Il prato delle lucciole

di

Roberta Zaccagni


Roberta Zaccagni - Il prato delle lucciole
Collana "I Salici" - I libri di Narrativa
15x21 - pp. 112 - Euro 8,80
ISBN 88-6037-046-9

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Introduzione

Se qualcuno dovesse cercare fra queste pagine persone precise o vicende realmente accadute resterà deluso. O meglio, qualcuno tenterà di farlo e, forse, crederà di aver trovato ciò che cercava. Erroneamente.
Fra le righe palpitano vite che alla storia hanno dato lo spunto, dietro parole aleggiano spiriti che, ad esse, hanno dato l’ispirazione.
Certo, non si può parlare di ciò che non si conosce e, lo ammetto, qualche ambiente assomiglia terribilmente ai luoghi dove andai ancora bambina, alcuni personaggi hanno i medesimi tratti di persone che realmente ho incontrato, e qualche nome è perfino sopravvissuto alla rivisitazione cartacea della vita. Che volete farci, sono pedaggi da pagare per un nostalgico viaggio a ritroso nel tempo. Ma sapete, la magia della scrittura sta proprio in questo: può compiere ciò che non è accaduto, e cambiare ciò che non è andato così come tu avresti voluto. Per ciò vi dico: trattasi di un fantastico percorso, mai realizzatosi negli esatti termini con i quali qui viene esposto e narrato con la passione di una inguaribile sognatrice: la sottoscritta.

***

Volete sapere di cosa si tratta, prima di addentrarvi nella lettura?
Ve lo dirò, con la speranza di condurvi, da qualche goccia, all’intero vasetto di marmellata.
È la storia di una donna. È la vita di una donna che comincia lì dove la sua adolescenza ha avuto inizio. Romanzo d’iniziazione, ma anche di memoria. Una penna attenta scava nei percorsi tortuosi di una mente che è femmina e scopre cose che è opportuno non dire.
Vita vera, amore vero, molta concretezza e poche filosofie.
Ho attinto ad una fonte di gioia e di piacere: la giovinezza, con le sue passioni indomite e i suoi indimenticabili errori. Luogo del tempo che è sempre bello visitare, perché rigenerante e sempre foriero di nuove energie.
Già i nostri giorni sono sazi di violenza e dolore, squallore e crudeltà... Pensate se anche le nostre sere lo diventassero, qualora su comodi divani leggessimo pagine impregnate di questa materia indigesta…
Che tristezza sarebbe…


Premessa

È da molto tempo che devo scrivere questa storia.
La porto dentro di me da anni, convivo con lei. La penso ogni giorno, svolgo e riavvolgo il nastro della vicenda e nulla mai cambia.
È giunto il momento che metta per iscritto quello che è accaduto, o impazzirò di certo.
Una volta ho anche iniziato: ho preso carta e penna e cominciato con passione, ma la vita mi ha distolto dal mio intento e dai miei sogni brutalmente, senza lasciarmi neppure il tempo di replicare. Ogni volta c’era qualche cosa di più urgente, qualche evento tempestoso giungeva a reclamare la mia attenzione.
Quanto tempo può la vita dedicare ai pensieri più profondi, quanti minuti ad ascoltare il proprio cuore che canta, quanti istanti per fermare sulla carta e per la memoria emozioni memorabili o ricordi deperibili?
Penso a me stessa bambina e a un quadernino a righe per la terza elementare che tenevo stretto fra le braccia. Erano già i miei sogni. Il mio primo libro… Andavamo in vacanza in montagna ed io mi rifugiavo spesso nelle ore più calde dopo il pranzo sulla terrazza di casa, mi rannicchiavo in un angolo e scrivevo su quel quadernino a righe.
Cominciava così:
“Roberto è nato nel 1935, in un paesino sulle rive del Po. Ha visto la guerra e la miseria, la disperazione e la fame…”
È più facile forse per i bambini evadere dalla realtà, creare uno spazio tutto proprio dove…. fare cosa?
Lasciar correre libera l’anima!
Anche il gioco è uno spazio magico che vive di regole proprie, dove tutto è possibile. E nessuno toglie un gioco a un bambino. Ma pochi sono i giochi concessi ad un adulto…
Le frasi più ricorrenti di mia madre, che disperata reclamava la mia attenzione, allora erano: “Scendi dalle nuvole bambina!”, oppure “Vuoi mettermi a fuoco?”. Quel libro favoloso che stavo leggendo, quello di turno, non voleva proprio staccarsi dalle mie gambe, e veniva con me a tavola, o meglio, nascosto sotto la tavola.
Per gli adulti non è così semplice. Col tempo perdi, o rischi di perdere la capacità di giocare, sono tutte sciocchezze, giungi a pensare,e diventi quel concreto essere che risolve problemi, aggiusta macchine, scala le montagne, guarisce malattie, ma che non vola più.
Non sei più capace di volare.


Il prato delle lucciole

Cap. 1

Vorrei presentarmi.
Vi sto già parlando da un po’ ed ancora non conoscete il mio nome. Mi chiamano Baby, sono una donna con delle cose da dire. Non sono più una bambina da un pezzo, nonostante il nome, ma non sono ancora una donna matura, o non mi sento tale. Sono piacente? Non saprei dirvi. Forse. A qualcuno sono piaciuta, ad altri no. A chi apprezza lo sguardo lontano in un corpo un poco androgino, dal seno piccolo e le gambe affusolate. Ho conservato quel quadernino a righe. Chissà perché. Perché mi portasse fortuna e tenesse vivo qualcosa in me. Forse.
So ancora volare?
Una cosa alla volta. Cominciamo dall’inizio.

***

Ha cambiato la mia vita coll’irruenza del suo incedere. Ha segnato il momento di transizione, quel delicato passaggio che da bimba ti trasforma in donna e non sai come sia potuto accadere, semplicemente senti diversamente.
Avevo quattordici anni e un’esperienza fatta tutta di libri, ricci ribelli al pettine e una mente libera, pronta a nuove avventure. Un po’ maschiaccio, femmina in un cuore senza fronzoli. Quattordici anni e nessun fidanzato, nessuna conoscenza della vita vera che si apriva paurosamente davanti a me. Oh, mietevo vittime, questo sì, ma la cosa non mi toccava minimamente. Avevo la crudeltà della giovinezza. Aspettavo d’innamorarmi, desideravo innamorarmi e poco importava se adolescenti imberbi facevano follie per me: io non sentivo nulla. Che andassero a rivolgere altrove quelle lacrime, quelle poesie, quelle serenate: io non sentivo nulla.
Certo sarebbe stato bello se…, ma non importava. Aspettavo qualcosa.
Io stavo aspettando qualcuno.

***

“Mamma!”.
Mia figlia interrompe il giro dei miei pensieri, andati così a ritroso nel tempo. La guardo e penso a me stessa bambina. È come me, o meglio, così come io ero alla sua età, con gli stessi ricci ribelli, che non voglio pettinare, e una gran voglia di giocare, un po’ da maschio.
Mai domare una natura selvaggia.
Voglio lasciare che mia figlia diventi quel fiore che il germoglio racchiude in sé, voglio nutrire quel germoglio, aiutarlo a crescere e non cercare di plasmarlo in qualcosa che sarebbe altro.
Vorrei che crescesse libera. Libera dai pregiudizi e dalla mediocrità, dai si deve o bisogna. Libera nella mente e nel corpo.
Penso e mi rimetto in discussione.
Non ero molto libera da bambina. C’erano molti si deve e bisogna, ma pregiudizi no. Quelli non ci toccavano.
Sapevo distinguere una cosa dall’altra, scegliere nel mucchio, distinguermi dalla massa. “Se credi che sia cosa giusta, allora falla! Anche se alla gente non piace. Fregatene di ciò che pensano gli altri!” diceva mio padre, insegnandomi così a non essere come tutti e nel contempo ad essere me stessa.
Ho conservato questo messaggio nel cuore e vorrei trasmetterlo alla mia bimba potenziato dall’abbattimento di nuove frontiere.
Vorrei che avesse altre libertà, altre possibilità, mille altre. Mille ed una ancora, se possibile. Chissà cosa riuscirò a fare, chissà quale, di questi buoni propositi, riuscirò ad attuare! La strada è ancora lunga da percorrere, il mestiere del genitore così difficile e, insieme, così illuminante.
Voglio far luce.
Luce sulla mia vita.
Su quello che sono stata e che oggi sono.
Sul senso che hanno avuto i passi che mi hanno portata fin qui.
Per poter poi far luce a lei ed insegnarle il cammino.

***

Riprendo a scrivere che è già calata la sera.
Dalla finestra non vedo che il buio assoluto, interrotto solo qua e là dall’intermittenza di piccole luci volanti. Trilly è passata or ora di qui, ed ha lasciato la sua polvere di stelle come scia luminosa. Con quella addosso posso anche volare, se voglio, come Peter Pan…
Che magia le lucciole! In una notte d’estate, avvolta dal nero più nero che esista, posso pensare che tutto sia possibile, posso seguire quella scia luminosa.
Per un attimo, smetto di scrivere e chiudo gli occhi.
Dove si dirigono quelle luci? Dove mi porteranno?
Un poco già la mia mente lo presagisce ed ho un attimo di smarrimento. Vorrei dire – “No!” – ed aprire gli occhi, ma un dolce abbandono ha invaso il mio corpo che non risponde.
Butto indietro la testa e mi tuffo senza difese nel flusso di ricordi che ormai mi invade. Ecco. Mi sembra già di vedere qualcosa.
Sì. È l’inizio. Silenzio in sala!
Il film sta per cominciare…


Cap. 2

La compagnia si spostava con un solo corpo per le vie del paesino. Il raduno era per le 20.30, dopo la cena, alla vecchia fontana di tufo. Oramai c’erano tutti, si poteva andare. Poco importava dove, purché fosse insieme. Michi aveva in mano il solito coltellino e sembrava particolarmente taciturno quella sera. Non appena fermi, avrebbe subito iniziato a lavorare qualche pezzo di legno, con l’aria di non ascoltare nessuno. Il suo corpo gracile e lungo lungo, in cui troppe parole avrebbero inciampato, precedeva il resto della ciurma e ad essa dava il giusto ritmo dell’andatura.
La Rossa era tutta scarmigliata, come al solito, con un vestitone enorme che infagottava vergognosamente il suo corpo prosperoso. “Sono fuggita ragazzi, ma devo assolutamente rientrare per le 10.30 altrimenti sono guai!”. La madre lavorava, e a lei toccava il compito di fare la donna di casa. Era la più grande di noi ragazzi e già sembrava affacciarsi al mondo degli adulti.
Bruno, l’Orso buono, aveva sulla spalla la radio che sempre accompagnava i nostri ritrovi. Aveva quattordici anni anni e i peli di un uomo fatto, il nostro orso bruno. “Luna! Luna non essere arrabbiata, dai non fare la scema…”.
Attraversavamo il paese a suon di musica, gli adulti si giravano a guardarci sorridendo. Era ancora presto e non disturbavamo il sonno di nessuno.
Nella piazza del paese il bar con gli avventori intenti al loro gioco, come ogni sera. Lavoratori che fuggono lo schiamazzo dei figli insieme alla noia per una moglie ormai solo madre. Vecchi con il bicchiere in mano. Sguardi stanchi sulla strada polverosa del sole della giornata. Sguardi polverosi e stanchi. Un velo grigio sugli occhi di quegli uomini ovattava il sorriso spuntato al nostro ingresso.
Ci fermavamo un attimo qui, quasi ogni sera, per salutare Cindy, la bella Cindy che lavorava dietro al bancone d’estate per mantenersi agli studi. Bella e brava Cindy, con troppo poco tempo per noi. I ragazzi erano quasi tutti innamorati di lei…
“Che fate stasera?”.
“Molla tutto e vieni con noi bellezza”, prova Bruno con decisione.
“Si va per lucciole! Prendiamo il sentiero dietro le vigne e via! Caccia grossa questa volta”.
“Eh dai, non mi tentare. Ho ancora tre ore di lavoro qui. Domani mi raccontate com‘è andata, vero Baby?”.
Mi metteva soggezione Cindy, troppo perfetta, troppo tutto per me. Io sentivo che, con lei, non ero me stessa. La sua presenza metteva come in sordina la mia voce, la sua voce immobilizzava la mia ancora fragile natura in trasformazione. Stranamente lei cercava me, la mia amicizia e solidarietà. Aveva un disperato bisogno di essere ascoltata, e io sapevo farlo.
Abitava vicino alla mia casa e il pomeriggio era bello trovarsi a piccoli gruppi per parlare. Cindy trovava me. Io stavo attenta ai suoi lunghi discorsi e davo dei consigli da mini donna, ma era lei quella che viveva davvero, lei quella che io invidiavo da sempre, pur volendole bene. Io, ragionando, sapevo quello che sarebbe stato giusto fare e quello che no. Lei mi ascoltava con occhi attenti, rideva oppure piangeva a seconda dei casi.
Infine agiva, lontano da me e dai miei fianchi bambini.
Nel grande gruppo la sera non mi era possibile sostenere il suo confronto e ammutolivo, rendendo silenti anche i miei passi. Io non c’ero. Svanivo nel nulla.
In quel periodo però lavorava al bar. Le volevo bene, ma ero contenta. Finalmente libera dagli invisibili vincoli che la sua presenza creava, dal controllo per me feroce dei suoi occhi, dalla sua voce che mi rendeva muta.

***

Quella sera avremmo giocato, corso nei campi. Io, Michi, Bruno e la Rossa, non ancora uomini o donne e non più bambini, avremmo prolungato di qualche tempo la nostra infanzia, e rincorso i nostri sogni incandescenti, ancora troppo leggeri e portati in alto dal vento.
Portavo sciolti i miei ricci selvaggi che arrivavano appena alle spalle e mi coprivano un poco gli occhi. Qualche raggio di luce rossa li illuminava. Non avevo ancora molte inquietudini, solo domande, su un domani ancora troppo lontano e qualche paura. Indossavo, come sempre, dei jeans stinti per stare comoda e una maglietta, con un golfino arrotolato in vita se avessi avuto freddo.
La strada ci stava conducendo fuori dal paese, le luci del centro erano già lontane. Pochi rumori, ad esclusione della nostra radio. Michi e Bruno discutevano animatamente per l’ultima canzone, poco riuscita, di un cantante amato da entrambi. A me piaceva. La Rossa saltellava contenta di essere libera e rideva di quel litigio.
Io scrutavo l’orizzonte, ma non vedevo nulla.
Mi voltavo a guardare indietro. Ancora nulla.
Qualche tempo prima avevo conosciuto un compagno di scuola della Rossa.
Si chiamava Alberto, e solo ricordare il suo nome mi emoziona ancora.
Ah, straordinaria memoria romantica delle donne! Sento ancora oggi, dopo molti anni, quello che ho sentito allora. Per la prima volta con lui qualcosa è cambiato e l’indifferenza, che prima caratterizzava i miei rapporti con l’altro sesso, ha lasciato il posto ad un trasporto irrefrenabile.
Reazione alchemica tra due esseri compatibili? Colpo di fulmine al primo sguardo? Non so.
Quello che posso dirvi è che la sua vicinanza ha risvegliato il mio corpo che ancora riposava nel torpore dell’infanzia. Per la prima volta ho sentito un lungo brivido attraversare le mie membra inconsapevoli. Ne ho gioito senza sapere il perché e, sconvolta di piacere, respiravo l’aria che usciva dalla sua bocca.
Non mi rendevo conto perfettamente di ciò che stava accadendo, ma io, piccola falena impazzita, sapevo bene qual era la mia luce.

***

Alberto si muoveva con un paio di amici, sempre in sella alla sua motocicletta. Quella prima volta si era fermato con noi in piazza. Avevamo preso un gelato insieme e ci eravamo messi a parlare seduti su un muretto.
“Piacere, Baby”.
“Ciao, io sono Alberto”.
Poi la conversazione era stata dirottata dalla Rossa che si era messa a rievocare vecchi compagni di scuola, “Sai, Romina si è sposata. Si dice in giro che fosse incinta…”.
Cindy stava in silenzio e si lasciava squadrare dagli occhi di lui che chiaramente dicevano:
“Ti è cresciuto il seno, dall’ultima volta che ti ho visto. Niente male!”.
Io stavo male, ipnotizzata dal suo sguardo invadente, che probabilmente mi aveva già messa nel reparto bambine.
“Tu cosa ne pensi Baby?”.
La sua voce, calda e bassa, suonava come il rombo della sua moto e mi faceva lo stesso effetto che mi avrebbe fatto in seguito quella, al suo solo avvicinarsi: i capezzoli sotto la maglietta si inturgidivano di un’emozione nuova e un’inquietudine turbava i miei pensieri.
Penso che fosse un poco incuriosito da me, e dai miei silenzi. Probabilmente si chiedeva cosa si celasse dietro al mio comportamento un poco strano. Evitavo i suoi occhi, per la paura che leggesse nel mio sguardo ciò che sentivo e più mi allontanavo da lui più sentivo il suo interesse su di me.
Non avevo scampo. Dovevo affrontare questa nuova emozione e imparare a controllarla. Non potevo mostrarmi come una delle tante che lui si scopava per poi poter dire di averlo fatto. Eh sì. Aveva sedici anni, ma una gran fama in paese. L’ultima si diceva che fosse la giovane moglie di un amico…
Così decisi di fare finta di nulla, almeno per un po’ di tempo. Non volevo dargli la soddisfazione di mostrargli che anch’io morivo per lui.
E invece morivo letteralmente.

***

Quella sera era lui che cercavo con gli occhi, avanti e indietro.
Inutilmente.
Era già qualche giorno che non si mostrava alla fontana per le nove, il nostro ritrovo. Forse avevo esagerato con la noncuranza. Forse avrei dovuto parlare un poco con lui. Forse … Forse così avrebbe desiderato starmi vicino. Che imbecille!
“Brava Baby, sei proprio brava a dare consigli agli altri! Quando si tratta di te stessa diventi proprio un’imbranata! Al diavolo le brave bambine! Perché devo sempre essere così brava! La verità è che hai una paura fottuta e non lo vuoi ammettere! No, paura no. È che non so proprio dove potrebbe portarmi questa emozione… Dove! ... E invece sì è paura. Paura di scoprire dove potrebbe condurmi….”.
Questi pensieri giravano e rigiravano nella mia mente, mescolati alle raccomandazioni dei miei:
“Piccola, non ti buttare via. Fai attenzione, non cedere all’egoismo altrui”.
Inoltre voci non sempre belle si sentivano sul suo conto in paese.
Certamente era un ragazzo affascinante e le chiacchiere aggiungevano un non so che al suo carisma.
Fisicamente era ben messo, moro, abbastanza robusto, un fazzoletto sempre intorno al collo. Lo sguardo tra il sorridente e il divertito, come di chi sa scovare le debolezze altrui.
Appassionato. Parlava spesso di moto, una fra le sue molte passioni.
Amava guidare esageratamente e lo si sentiva spesso rombare intorno, seguito da un gruppo di amici.
Era un leader certo, un affascinante, coraggioso, esuberante leader, adorato da alcuni, invidiato da molti, ma sempre amato perché fondamentalmente buono… fino a prova contraria…

***

Non ne voleva sapere quella sera di farsi vedere e le voci festose degli altri cominciavano ad infastidirmi. Avevo solo voglia di piangere, ma non potevo. Nessuno sapeva cosa avesse turbato la mia solita tranquillità.
“Questa sera ti batto Baby, prenderò più lucciole di tè, è garantito. Non mi sembri molto in forma oggi. Sarà un gioco da ragazzi”.
Michi tentava di provocarmi per animare la serata. “Mmm..”, la risposta.
“Si può sapere che hai? Non hai ancora detto una parola, non ti ho sentito cantare ed ora non rispondi alla sfida del secolo?”. Voleva proprio la guerra.
“Non mi scocciare, ho mal di testa, ma le lucciole le prenderò non ti preoccupare!”.
“Lasciatela in pace, non vedete che non sta bene?”.
La Rossa era sempre in grado di intuire quando qualcosa bolliva in pentola, la sua sensibilità anche quel giorno le faceva capire che però non era quello il momento di scoprire cosa. Mi confortava standomi accanto in silenzio e le ero infinitamente grata per quello.
La strada ad un certo punto svoltava tra i vigneti e diventava un sentiero erboso che si inerpicava sulla collina. Le luci in lontananza non si vedevano più. Il paese era celato ai nostri occhi da quella stessa altura cui avevamo girato intorno lungo la via e che ora ci regalava la magia di una notte pura. Una fetta di luna illuminava quel tanto da permettere di muoverci serenamente, ma da non rompere l’incanto.
“Spegni la radio, Michi”.
Volevo che tutto fosse perfetto e la musica stava disturbando quel momento di pace suprema che dalla natura giungeva placare le mie inquietudini e a zittire la voce dei miei pensieri.
Cri, cri, cri… solo i grilli tra noi.
I grilli e il silenzio.
Filari, e poi ancora filari e, sul sentiero, sassi ed erbacce. Ormai avevamo il fiatone per la fatica, ma non mancava molto ad arrivare. L’ultima svolta ed ecco: la salita era terminata e con lei i vigneti.
Un prato ricopriva la cima della collina. Un grande prato con l’erba molto alta, da cui tornavamo a vedere di nuovo il paese.
Lì ci buttammo a terra stanchi, un po’ qui e un po’ là alla rinfusa.
Quello era uno dei nostri rifugi.
Un luogo bello da raggiungere. Era affascinante percorrere in silenzio quel sentiero e meravigliosa la felicità di abbandonarsi all’abbraccio delle umide erbe. Posso sentire ancora il profumo di quei prati…
Quella era la casa delle lucciole.
Il nostro arrivo le aveva disturbate e qualcuna era volata più in là. Ma fra poco la nostra immobilità le avrebbe portate a fidarsi di noi e si sarebbero avvicinate di nuovo.
Eccole! Qui, una è sulla mia gamba. Mamma che bella! Un’altra è qui, vicino al mio viso. Dio, sono in Paradiso!
Eravamo tutti intenti a seguire con gli occhi i guizzi magici di quelle fatine volanti e a calmare, nell’abbandono di quel momento, il nostro respiro affannato.
“Ragazzi, siete proprio delle mezze cartucce!”
Bruno era sempre il primo a riprendersi. La voglia di giocare lo invadeva veloce e si alzava all’improvviso gridando: “Tre, due, uno, via!”. E lanciava in aria i sacchetti di plastica trasparente che aveva preso per tutti.
Il gioco incominciava. Non c’erano scuse.
Correvamo allora come folli e le vele fra le mani si gonfiavano al vento del nostro impeto e delle nostre risa.

Vorrei tornare lì.
Come sarebbe bello essere ancora lì e saper ridere nello stesso modo…
Se chiudo gli occhi forse ci sono…
Ehi! Fermi tutti! Gioco anch’io…

Qualcuno improvvisamente riusciva nell’intento, chiudeva veloce con una mano il sacchetto e lo alzava in alto in segno di trionfo.
Come bolle di sapone dalla luminosa sorpresa muovevamo nell’aria quei preziosi tesori ed era come avere in mano i nostri sogni!
Meravigliosa, irripetibile illusione…

***

Quella sera eravamo ancora in fase di caccia, quando d’improvviso una voce interruppe il nostro gioco.
“Lo sapevo che eravate qui. Con questo caldo e una bella luna dove altro andare?”.
Impossibile confonderla con altre voci. Al buio non avevo altri aiuti, ma non mi potevo sbagliare.
Era lui. Stava con Tony e Max e di ritorno dalla birreria avevano pensato di venire a cercarci. Avevano lasciato le moto ai piedi della collina e si erano arrampicati alla nostra ricerca.
“Santo cielo sono le dieci e quaranta! E chi lo sente mio padre adesso!”. La Rossa era violentemente tornata a terra, mentre io mi sentivo improvvisamente proiettata in alto nel cielo. Ero seduta sull’erba e stavo in silenzio a vedere che cosa sarebbe successo. Tony era scattato subito verso di lei:
“Se vuu…, se vuoi ti accompagno io”.
Era molto timido Tony. Stare vicino ad Alberto era per lui una terapia, lo faceva sentire più forte. Da qualche tempo aveva anche imparato ad osare e a trattare con noncuranza la propria balbuzie e questo l’aveva un poco scalfita.
“Grazie, sei un tesoro! Andiamo dai! Ciao a tutti”.
I due si erano allontanati in fretta dal gruppo e solo vedevamo le loro ombre nere muoversi alla ricerca del sentiero.
“Che diamine! Potevi anche aspettare un attimo che finissimo il gioco, invece di arrivare gridando come un matto a quel modo! Almeno avremmo combinato qualcosa di buono stasera”.
Bruno era proprio inalberato. Già non digeriva molto quel bellone che tutti adoravano. Che avrà avuto poi più degli altri? Era solo un pallone gonfiato. Questione di tempo e lo avrebbe dimostrato al resto del gruppo. E poi non faceva parte della compagnia, era solo un intruso, un conoscente, da prendere a cazzotti, uno di questi giorni…
“Eh dai, non ti arrabbiare. Vai avanti se vuoi, io non ti disturbo, sei il solito scorbutico Bruno. Ciao ragazzi, freschino eh?”.
Si era buttato sull’erba ad un passo da me ed io incominciavo ad avvertire i primi brividi di freddo. Ormai ero ferma, e il gioco non mi scaldava più. Da dove venite? Chi c’era? Era bella? Le solite chiacchiere tra ragazzi e poi:
“La sapete la novità? Ricordate la mia moto scassata? Bene, dimenticatela! Giù ho lasciato una enduro nuova fiammante!”.
“E vai, Max! Finalmente! Così la smetterai di farti riconoscere dal rumore di ferraglia!”. E giù risate all’infinito. Bruno e Michi erano molto interessati.
“Dai, andiamo a provarla. Ce la lasci provare, vero? Sei o non sei un amico?”.
L’argomento moto legava il gruppo meravigliosamente bene, ed entusiasmava perfino me. Adoravo le due ruote infatti. Conoscevo nomi e forme di molti modelli ed ero abbastanza preparata in materia, ma in quel momento il nuovo gioiello di Max era l’ultimo dei miei pensieri.
I tre si erano già alzati e si accingevano ad andarsene.
“Che fate voi ragazzi? Venite con noi?”.
Michi mi squadrava da lontano, come se dicesse in realtà, ma che fai? Caro, gentile e taciturno Michi! Si preoccupava per me. Credo che un poco fosse innamorato, ma con discrezione, con uno spirito vagamente paterno di chi difende una figlia.
“Andate pure avanti voi, io devo chiedere a Baby un parere. Se non è troppo tardi ci rivediamo in piazza. Altrimenti a domani ragazzi!”.
Ciao, ciao, ciao.
Il piccolo gruppo era già lontano e si tuffava correndo lungo il sentiero. A grandi balzi sarebbero arrivati in frettissima a valle e già mi sembrava di vederli in tre su quella moto litigare per il posto di guida.
Ed io ero in trappola.
Che freddo faceva d’improvviso in quella sera d’estate. Avevo tolto dai fianchi il golfino e l’avevo messo sulle spalle per coprirmi un poco, ma non bastava.
“Stai bene Baby? Sei molto pallida!”.
“No, non ti preoccupare. Forse ho corso troppo prima ed ora mi si sta raffreddando addosso il sudore. Adesso mi passa. Cosa mi dovevi dire?”.
Silenzio.
Sospirando si era avvicinato con noncuranza ancora di più a me. Si era buttato indietro sull’erba con le mani dietro la schiena e gli occhi alle stelle. Quel poco di luce che c’era bastava per illuminarlo. Vedevo il suo volto nitidamente e le sue espressioni. Per fortuna ero già a terra. Sentivo un tremore alle ginocchia, una debolezza, come… di malattia.
“Ti ricordi Davide e Serena? Ti ho già parlato di loro. Sono miei amici da anni. Sono entrambi miei amici da anni. Una persona non può essere fedele ad un amico e tradire l’altro, vero? E soprattutto, quale dei due amici scegliere? Quello che ami di più forse? È assurdo! È una situazione ingestibile. Non so come uscirne”.
Era visibilmente agitato. Nel parlare muoveva gambe e braccia e scaricava attraverso quelle la tensione interiore. Ricorreva al mio buon senso. Anche lui faceva leva su quel lato di me che per primo offrivo agli altri. Un po’ una maschera, una difesa. Un tenere la vita a debita distanza, ormai era abbastanza chiaro, o forse lo è solo oggi, per paura.
“Calma! Se parli così in fretta non capisco nulla! E poi cosa sono questi dilemmi amletici? Che significano? Comincia dai fatti, con calma. Cosa è successo?”. Amavo la letteratura, e leggevo più libri di quanti riuscissi a capirne, a quell’età, ma qualcosa comunque, mi rimaneva dentro, emozioni, sapori, parole e poesia…
Pausa di tre respiri, per permettere un’ultima riflessione.
Forse era un poco in dubbio se parlarmi o no, se rivelarmi quello che aveva scoperto.
“Ho promesso di non dire nulla a nessuno, ma sto male. Davvero! Non riesco a guardare più Davide negli occhi! Mi vergogno come un ladro, e non ho fatto nulla, diamine!”.
“Aspetta Alberto. Cosa non avresti fatto? Perché ti vergogni? Cerca di stare tranquillo, io sono qui ad ascoltarti. Non può essere così terribile! Ti aiuterò ad uscirne, vedrai!”
“Sei tanto cara tu… sei piccina, ma con te riesco a parlare più che con le altre ragazze. Non so perché, ma ho l’impressione che tu mi legga dentro. E poi so che non mi tradirai, non è vero?”.
“Lo sai che è così. Su, parla adesso”.
Mi aveva preso una mano, come per attivare il contatto che gli avrebbe permesso di aprirsi e con un gesto aveva sciolto lo spasmo che mi teneva i pugni stretti. Era così vicino e voleva me…
“Sono andato a quella festa in discoteca sabato, ricordi?”.
Già, lo ricordavo. Io non avevo ancora il permesso di frequentare locali notturni. Potevo fare solo qualche giretto serale per il paese, nient’altro.
“E allora?”.
“Allora c’era molta gente. Mi sono divertito molto. Un gran caos però, troppi ragazzi. E poi verso la fine della serata io e Max, sì insomma, stavamo con due tipe che venivano da fuori. Ci siamo seduti ad un divanetto un po’ appartato. Era molto buio, ma l’ho vista”.
“Chi hai visto? Forza, dimmi!”.
“Ho visto Serena. Mi dava le spalle dal divanetto a fianco al nostro e io mi dicevo, ma chi è questo pezzo di bionda? Era avvinghiata al suo … accompagnatore, chiamiamolo così, per ora. Si baciavano appassionatamente. Poi si sono staccati un attimo, il tempo di bere un poco di bibita e si è girata, scuotendo i capelli. Era Serena, capisci? La donna di Davide! I miei amici! Dio che schifo!”.
La mano che teneva nella mia non voleva saperne di stare ferma e io l’accarezzavo in silenzio, come per placarla.
“Mi ha visto, ero a meno di mezzo metro da lei. Mi ha guardato con un po’ di paura negli occhi. Poi io mi sono alzato. Ho urlato nell’orecchio a Max che me ne dovevo andare, lui era troppo occupato, non si era accorto di nulla, e sono fuggito via. Lei mi ha rincorso per il locale affollato e mi ha trovato che stavo già inforcando la mia moto. Mi ha supplicato di non dire nulla a Davide, che era ubriaca, non aveva saputo resistere a quel tipo. Era stata una follia, lo sapeva, ma non l’avrebbe più rifatto. Davide non doveva lasciarla sola! Adesso vado a casa, lo giuro. Mi faccio accompagnare da un’amica… Era pietoso. Io non riuscivo neppure a guardarla in faccia. Mentre parlava tenevo la testa sulla mia moto e mi sentivo…male. Sono riuscito solo a chiederle perché? Lei mi ha guardato con gli occhi lucidi e supplicanti e non mi ha risposto. Capisci? Non mi ha risposto!”.
“Stai calmo, adesso. Calmo. E Davide? L’hai visto in questi giorni?”.
“È venuto con noi domenica a fare un giro in moto. Mi ha detto che era solo perché Serena non stava bene, era a letto. Sì, a letto con un altro! Che stronza! Tutti, ma non loro, porca miseria. Erano il mio mito, l’unica bella coppia che conoscessi. Se un giorno mi sposerò, sarà quando avrò un legame come il loro, mi dicevo. Non sono riuscito a parlargli per tutto il giorno. Ha perfino creduto che fossi incazzato con lui. Così non può andare avanti, io non reggo!
Ecco. Adesso sai tutto”.
Rimasi un attimo in silenzio, riflettendo su quanto aveva detto con la foga della sua rabbia.
“Brutta situazione questa, hai ragione. Proprio brutta…... Certo dovresti aspettare un attimo a giudicare. In fondo non sai nulla. Vuoi bene a Serena, no? Allora dalle un po’ di fiducia! Devi parlare con lei. Dovete trovarvi con un attimo di calma e parlare. Forse potresti aiutare a risolvere i loro problemi… Non credi? Non servono a questo gli amici?”.
Alberto si era alzato insofferente all’immobilità, e si era messo a scagliare sassi in direzione del paese, ma mi ascoltava, era certo. Scaricava la sua rabbia e intanto valutava le mie parole con attenzione.
“Parlare con lei, mm… Adesso non ho certo voglia di vederla!”.
“Eppure è questa la soluzione. Solo lei può dirti tutto con esattezza. Forse ha proprio bisogno di te. Forse aveva bisogno di un amico anche prima che questo accadesse, ma non ha avuto il coraggio di deludere la tua ammirazione per la coppia che formava con Davide. Magari non adesso. Fra qualche giorno, se vuoi. Ma devi parlare con lei e a lungo”.
Per fortuna sotto al suo tiro non vi erano che campi, altrimenti sarebbe stato pericoloso quella sera Alberto. Pericoloso lo era già per me, quello era certo, ma era un fuoco al quale volentieri mi sarei avvicinata, se non altro per scaldarmi un poco, se possibile.
“Tu non lo avresti mai fatto, ne sono sicuro. Tu non sei come tutte le altre.
Come posso rispettarla allo stesso modo di prima? E Davide? Dove mettiamo Davide in tutto questo? Dovrei dirglielo, è mio amico”.
Era distrutto. Si era ributtato a terra, come se non ci fosse più nulla da fare. Non vedeva via d’uscita, nella foga delle emozioni.
Io mi sono avvicinata a lui.
“Ehi, non fare così! Non è la fine del mondo. Parla con Serena. Vedrai che troverete un accordo. Deciderete cosa fare insieme, se parlare oppure no a Davide. Magari ne uscirete più amici di prima”.
Gli stringevo da dietro le spalle per rincuorarlo, sentivo il suo bisogno di me e cercavo di appagarlo come sapevo. D’un tratto lui con una rotazione del busto mi ha presa e fatta sedere sulle sue gambe.
“Sei tanto cara tu. Se non fossi così piccina saresti la donna perfetta per me… Come fai a sopportarmi?”.
Le sue mani avevano preso a giocare con i miei riccioli e ad accarezzarmi piano il volto. Sorrideva dolcemente.
“Ehi! Non sono poi tanto piccina. Ho solo due anni meno di te, mica cento! E poi ti sopporto perché mi piace ascoltare le tue avventure. Solo tu sai cacciarti in certi pasticci!”.
“Eh sì, sono un disastro hai ragione!”.
Ero riuscita a distrarlo, ora rideva divertito alle mie proteste.
“Per fortuna ho te che mi consigli. Sono convinto che tu non ti comporteresti mai così, neppure tra un po’ di anni. Sei diversa. Piccoletta, ma giudiziosa…”.
“Di nuovo, allora insisti! Ti ho detto che non sono piccola. Ho quattordici anni compiuti, o sei sordo?”.
“Sì, sì, la mia piccina. Scommetto che non hai ancora baciato nessuno…”.
Il terreno su cui mi stavo inerpicando si faceva via via più scivoloso e credevo che sarei caduta miseramente al primo errore …
“Presuntuoso, cosa te lo fa pensare? Forse perché non mi metto in mostra come le bellone che ti porti a spasso? Porto i jeans e allora? Posso correre e pensare ugualmente, o prendi in considerazione solo le minigonne da oggi?”.
“Scusami Baby, stavo solo scherzando. Lo sai che sei un’amica importante per me. Sei l’unica, davvero”. E mi ha abbracciato forte. E io stavo lì, sulle sue gambe, stringendo un amico che volevo amare, ingoiando parole che avrei voluto dire. Ma non ancora.
Non era ancora il momento…
“Alberto, sono le undici. Che fai, mi accompagni?”.
“Sì, andiamo”.
Ci siamo alzati nel buio e separati un po’ con fatica. L’incanto di quella sera sarebbe ben presto finito. Ma la strada da percorrere era ancora lunga e noi eravamo ancora soli.

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