Opere di

Roberta Gramatica


Con questo racconto è risultata 7^ classificata ex aequo – Sezione narrativa VII Edizione del Premio di Scrittura Creativa dedicato a Lella Razza 2011


L’Agata

“Se ha un buon motivo per voler essere morto, che lo sia” aveva esclamato Agata all’annuncio del trapasso di Umberto. E, sebbene ancora poco confidente riguardo all’accaduto, il giorno del funerale si era infine decisa a indossare l’abito di vedovanza e a recarsi in chiesa. La separazione con Umberto risaliva a parecchi anni prima, ma che tra loro ci fosse stata un’intensa unione era cosa nota agli occhi di tutti. Soprattutto ai quattordici occhi dei sette figli ai quali avevano dato vita, ora sparsi qua e là per il mondo.
Per raggiungere la prima fila che, presumibilmente per l’ultima volta – almeno da viva – le sarebbe spettata di diritto, Agata aveva preferito passare dalla sagrestia. In quel modo, oltre a evitare lo sguardo dei presenti già accomodati, avrebbe potuto lanciare la solita occhiata a Don Ignazio. Questi, un uomo sulla cinquantina dal braccio energico e lo zigomo mobile, da qualche tempo soffriva di un’insolita forma di allergia alla combinazione di alcuni componenti acrilici. Il fatto gli impediva di indossare alcunché sotto la tonaca talare, al punto che, nel prepararsi alle celebrazioni, aveva dovuto rinunciare all’aiuto della perpetua, una sessantenne da sempre dedita alla preghiera e poco esperta di questioni maschili.
Dopo una tonificante sbirciata, Agata abbassò prima la veletta e poi lo sguardo. Quindi fece ingresso nella chiesa, con il pensiero rivolto alle sue costose décolleté in vernice e con il forte rammarico di doverle sprecare in quell’occasione.
Raggiunta la panca più prossima al feretro e trovandola occupata, si voltò verso quella opposta, ma anche lì una fila di donne vestite di nero e con il profilo imbronciato, stava seduta con la schiena eretta e le labbra strizzate. Agata toccò la spalla della prima, facendole segno di spostarsi. La donna rispose con espressione di disappunto. Poi, facendo leva con le mani sul corrimano dell’inginocchiatoio, come se al posto del fondo schiena fosse dotata di una testa di ariete, iniziò a spingere tutte le altre. Rapidamente la fila si contrasse creando lo spazio per un paio di altre natiche. Accomodatasi, Agata iniziò a riflettere. Forse anche lei avrebbe potuto rendere utile il suo posteriore e spintonare come aveva visto fare alla sua vicina. Se si fosse impegnata, magari avrebbe fatto finire a gambe all’aria qualcuna delle abusive luttuose sedute lì accanto. Ma l’ingresso di Don Ignazio e il naso gocciolante di sudore della donna ariete, probabilmente conseguenza dello sforzo appena sostenuto, la fecero desistere dall’intento. Con una rapida occhiata, mentre il sacerdote con studiate pause posizionava il microfono, attento a far intuire la potenza del bicipite, Agata ispezionò i volti dei presenti. Poche le facce conosciute. La funzione iniziò. “Mi scusi” bisbigliò Agata, girando leggermente il volto verso l’uomo dallo sguardo annoiato che aveva notato dietro di lei “è qua per l’ultimo saluto all’Umberto?”. L’uomo, che con molta probabilità aveva deciso di partecipare alla cerimonia funebre come unica soluzione possibile a una giornata senza altra meta, con un’onestà della quale sarebbe dovuto andargli merito, ammise di ignorare l’informazione. “Non saprei dirle, cara signora” rispose con tono sommesso mentre con il busto si sporgeva in avanti. “Potrebbe anche essere, ma non potrei giurarglielo” continuò. “È così importante sapere chi siamo venuti a piangere nel giorno della sua dipartita? Magari un uomo solo, senza affetti, che grazie a uno sbaglio potrebbe invece trovarsi ricoperto di attenzioni, proprio in occasione del saluto estremo. Questo suo Umberto, era un uomo solo?”. Agata socchiuse gli occhi e mentre si preparava a una risposta, il coro intonò il Kyrie. Non avendo più tempo per replicare riportò allora lo sguardo verso l’altare, ringraziando iddio per averle evitato di mancargli di rispetto proprio dentro alla sua dimora.

Terminate le prime letture, Don Ignazio si avvicinò al pulpito per la commemorazione dell’estinto. “Care parrocchiane e cari parrocchiani, oggi abbiamo perso un uomo che tanto è stato amato e tanto ha amato, senza mai risparmiarsi”. Un ansimato sibilo di assenso si elevò dalle prime due file delle donne in nero. “Ha dato amore alla sua famiglia, ma anche alla nostra comunità, fatta di figli, mogli, donne, mariti”. “Tutti cornuti” pensò tra sé Agata cercando poi di sviare il pensiero su quanto le fossero costate le décolleté nuove e come sarebbe stato spiacevole rovinarle. “Esempio di franchezza e di abnegazione nei confronti del prossimo” proseguì il sacerdote alzando sempre di più il tono di voce e gonfiando i pettorali “al punto da fingersi in fin di vita per mostrare solidarietà a un amico, luì sì, povero diavolo, con i giorni di vita terrena agli sgoccioli”. Un secondo sibilo di approvazione confermò i fatti. Anche Agata ricordava bene quell’episodio. Era accaduto una sera mentre lei era fuori paese, per delle commissioni dalla madre. Con la scusa di una momentanea indisposizione, Umberto aveva chiesto alla Vanda, moglie del Barbetta, il povero diavolo con pochi giorni di vita, con la quale se la intendeva da un po’, di portargli un piatto di minestra calda. Ma quella stessa sera anche la Rosina, che aveva sentito dell’indisposizione dell’Umberto, aveva pensato la stessa cosa. E così la Rina, la Luigia e l’Ortensia. Tutte che se la intendevano con l’Umberto, l’una all’insaputa dell’altra, ma sempre da un po’ di tempo. Trovandole unite al suo capezzale, armate di brodaglie fumanti, l’uomo aveva allora finto un irreversibile malore, ben determinato a non assistere al finimondo. E solo quando aveva ritenuto che il rischio della vendetta femminile fosse stato scongiurato, improvvisamente era resuscitato, spiegando l’evento, a chi glielo chiedeva, non come miracolo, ma come puro atto di amicizia nei confronti del Barbetta, perché, diceva lui, anche di fronte all’estrema dipartita, mal comune può essere mezzo gaudio.

Agata voltò lo sguardo prima verso le donne vestite di nero alla sua sinistra, poi verso quelle di destra. Non c’erano né la Rosina, né l’Ortensia e neppure una delle tante altre amanti dell’Umberto. Ritornata con gli occhi sulle scarpe, pensò allora che quelle dovevano essere le più recenti, che lei non aveva conosciuto.
Con un tono adatto a un presentatore di cabaret piuttosto che a un funzionario di Dio, Don Ignazio diede il via alle commemorazioni del defunto. Pregò di recarsi al microfono chiunque dei presenti volesse ricordarlo con parole personali. Al leggio si presentò per primo l’uomo annoiato seduto dietro l’Agata. Fedele alla sua onestà, ammise di non aver mai conosciuto il cadavere – questa fu con precisione la parola da lui utilizzata – della qual cosa però se ne rammaricava visto ciò che di lui era stato detto. Terminato l’intervento Agata lo osservò ritornare alla panca, con passo saltellante e sguardo inaspettatamente redivivo. Poi fu la volta di Brigida, la bidella della scuola elementare frequentata dall’Umberto, l’unica donna del paese sulla quale Agata si sentiva di escludere alcuna intesa passionale con l’ex marito.
Ritornò quindi a osservare le donne alla sua destra e alla sua sinistra, pronta a cogliere ogni minimo movimento che potesse farle intuire una volontà di intervento da parte loro. Ma tutte sembravano ferme, immobili come corvi su un filare all’ora del tramonto. E solo quando Don Ignazio, gonfiando di nuovo i pettorali, rinnovò l’invito ai parrocchiani a esprimere il proprio cordoglio, queste ripresero ad ansimare con sibilo di compiacimento. Fu allora che Agata si alzò, si dispiegò la gonna del tailleur, e si diresse lentamente al leggio. Lì, tutti gli sguardi rivolti a lei, si piegò sulle ginocchia e con il palmo della mano si spolverò le scarpe in vernice. Poi, sfilandole dai piedi, le afferrò con le mani e si rialzò. Levò il braccio destro, lo spinse dietro le spalle quasi a prendere la rincorsa e, mirando la fila di donne alla sua sinistra, scagliò la prima scarpa. Poi la stessa sorte la riservò con la seconda alle donne di destra. Di fronte allo sbigottimento generale, corse poi scalza verso il pulpito, forse per un secondo assalto – impossibile prevedere con quali munizioni – o forse per proteggersi dagli occhi allibiti dei parrocchiani. Le donne nel frattempo si erano alzate e, prima lentamente, poi freneticamente, si diressero verso Don Ignazio, reclamando protezione morale e fisica da quella femmina invasata, senza perdere l’occasione, in tutta quella confusione, di tastare con generosità pettorali, bicipiti e glutei del sacerdote.

Dopo quel giorno, di Agata, in paese, non si seppe più nulla. Riguardo all’uomo con lo sguardo annoiato, pare invece che da quel dì presenziò ad ogni funerale celebrato nella zona. Circa le donne vestite di nero o di azzurro, a seconda se si trattava di funerale o di matrimonio, esse continuarono nelle loro assidue frequentazioni parrocchiali e nella loro competizione per chi ricevesse il maggior numero di sguardi da Don Ignazio. Questi, dal canto suo, trovandosi con una nuova perpetua, sulla trentina, guarì miracolosamente dalla sua allergia. Per tutto il resto del paese, si sa che quel giorno venne ricordato a lungo. Per lo scalpore di come fosse stato infangato l’addio a Umberto, lo spazzino che non essendosi potuto fare una famiglia sua per mancanza di virilità, si era sempre preso cura di quella degli altri. E per il clamore che si era levato, nelle stesse ore, alla vecchia parrocchia di frazione Caglie, ormai fuoriuso e utilizzata solo in caso di sovrapposizioni di funzioni, quando l’Agata non si era presentata al funerale dell’ex marito, ex autista di autobus, che sebbene fedigrafo, pur sempre padre morto di sette figli lo era davvero.

Roberta Gramatica



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