Roberta Petraglia con l’opera «Un incarico in Valle Stura» si è classificata al 4° posto alla XV Edizione del Premio Letterario Internazionale Il Club dei Poeti 2011
Questa la motivazione della Giuria: «La “necessita umana di ricordare” in un racconto suggestivo che riconduce alla navigazione delle ultime navi a vapore che diventa testimonianza della fine di un’epoca. Roberta Petraglia, con una scrittura densa d’atmosfere legate al tempo andato, offre la sua storia e, tra il salmastro di Genova e il sapore nostalgico, emerge prepotente il valore della memoria».
Massimo Barile
Un incarico in Valle Stura
Nel silenzio freddo della foschia il sole esalava un tiepido respiro.
Lo scafo del leudo, proteso ad assorbire il pallido mattino, navigava in rada, ingoiando senza fretta le tenui luci del porto, con l’oscurità di una notte stellata sulla pelle, a far da scialle.
Il giorno prima il “Leonidas”, col suo carico proveniente dalle cave di ferro dell’isola d’Elba, era salpato alla volta di Genova, da dove sarebbe ripartito non prima di un’importante ambasciata nell’entroterra per conto di un nobile, proprietario di rinomate vigne.
Il capitano m’incaricò di seguire il condotto dei carri lungo la “Via del ferro”, col compito di prelevare un pregiato cancello presso la bottega di un fabbro piuttosto conosciuto.
Era allora in voga, nelle residenze di un certo prestigio, commissionare inferiate ed altri arredi agli artigiani della Valle Stura come raffinato indizio di potenza e gusto.
I rimorchiatori del porto andavano incontro alle navi in rada per traghettarle al molo.
Non era consuetudine del Leonidas, imbarcare un “pilota del posto”, dove abitualmente si faceva scalo, ma era prassi che a bordo rimanesse un uomo pratico del fondale, in assenza di uno degli ufficiali esperti, per questa ragione avevamo richiesto alla capitaneria una persona del luogo.
I gabbiani annunciavano la terra ferma come agli uomini sulla riva presentavano, con ampie ali spiegate, il mare.
In porto, i “camalli” sgombrarono le stive dal carico e dopo il passaggio di consegne con il nuovo pilota, seguì la parte doganale.
Rimasi a terra per partire col primo convoglio verso la Valle Stura, il mattino successivo.
Le case e le vie sembravano sbiadire lentamente nella sera afosa, irrespirabile, che stiracchiava le membra sulle terre e il porto.
I palazzi stretti dei vicoli paralizzavano l’aria con le loro ombre gigantesche.
Fuori dagli antri oscuri dei portoni, che parevano entrate d’inferno, sedie impagliate.
I vicoli afferenti la darsena, i moli e i magazzini, apparivano come fili di una matassa aggrovigliata dalle zampe di un gatto randagio attorno alle case, accatastate come casse di alici.
Dalle persiane spioventi s’ intravedevano gli interni, di giorno in ombra: tende e mobili massicci da camera o da soggiorno e letti alti e stretti con grandi spalliere scure, più raramente, in ferro battuto.
Il mare parlottava placido, nella vasta conca di metallo liquido, malinconia in salamoia dalla quale sgusciava via l’ultimo raggio di sole, ritraendosi asciutto.
Una strana fuliggine, dal sapore di legna bruciata, annebbiava la vista.
Antichi fasti e vecchie miserie apparvero sprovvedute ai margini stretti dei “carruggi”.
Pernottai in una locanda dall’intonaco scrostato come tutte le altre case lì attorno e subito mi avvolse una saliva di fumo di quel tabacco forte, arso o biascicato che restava sulla pelle e sulle labbra come una vernice scura.
L’arredamento si basava su alcuni tavoli e sedie, logori nel legno ormai consunto, oggetti privi di lucentezza, come la tenue fiamma delle candele che invano brandivano quel poco di fuoco per tagliare la penombra.
Percepivo un passato stanco dentro il presente, ineluttabile passaggio di consegne ad un progresso alle porte.
Il tempo era scivolato sulle spiagge da una clessidra rotta, i granelli grigi dei secoli attendevano inermi, si posasse la buia coperta della modernità.
Un becchino di cemento avrebbe tumulato il mondo di legno calafatato e vele, gomene e funi, vapore e cuoio, pescherecci sulla spiaggia e ceste di vimini, case di pietra e ardesia sul ciglio del tempo.
Quel che eravamo salutava per imbarcarsi sull’ultima nave a vapore e sparire nella nebbia, perdendosi come reti in mare, cariche di ciottoli di strade dimenticate, precipitate nel fondo.
Nessuna riva, né margine tra la mia generazione e quest’universo, né porti che ci scamparono dal naufragio di un’epoca colma di storia e giunta ormai alla fine.
Forse eravamo gli ultimi testimoni, destinati a chiudere le stive dell‘ottocento e salpare con destinazione memoria.
Sopra la targa di un secolo in bottiglia, apponevamo l’ultimo zero nella data “millenovecento”, azzerando la storia e suggellando l’oblio.
Il giorno seguente scesi ai magazzini.
Sulla banchina si preparavano le diligenze che sarebbero partite per ogni direzione con le più disparate mercanzie, c’erano carri recanti la scritta d’importanti botteghe artigianali, un pullulare d’uomini cercava ingaggio come scaricatore o come mozzo e vecchi pescatori.
Per loro, le reti da rammendare di fronte al mare, erano la malinconica grata di corda per un vigore sfiorito troppo in fretta, scivolato tra i flutti.
Chiusi in tasca, i ricordi di quelle notti blu: la pesca, le reti buttate al largo nello sfarfallio della luna, dove ogni tanto il luccichio di una stella bucava il cielo e pungeva l’anima.
Seguimmo una strada piuttosto trafficata che costeggiava il mare, come un’arteria vicino al suo cuore.
Pittoreschi borghi alternavano il loro colore ai campi ben curati.
Una corona di monti afferrava tra le braccia tutte le cose, sostenendo sulle ginocchia delle spiagge, le più prossime a scivolare dalla sua presa.
I tetti grigi sembravano di sabbia oppure la spiaggia era un tetto del mare: l’ardesia dominava la cromatura e sembrava riflettersi sull’arenile.
Proprietà più signorili trattenevano un decoroso riserbo oltre le massicciate di pietra intonacata.
Si spandeva nell’aria fresca l’odore dell’alloro e del rosmarino sferzato dal sale e sugli orti sabbiosi troneggiavano cespugli d’ortensie e insidiavano l’intonaco carezze spinose di languide rose.
Ginestra e citronella, accanto alle case, al bacio del sole schiudevano preziose fragranze.
A precipizio dai monti spogli, battuti dal vento, calavano le ombre, dileguandosi in mare: il mattino si spogliava della notte, alla maniera di levarsi il buio cominciando dal cappello.
Sopra le teste delle colline, il sole placava d’oro gli sparuti arbusti; meravigliosa, bionda signora, di grigio vestita, Genova rivelava la sua superba bellezza.
A Voltri lasciammo il mare alle spalle, ammiccante di sole.
Il tragitto constava di stradine appese come mensole, su cui transitava la vita, formiche gli uomini, tra briciole di terra e pietre che l’acqua frantuma e tracima.
I letti dei torrenti contendevano il calpestio, come nastri d’acqua srotolati d’improvviso dal loro nottolino sorgivo e valloni a pusterno in cui è stipata la notte che riposa di giorno.
Pareva di penetrare, a cavallo di un coltello, nella carne viva della montagna e vedere scorrere i suoi vasi.
Arrivati a destinazione mi chiesi come quella gente potesse abitare in un posto così inospitale, in cui il sole cade a gocce e richiude la boccetta.
I massi incombevano e i torrenti minacciavano di travolgere case, botteghe e fienili come scrosci di tempesta sul ponte del Leonidas.
Il convoglio si era assottigliato dileguandosi per le varie destinazioni, io avevo seguito solo la fornitura che posava piede a Masone, dove alloggiai una notte, prima di ripartire col manufatto.
Tra gli avventori conobbi diversi commercianti che curavano affari nel Monferrato e nelle vallate attigue .
Si lamentava, a quel tempo, una riduzione del mercato a causa del forte spopolamento delle campagne.
L’ emigrazione aveva lasciato cumuli di pietre abbandonate, intere comunità erano partite a cercar fortuna nelle Americhe, rimpinguando di fame e speranze le stive dei bastimenti.
Tempo addietro la filossera aveva bruciato le vigne, ora il prezzo del “carbon coke” spegneva le fucine e lasciava muti l’incudine ed il maglio.
Avevo necessità di una coperta per la notte, così l’oste mi chiarì che questo freddo era l’effetto delle case moderne: ai tempi di suo padre non ci si vergognava ad usare lo sterco come isolante, sotto la calce.
Mi resi conto che anche quella società laboriosa, storia nella storia, straordinaria forgia di uomini da lavoro, sarebbe tramontata, basandosi su equilibri diluiti come zollette nell’amaro miraggio della partenza, figlia d’ogni disperazione e madre di tutte le speranze.
Le cartiere, un tempo provvigione del Parlamento Britannico, sarebbero divenute nota storica su carta scadente.
Così, l’unica testimonianza della vita attorno alle macine, gli essiccatoi, le ghiacciaie, l’edilizia tipica, le strade con i carretti, le falegnamerie, i torni, i frantoi, i mulini, sarebbe finita nelle ricostruzioni in miniatura dei presepi, investendo speranze sulla “necessità umana di ricordare”.
A ritorno, la fessura tra gli Appennini si schiuse come una conchiglia e davanti a me brillava il mare.
Ogni volta che approdiamo a Genova, il ricordo s’inserisce come una mano a coltello tra le fessure di quelle montagne, separando i giorni che si accumulano e sento il vento sussurrare silenzio tra la rovere, il faggio e il sorbo arrampicati.
L’indomani l’ancora lasciò il fondo.
L’avorio lunare sbiadiva nel miraggio rosa dell’alba e mentre la prora puntava il nastro chiaro dell’orizzonte, il Leonidas era nuovamente pronto a far vela…
Roberta Petraglia