io e Galdino sostenavamo per dare acqua agli orti, traendola a secchi dal pozzo, annaffiando le aiole che erano alte e l’acqua che si disperdeva sui viottoli, e noi scalzi che ci impiastricciavamo nel fango. Come non bastasse, tutte le sere papà ci faceva scopare il cortile con una scopa di “sàndana” e una di saggina; entrambi tentavamo di accaparrarci quella di “sàndana”, più dura e adatta alla terra, mentre quella di saggina era meno pratica. Prima però bisognava annaffiare il cortile, ma qualche volta, per evitare lo sforzo di trarre l’acqua dal pozzo, lo scopavamo senza bagnarlo, sollevando una polvere incredibile, con i relativi rimbrotti dei genitori; da notare che eravamo fortunati ad avere un pozzo tutto nostro, perché a quel tempo alcuni pozzi erano situati sul confine e servivano due o più famiglie, o si trovavano in qualche contrada.
Bevevamo l’acqua del pozzo perché naturalmente non c’era acqua corrente in casa, e quella della fontana della Corea, dalla grande ruota, sapeva di ferro. Nel pozzo ci mettevamo le angurie perché rimanessero fresche; mi ricordo benissimo il profumo che questo frutto emanava: sapeva di anguria, un aroma che ora non sento più.
Della costruzione del pozzo mi ricordo solo una scena, quella del mio padrino Giordano che con una voce cavernosa chiedeva dal fondo della cavità il secchio a mio padre che stava sopra, presumibilmente per caricarlo di terra.
Una volta costruito il pozzo, quale non era la gioia di noi figli nel trarre l’acqua. All’inizio essa veniva attinta tramite un secchio di latta, fissato con una catena ad una estremità della pertica; questo palo orizzontale con il fulcro a metà e un peso sull’altra estremità, poteva ora abbassarsi ora alzarsi accompagnando nel suo movimento il secchio che scendeva e saliva. Bisognava risparmiare l’acqua del pozzo, anche se non costava niente, per la fatica di tirarla su, specialmente d’inverno; così quella del catino serviva per i lavaggi di più persone. Poi mio padre costruì una vasca di cemento sopra il ballatoio delle scale, la collegò con un tubo al pozzo e tramite una pompa che la riempiva avemmo l’acqua corrente in casa.
Oltre che per bagnare il cortile io e Galdino eravamo indolenti anche quando si doveva “fare il troso”, cioè rasare l’erba del viottolo che portava in strada, o levare l’erba che si intrufolava tra le maglie della rete metallica. Dal quel viottolo, prima che ci fosse la Corea si dipartiva il campo; ebbene, un giorno “Aldo Caciàne” ne stava arando una porzione; si fermò e senza smontare dal trattore si mise a parlare con me, che ero tutto intento ad osservarlo meravigliato: voleva barattare il suo trattore con Lilli, la mia cagnolina bianca. Avrò avuto quattro anni, a quello scambio ci credevo e accettai; poi papà mi chiamò dentro, io replicai, ma dovetti ubbidire. Dalla finestra vedevo Aldo che arava e quando partì “scordandosi” del patto piansi tutto il giorno, pensando che, se papà non mi avesse ordinato di entrare in casa, avrei avuto un trattore tutto per me.
Un altro ricordo che riguarda un trattore è quello di quando mi trovavo a correre su una “caresà”, capezzagna: dal campo si stava avvicinando uno di questi mezzi che stava finendo di arare il solco; vedevo questo “mostro” dirigersi incurante verso di me; mi misi a correre più forte affinché non mi investisse con la sua mole e caddi proprio mentre il trattore avanzava; mi sentii perduto. Non ricordo il seguito: certamente non sussisteva quel pericolo che avevo temuto.
Era il tempo in cui andando a scuola a piedi attraversavo i prati che portavano all’asilo, coperti di azzurro dagli “ocieti dea Madona”; nei campi di frumento di “Mamìn”, vicino al bosco a sud del Cornio che chiamavamo di “Capeòn” (il proprietario), nascevano gli ultimi fiordalisi; era raro trovarli e vedere quell’azzurrino tra il giallo del grano mi dilettava; spesso li coglievo e portavo a casa dove mia madre li metteva in un vaso. Sempre nei campi, cresceva anche la camomilla, che io annusavo inebriandomi del suo profumo. Più di una volta sono andato con mio padre, e in seguito anche da solo, a raccoglierla con un arnese a forma di piccola pala, sul cui lato anteriore erano ricavati dei denti per infilare gli steli e strappare il fiore di questa pianta. Poi mio padre la seccava sull’aia e mamma faceva il decotto.

Nel bosco di Capeòn ci andai una volta con altri ragazzi di Azione Cattolica. Tra gli alberi e le macchie ci divertivamo con giochi organizzati dai nostri animatori, come quello della caccia al tesoro. Rivedo un nugolo di ragazzini seduti in cerchio e i “capi” che si davano da fare per richiamare quelli che si intrufolavano nel bosco, forse per esplorare il luogo. Sempre con “l’Azione Cattolica” si percorrevano in bici distanze ora inimmaginabili per dei bambini: andammo alle grotte di Frassanelle, nel comune di Rovolon, dopo Padova. Di quella pedalata, oltre il fatto di esserci andato, non ricordo altro niente. Ma anche da soli macinavamo chilometri con la bicicletta, come quella volta che andai con Graziano, Elide e Sandra a Sottomarina. Ricordo che Elide, una bella ragazza, si vergognava ad indossare il costume perché era bianco e si intravedeva il pube; io le dissi che non si vedeva niente, anche se in effetti si scorgeva la macchia nera; sta di fatto che non provavo la benché minima eccitazione: a me interessava che venisse in acqua per giocare a palla. In queste occasioni non avevamo l’ombrellone e si rimaneva al sole per l’intera giornata, così da tornare a casa con la schiena rossa da fare paura; qualche volta seguiva la febbre e dopo qualche giorno nostra madre ci “levava la pelle”, la pellicola bianca che si formava sul dorso.
Una volta andai a Sottomarina con mio padre e il mio padrino Pietro, io seduto sulla canna della bici di mio padre. Quando uscii dall’acqua vidi papà seppellito sotto la sabbia delle dune che mi guardava serio, presi uno spavento perché non lo avevo mai visto con quello sguardo. Poi dovetti io “seppellire” il mio padrino, perché me li ricordo tutti e due con la testa fuori dalla sabbia, che a fatica giravano per potersi parlare. Naturalmente stavano facendo “le sabbie” per il dolore alla schiena di cui soffrivano.

Quando doveva ancora sorgere la Corea, ricordo un aquilone colorato che volava alto sopra la ferrovia e ancora non sapevo cosa fosse un aquilone; fu una emozione intensa e paurosa, continuamente distraevo lo sguardo. Mi si disse che era l’aquilone dei “Tiraresso”, che abitavano al di là della ferrovia, parenti di Giulio, la famiglia che abitava vicino a noi. In seguito questi Tiraresso vennero ad abitare anche loro in Corea, quasi davanti alla nostra casa.
Sotto l’argine del Brenta, dove sorgeva l’abitazione di “Malvina”, che poi sarebbe diventata trattoria, esisteva una casetta composta di due vani (ancora prima era un manufatto di pietre di terracotta) costruita da mio padre e Giulio Tiraresso, dove “Caponèa” lavorava come calzolaio. Dopo qualche tempo “Caponèa” si trasferì in una baracca di legno al centro del paese, presso “Mieto”. Ma prima ancora che da “Caponèa” questa bicocca era occupata da “Cice Crìncoeo”, un simpatico e grosso pescatore di conchiglie e granchi, che aveva la moglie claudicante e gobba: “Ea goba de Cice”, che noi ragazzini prendevamo in giro ogni volta che la incontravamo per la strada. Cice, come tutti gli ambulanti di allora, usava la stadera per pesare le vongole e i granchi, facendo scorrere con occhio da intenditore il “macaco”, il nome curioso che si dava al romano, il peso che va avanti e indietro sullo stilo graduato. Invece per i pesi grossi, come maiali macellati, si usava la “stalliera”, una stadera ben più robusta, senza piatto, con il solo braccio graduato; la sostenevano due uomini infilandovi un grosso palo nel suo occhiello o gancio, con la mezza bestia che penzolava da un altro gancio trattenuto da una catena. Questo lo vidi fare all’osteria di Mursi, ovvero l’osteria di mio nonno paterno Giulio e mia nonna Santina, quando era situata in via Giare, dove a quel tempo allevavano dei maiali.
In questa osteria le sfide tra gli avventori erano all’ordine del giorno; famosa era quella della “s-ciafèta” in cui due uomini, per come li vedevo io, ma forse erano ragazzi, si schiaffeggiavano alternativamente su una mano fino a che queste non diventavano grosse e rosse; era una godimento sentire il rumore delle pacche, e il gioco durava a lungo, anche perché a quei tempi la resistenza fisica era una delle poche armi per mostrarsi superiori; quello che si arrendeva prima aveva perso e doveva pagare un bicchiere di vino o una “ranèa de graspa” (un bicchierino allungato colmo di grappa). Un altro passatempo denominato “scorèsa” (scoreggia), consisteva nel mettersi una mano sotto l’ascella opposta, quindi alzare ed abbassare il braccio corrispondente e produrre così un suono caratteristico; chi riusciva a far sì che il rumore scaturisse più forte e chiaro era naturalmente il più bravo. Anche noi bambini imitavamo gli adulti, imparando subito questo gioco, e io qualche volta ci riuscivo e qualche volta no. Poi imitavamo a modo nostro anche la “s-ciafèta”, quando uno di noi bambini, senza girarsi, si portava la mano sul collo, e uno del gruppo lo schiaffeggiava sulla stessa mano: quello che “stava sotto” doveva indovinare chi aveva dato lo schiaffo; naturalmente se lo indovinava toccava a questi subire gli schiaffi.
Sempre all’osteria, gli adulti temerari si mettevano un bastoncino nella parte interna del gomito, longitudinalmente al braccio, quindi chiudevano l’arto sfidando il male e il pericolo che il legno si infilasse nella carne; si può immaginare l’impressione che provavo quando assistevo a queste prove. Naturalmente ci si sfidava a Braccio di ferro, non certo nel modo usuale, ma con lo stesso bastoncino infilato ancora nel gomito e chi perdeva doveva subire anche il martirio di sentirlo premere fortemente se non penetrare nella carne.
Uno scherzo abituale era quello di mettere di nascosto della cenere di sigaretta nel bicchiere di vino della vittima; quando questi l’avesse bevuto era sicuro che prendeva la sbornia, con tutti gli altri che aspettavano il momento in cui avrebbe cominciato a comportarsi, diciamo, stranamente. Noi ragazzini ci divertivamo a mostrare i muscoli delle braccia, come facevano all’osteria del resto, serrando i pugni come se si pompassero i bicipiti per ingrossarli; un altro svago era irrigidire il ventre e sfidare un altro a colpirlo forte con i pugni, e in effetti non si sentiva dolore.
Un altro passatempo che mi è rimasto impresso per il suo mistero, era quello di sfidare i presenti dicendo che, con un espediente, quattro ragazzi erano capaci di sollevare con un dito un altro ragazzo disteso a terra. Si faceva la prova, che non riusciva. Però, dopo avere fatto sette giri intorno a quello sdraiato si riusciva a sollevarlo con un solo dito. Lo vidi eseguire davanti all’osteria del nonno, e la scena ebbe dell’incredibile.
Ricordo i cartelli rossi appesi al muro di questo locale: “La persona educata non bestemmia” e “Vietato sputare per terra”; infatti le bestemmie erano come le virgole di un discorso e gli sputi si vedevano dappertutto, quando erano voluminosi si chiamavano “sgargajàde”. Dal soffitto dell’osteria pendevano due lampade, di quelle comuni in quel periodo, costituite da un cerchio smaltato, bianco sotto e viola scuro sopra che, non so per quale ragione, oscillavano sempre. Ricordo a tal proposito gli impianti della luce costruiti con la “treccia”, con i supporti del filo di ceramica, piccoli e tondi, e gli interruttori grossi pure di ceramica con il pulsante che girava.

Dietro al caseggiato dell’osteria del nonno era annesso un bocciodromo. Per livellare il campo si usava un largo tubo da pozzo, che era in disparte pronto all’uso. Là io e Galdino ci divertivamo a nasconderci dentro quando nessuno ci vedeva, o lo facevamo rotolare con uno di noi all’interno. Qualche volta il nonno od altri si accorgevano e ci sgridavano per il pericolo a cui potevamo andare incontro; ma per lo più quel posto era sempre deserto e noi, di ritorno dalla scuola, sgattaiolavamo a lato dell’osteria senza farci vedere, andando a fare le nostre bravate.
A nord del bocciodromo, un piccolo quadrato di terreno era coltivato a pioppeto; sui giovani pioppi si annidavano tra le foglie i “matòni”, i maggiolini, che divoravano le foglie degli alberi; sempre tornando da scuola, io, Galdino e altri bambini ci divertivamo a scuotere le piante per fare cadere questi insetti e, quando con un tonfo sordo raggiungevano il suolo, li prendevamo in mano per ammirarli e poi li schiacciavamo.

Galdino, che frequentava la scuola elementare con il maestro “Arcisèto”, una volta fu sospeso per tre giorni per avere attaccato briga con “Pupo”, un bambino che abitava al di là della ferrovia, rompendogli la testa; papà si arrabbiò ed emise una sentenza, cioè che se Galdino il giorno dopo non fosse stato riammesso in classe sarebbe dovuto andare con carriola e vanga a raccogliere le “boasse” (sterco di mucca) sul viale della chiesa. Ricordo che il giorno dopo, mentre andavamo a scuola, vedevo mio fratello tranquillo, mentre io ero preoccupato per lui e per me perché, senza una ragione, mi sentivo responsabile di quel che era accaduto. Fu accettato e la carriola e la vanga rimasero al loro posto.

Una sera (faceva già buio) tornando dall’osteria, seduto sul ferro della bici con mio padre che portava una sega sul manubrio, facendo la curva per immetterci in strada andammo a finire direttamente nel fosso: colpa della sega che si era impigliata bloccando la sterzata; la sega era di quelle con la lama tesa da una corta tavoletta attorcigliata da un cordino, che veniva bloccata sul telaio dell’attrezzo. Piangevo e a casa mia madre mi disse che dovevo avere delle costole rotte; io mi inorgoglii per avere subito una così grande ferita e per saper soppoprtare tanto male, e non piansi più.
A proposito di bici, veniva a portarci il pane “Mario Trentacoste”, che noi chiamavamo semplicemente “El Moro”, un tipo robusto e scuro di capelli; abitava in un posto indefinito al di là della ferrovia, forse nelle vicinanze delle abitazioni di “Sàtana” e “Bugno”. Arrivava con una grossa bici nera, davanti alla quale era sistemata una grande cesta ovale in vimini, colma di pane. A volte, ed era una gran festa, compravamo anche una pagnotta di pane all’olio, oppure al latte, di quelle attorcigliate, di cui sento ancora il sapore in bocca.

Si usava bere l’acqua nei bicchieri dove vi si versava la “roba che boje”, la citrosodina, così da renderla effervescente, e gli sprizzi freschi e dolciastri bagnavano il naso a noi figli che la osservavamo da vicino; invece le bottiglie da litro, se non i bottiglioni, venivano riempiti d’acqua, con una bustina o due di “Invernizzina”, altra sostanza effervescente che ci dava refrigerio d’estate, che bevevamo a temperatura ambiente per la mancanza del frigorifero.

Le case di Sàtana e Bugno erano situate a circa duecento metri ad est del ponte sul Cornio, un fiumicello su cui passa la ferrovia. Stavano una di fronte all’altra e in mezzo scorreva l’acqua; le univa un ponticello di legno fatiscente che nei più lontani meandri della memoria ricordo di avere visto. “Nini Bugno”, il capofamiglia, era un accanito comunista che partecipava in prima fila alle sfilate del primo maggio con la bandiera scarlatta in mano cantando Bandiera Rossa. Queste sfilate, oltre al valore politico, avevano anche quello folcloristico, per i “compagni” festanti e colorati, con il fazzoletto rosso al collo che, cantando e qualche volta suonando la fisarmonica, avanzavano a piedi per le strade principali dei paesi, con due ali di spettatori che applaudivano.

Nel mese di maggio si usa, ma si usava ancor di più una volta, recitare il rosario nelle varie contrade, in corrispondenza dei capitelli: era il cosiddetto fioretto. Noi ci postavamo al capitello di “Patanàche”, ma solo per chiacchierare con le ragazzine. Ci mettevamo defilati e invece di ascoltare il rosario ridacchiavamo incuranti dei rimproveri delle donne, oppure ci sistemavamo a fianco della ragazzina che ci interessava pregando, ma allo stesso tempo ridendo sotto i baffi. Non vedevamo l’ora che il rosario finisse, per dedicarci ai nostri sollazzi; mi ricordo le litanie che non avevano mai termine e quando si invocava “Regina Pacis” la reputavamo la migliore di tutte, perché era l’ultima.
I “Patanàche”, cioè la famiglia De Marchi, una volta possedeva un grande frutteto composto per lo più di peschi; le pesche venivano vendute ai privati direttamente sul posto. In queste occasioni si verificava sempre un grande assembramento di gente che comprava questi frutti a casse: pesche grosse, bianche, saporite e a buon prezzo, un vero e proprio mercato “privato”. A proposito di peschi, quando ne scoprivamo di malati che espurgavano la “merda di luna”, mangiavamo questa resina che somiglia tanto all’ambra. Nei pressi del frutteto dei De Marchi c’era un campo di granoturco, dove delle zucche, così come dei fagioloni, crescevano spontanee; una volta decisi di rubarne una; ricordo che avevo paura, ma la tentazione fu più forte e mi addentrai nel campo; quando uscii allo scoperto qualcuno se ne accorse e gridò al mio indirizzo qualcosa che non ricordo; arrivò il padrone e io in tutta fretta poggiai la zucca per terra e fuggii correndo a perdifiato, rosso di vergogna.
Lo stesso successe quando rubai dell’erba medica per i conigli che allevavamo in casa: passavo per il campo di “Favarèto”, al di là della ferrovia, e pensai bene di “strappare” un po’ di “spagna”. Attilio, il padrone in persona, se ne accorse e mi raggiunse perché rimasi bloccato dalla paura; stranamente mi disse solo che avrebbe informato mio padre del furto dell’erba medica. Io lo ascoltai mortificato, ma poi, mentre mi incamminavo lungo la ferrovia, non mi preoccupavo: in fin dei conti non erano miei i conigli e certamente papà non mi avrebbe punito.

A quel tempo tenevamo anche delle anitre, che si usava “incocconare” (ficcare a forza il cibo in gola) perché ingrassassero prima. Vedevo mia madre seduta su una sedia davanti casa con il grembiule addosso, che teneva l’anitra, o oca che fosse, per la testa, e tenendo aperto il becco vi premeva in bocca il poltiglione preparato con semolino, ortiche e “pedòco”, il tarassaco. Doveva essere una tortura per queste povere bestie e ancora mi domando come facevano a respirare quando la gola veniva così riempita.

Possedevamo pure due maialini che erano il divertimento di noi figli, per i quali io e Galdino andavamo a raccogliere la “broèja”, l’erba sottile che si aggrovigliava dappertutto, specialmente sulla rete metallica dei nostri orti, che papà ci faceva togliere con nostra grande insofferenza. A proposito dei maiali, eravamo a casa solo io e Galdino quando arrivò un finanziere per controllare se fossero stati denunciati; ricordo che il giorno dopo mio padre andò a registrarli e a pagare le tasse. Ho in mente la scena di un maialino mentre veniva sgozzato da mio padre; l’animale si dimenava sopra il mesoto o qualcosa del genere ed emetteva grida soffocate per un cordino che gli era stato stretto sulla bocca, non ricordo il momento preciso della iugulazione. Ricordo invece due pertiche che pendevano dal soffitto a cui erano appesi “una infinità” di salami, non so se siano stati proprio il frutto di quel maialino ucciso.

Se tenevamo due maiali significava che non soffrivamo la fame, nonostante la guerra fosse finita da pochi anni. Sapevo che la guerra era una cosa orrenda e che ci si moriva; ma la cosa non era così tragica per me se fosse successa ancora, perché avevo trovato un espediente semplice semplice per salvarmi: mi sarei infilato in un largo tombino di qualche passo carraio e sarei rimasto là al riparo finché la guerra non fosse finita; nessuno mi avrebbe scoperto e le bombe non sarebbero riuscite a colpirmi. Trovavo la cosa tanto ovvia e mi domandavo come mai tutti gli altri non avevano fatto come avrei fatto io, cosicché qualcuno era rimasto ucciso.
Altra ingenuità si manifestava quando mi si interrogava se pesasse di più un chilogrammo di paglia o uno di ferro; ricordo ancora la convinzione che avevo: che pesava di più in chilogrammo di ferro ed ero pronto a dimostrarlo con la prova pratica, usando la bilancia.


II

Avevo quattro anni e a quest’età risale il ricordo più tragico della mia infanzia: fu la vista del corpo martoriato di Bruno Piovan quando scoppiò la bomba sul ponte del Brenta in cui morì anche Gabriele De Marchi. Quell’otto giugno del 1952 mi trovavo nel cortile di casa con accanto mio padre e altre due figure che non ricordo; ad un tratto sentimmo uno scoppio tremendo che ci fece trasalire; mio padre si rivolse subito verso di me e mi fece bere un bicchiere d’acqua per lenire lo spavento. Nessuno sapeva cosa fosse successo, ma veniva dal ponte e lui, mentre ci diceva di stare tranquilli, inforcò la bicicletta, dirigendosi deciso in quella direzione. Qui finisce la prima scena che ricordo, la seconda riguarda la madre di Bruno che in bicicletta corre piangendo disperatamente verso casa; e poco dopo la vista del carretto guidato dal padre, con il povero Bruno sopra, immobile, ritto, grondante sangue dalla testa ai piedi, ridotto ad una massa informe che a stento pareva umana. Il carro, il mezzo di trasporto più usato, procedeva lentamente verso l’ospedale di Piove di Sacco, con i curiosi che si erano riversati in strada per vederlo; sembrava che Bruno andasse all’impiccagione. Da quella vista fui scosso in modo tremendo e scappai, andandomi ad infilare sotto la culla di Silvana, nell’unica camera che avevamo, e restai là per non so quanto tempo. Certamente il corpo non dovette essere stato così intriso di sangue e tanto meno immobile come me lo ricordo, anche perché venni poi a sapere che all’ospedale il padre aveva sgridato il figlio per la sua dabbenaggine, non sapendo della gravità delle sue ferite e che il giorno dopo sarebbe morto.
A quel tempo si frequentava assiduamente l’argine del Brenta; Gabriele e Bruno aveva trovato il residuato bellico e insieme avevano cominciato a percuoterlo con un sasso, forse per ricavarne del ferro. Gabriele addirittura ci stava a cavalcioni, tanto che Guido Masiero, il falegname del paese, raccolse i suoi miseri resti per l’argine del Brenta, mettendoli in una cassetta di legno appositamente costruita da lui; si disse che parte di questi resti vennero trovati anche sopra il ponte.
A proposito di Gabriele, qualcuno qualche tempo dopo me lo ricordò, dicendomi che anch’io dovevo averlo conosciuto; ma non mi veniva in mente. Fu qualche tempo dopo che quel viso smunto mi si parò improvvisamente davanti nel ricordo: capii allora chi fosse perché l’avevo visto all’asilo (forse lui era al doposcuola) che evidentemente io già frequentavo.

Nel 1954, proprio davanti casa nostra, avvenne la fondazione della “Corea”: un gruppo di sette casette, due davanti e cinque dietro, costruite dal Comune per alloggiare la gente del “Lazzaretto”. Io questo Lazzaretto non l’ho mai visto, si trattava comunque di un grande fabbricato situato nei pressi del municipio, che dal nome sicuramente doveva servire ai suoi tempi come ricovero degli appestati. La Corea ci occultò così la vista del boschetto e del grande prato. Ma di questo non mi preoccupavo, anzi gioivo vedendo l’attività del cantiere quando queste case stavano per essere costruite, rallegrandomi che gente del centro venisse ad abitare proprio davanti alla mia casa.
Appena gli abitanti si insediarono, il primo bambino che vidi fu “Pasquaìn Patatina”, la cui famiglia venne ad abitare dirimpetto alla nostra abitazione; voleva venire nel mio cortile ed io ero titubante nel rispondergli, data la mia timidezza e lo stupore di vedere facce nuove. Solo questa scena mi ricordo, fatto sta che quello fu il primo approccio con gli abitanti della Corea.
Appena preso possesso delle casette, per mancanza di spirito di adattamento da parte dei coreani iniziarono le liti. Queste si accendevano principalmente la sera, quando i capifamiglia arrivavano a casa stanchi dal lavoro (per lo più facevano gli “strassàri”, gli straccivendoli) e per lenire la stanchezza dei lunghi percorsi in bicicletta con il portapacchi pieno di cenci si fermavano all’osteria, dove spesso si ubriacavano. Noi del posto, che assistevamo in strada allo “spettacolo”, definivamo queste baruffe “interne” quando scoppiavano in seno alla famiglia ed “esterne” quando si accendevano tra famiglie. Ho visto un fratello rincorrere l’altro con un coltello in mano, e questi rifugiarsi tremante da “Giulio Tirarèsso”, mentre quello con il coltello in mano lo minacciava urlando. Ho visto padri ubriachi picchiare i figli e la moglie, figli picchiare i padri, biciclette scaraventate nel pozzo, vetri in frantumi, ragazze che si vituperavano per comportamenti scandalosi e così via. Per questo, a queste sette casette e in seguito all’intera zona, venne affibbiato il nome di Corea, visto che nella Corea asiatica imperversava la guerra civile; dopotutto era quello che succedeva in maniera ridotta anche qui: almeno questa è stata la spiegazione che mi sono portato dietro.
Fu per portare un po’ di armonia che il prete di allora si prodigò per costruire una chiesetta vicino alla casa dei Munci. Ma si fermò alle fondamenta e a qualche fila di mattoni, che vennero smantellati dopo diversi anni. Il motivo dell’interruzione non l’ho mai saputo, forse fu per l’avversione degli abitanti o perché una chiesetta in quella zona non avrebbe convertito neppure un’anima.

Il ricordo ora passa all’asilo parrocchiale dove, a differenza di tanti altri bambini, non piansi il primo giorno che lo frequentai; però rimasi in disparte, avvolto nei miei “pensieri”. Quando dal cortile, dov’erano piantati otto grossi pioppi, vedevo mio nonno passare con la Guzzi rossa caricata di stoffe sul portapacchi posteriore (faceva il commerciante), che si girava verso me e mi salutava, io rispondevo al saluto e allo stesso tempo mi domandavo come facesse a correre così forte, restando per tanto tempo girato nella mia direzione senza andare fuori strada.
Sempre all’asilo, “Coco Corado”, un bambino poco più grandicello di me che abitava nello stesso caseggiato dove sono nato, mi guardava attraverso l’inferriata del finestrino che dava in “sotterranea”, il refettorio, e mi celiava col nome di Pècia. Questo nomignolo mi restò per parecchio tempo, forse fino ai primi due o tre anni delle scuole elementari. Io non me la prendevo nel sentirmi chiamare così, anzi mi trastullavo perché era segno che venivo considerato.

In quegli anni non era raro il caso in cui i bernoccoli crescevano in testa, causati da una botta o una caduta o qualche sasso preso in piena fronte. A proposito di questo, “Vito Rocco”, un bambino di una famiglia che abitava proprio vicino all’asilo, non frequentava la scuola e quando eravamo nel cortile lo vedevamo al di là della recinzione e lo prendevamo in giro perché si distingueva per i “paèri”, cioè il moccio che gli colava dal naso; un giorno mi trovavo a capo di un gruppetto di compagni che costeggiava la mura dell’asilo parlando di avventure, quando lo vedemmo: cominciammo a prenderlo in giro e poi, nel colmo dell’eccitazione, proprio io gli scagliai un sasso da notevole distanza e lo colpii alla testa; ne uscì un rivolo di sangue. Andai subito a nascondermi nel ripostiglio della legna sotto la scalinata dell’asilo e là rimasi finché una suora non mi scoprì, trascinandomi nella cappella del terzo piano a pregare con lei per il male che avevo fatto. Poi, se ben ricordo, mi obbligarono ad osservare Vito con una fascia sulla fronte.
Quella volta me la cavai con poco; ma fu in altre occasioni che subii anch’io la vergogna di dovere essere relegato in ginocchio dietro alla lavagna, la punizione più comminata a quei tempi. Ma non ero certo il più birichino dell’asilo e qualche volta ebbi anche delle soddisfazioni, come quando tutti noi bambini dovevamo fare col gesso un disegno sulla lavagnetta (tale quale quella del gioco delle carte nelle osterie) che come soggetto aveva l’arrivo di suor Rosanna; a mano a mano che i miei compagni presentavano i loro disegni alla suora si sentivano degli scoppi di risa, ma quando presentai il mio, lei cambiò espressione e mi portò con la lavagnetta dalla “Madre Superiora”, al secondo piano, per mostrarle quanto ero stato bravo. Poi non so se da solo o accompagnato andai all’ultimo piano, dove per la prima volta ammirai i Colli Euganei di cui avevo solo sentito parlare.

Su quegli stessi banchi, dove avevo fatto il disegno sulla lavagnetta, sentivo il refrigerio che dava il piano smaltato di nero sulla guancia quando la poggiavo per fare il pisolino, e una volta svegliatomi ammiravo sul pianale il vapore acqueo causato dal mio viso caldo.

La giostra nascosta dell’asilo era per me qualcosa di misterioso e irraggiungibile: tutti ne parlavano, ma nessuno l’aveva mai vista, era come un sogno proibito. Mi immaginavo che fosse qualcosa di fantastico, rotonda, alta, con la quale ci si poteva divertire un mondo. Era rinchiusa in uno dei tanti sgabuzzini, ma non si sapeva quale. Mi vedo lavarmi le mani nel bagno di fronte alla porta di uno questi, che era chiusa a chiave, e per questo la giostra per me doveva essere là dentro; quasi piangevo per non poterla vedere e sicuramente avrò sbirciato attraverso il buco della chiave. Non ho mai saputo per quale motivo questa non fosse mai stata messa a disposizione di noi bambini; rappresentava proprio un mistero, un tesoro agognato e mai scoperto.
Era a quel tempo in cui Madre Lisa, una suora di carnagione scura, si dimostrava affabile soprattutto con i bambini poveri facendosi benvolere e per questo mi è rimasta impressa la sua figura. Proprio qualche anno fa venne per una visita qui a Campolongo e la salutai affettuosamente; rimasi però deluso perché pensavo di provare l’emozione di allora, ma non successe niente.

Ricordo che un anno, in occasione della festa dell’Epifania, ci fu una piccola festa in asilo; ci avevano radunati in atrio per l’arrivo della befana, improvvisamente sentii un colpo che somigliava a un tuono; era la Befana che aveva aperto la “porta” del camino, ci dissero le suore, allora ci precipitammo giù in “sotterranea” dove trovammo dei lunghi tavoli imbanditi. Poi mi vedo a mangiare squisitezze mai assaggiate, ma quel che più mi è rimasto impresso è stato, oltre al rumore, la vista di batuffoli di filo come dei bozzoli che non so descrivere e tanto meno a cosa servissero, certo erano ninnoli; ebbene, mi ricordo che un bambino mi rubò il mio e io, dopo aver mangiato i dolciumi, stetti ad osservare amareggiato gli altri che giocavano con questo oggetto. Mi è rimasto pure impresso l’aroma (non posso definirlo odore, né sapore e tanto meno profumo) che regnava in quell’ambiente durante la festa: lo stesso aroma che per un attimo qualche volta in talune circostanze sento ancora, magari nei pressi di qualche casa mentre preparano da mangiare. La sensazione di questo ricordo mi commuove ogni volta che mi torna in mente e davvero ritorno a quel periodo, rompendo la barriera del tempo.
Non so se sia stata in questa occasione che Galdino e Dino giravano per i tavoli emettendo dei rutti proprio davanti agli altri che stavano mangiando.
Il sotterraneo, specialmente dopo la pioggia, si allagava; da dove entrasse l’acqua non lo sapevo, sicuramente erano infiltrazioni della falda e quando succedeva il livello superava i venti centimetri. Mi vedo con i pantaloncini corti e le gambe nude avanzare nell’acqua gelida, in quel posto oscuro, provando un’emozione immensa. Non ricordo dove andassimo a mangiare quando era allagata, probabilmente nelle due grandi sale superiori.
Nella sala grande di sinistra campeggiava in un angolo sopra la scrivania l’immagine di San Domenico Savio, il pupillo di San Giovanni Bosco; non so perché, mi soffermavo ad osservare delle righe tracciate nell’angolo sinistro in alto della cornice (ma forse erano sulla foto), righe insignificanti che Dio sa perché mi interessavano. Spesso mi domando perché questo santo, da me tanto stimato, non lo senta menzionare; è quello che alla domanda: “Se tu sapessi che improvvisamente devi morire, cosa faresti?”, lui aveva risposto: “Continuerei a giocare”.
A ridosso del muro centrale della sala c’era un armonium, nero brillante, con i due grandi pedali sotto, però sempre chiuso: infatti non l’ho mai sentito suonare.
C’erano due sorelline con me all’asilo: le Niero; erano “ricche” e io, per il complesso di inferiorità che subivo di fronte a loro, provavo una stima morbosa nei loro riguardi, ammirando la loro pelle delicata e i capelli neri. Invece un’altra bambina, la Bissacco, bistrattata un po’ da tutti, il cui padre lavorava proprio dai Niero come bovaro, era ancora più povera di me; ero amico di lei, della quale mi ergevo a protettore sentendomi di un ceto più alto.

Facevo già certamente parte dei “grandi” quando si andò in gita all’asilo di Bojon, il paese oltre il Brenta. Mi ricordo l’attraversamento del fiume, con la suora che dalla riva di Campolongo chiamava il “Passatore” che si trovava sulla sponda opposta. Poi rivedo la scena di lui che ci portava sulla barca remando con la pertica e, se la memoria non m’inganna, una lunga corda era stesa come guida da una sponda all’altra del fiume. Una volta giunti all’asilo, noi bambini salimmo un enorme scalone e all’improvviso mi si parò davanti un grande affresco, che mi è rimasto sempre impresso, forse per le sue dimensioni, forse per la bellezza. Tempo fa ebbi occasione di andare in quella scuola e, con grande meraviglia, rividi lo scalone e un affresco restaurato, che certamente doveva essere quello di quel tempo; ancora una volta, come per Madre Lisa, non provai le emozioni dell’infanzia.

Le passeggiate usuali erano quelle che dall’asilo ci portavano lungo il viale costeggiato da grosse robinie, verso la chiesa; là pregavamo. Qualche volta facevamo un giro più lungo e tornavamo per la stradicciola, che ora è Via Lago di Misurina, e l’euforia si sprigionava da noi tutti. La gente che ci osservava certamente si deliziava nel vedere questi bimbetti, con il grembiule azzurro sopra i calzoncini corti e i colletti bianchi; ricordo tuttavia che non vedevo l’ora di andare alle “elementari” per indossare quello nero, segno che ero diventato grande. Eravamo in fila indiana o per due, che parlottavamo, sorvegliati da una suora vestita di nero davanti e una dietro. Respiravamo l’aria primaverile godendo di quel diversivo e giunti nei pressi della chiesa mi auguravo che si ritornasse senza entrarvi, o quanto meno che la funzione durasse poco. Un altro neo di questo diversivo era dover prendere per mano la più bruttina o bruttino dell’asilo e portarselo appresso fino al rientro.

Sempre all’asilo, una sera fu inscenata in cortile una rappresentazione teatrale con tanto di palco e quinte; c’era anche mia sorella Silvana e mia cugina Lucia che recitavano; rivedo sul palcoscenico dei bambini immobili e delle bambine con le gonne colorate larghe. La meraviglia fu che intervenne anche la televisione per riprendere l’evento, con un’antenna “gigantesca” che ricordo come un traliccio, che si ergeva in un angolo del cortile, con la cabina di regia sotto e tanti monitor sparsi per il cortile.

[continua]

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