Con questo racconto è risultato 9° classificato – Sezione narrativa alla XV Edizione del Premio Letterario Città di Melegnano 2010
Nero
«In principio Dio creò il cielo e la terra. Ora la terra era informe e deserta e le tenebre ricoprivano l’abisso…» la catechista interruppe la lettura non appena ci vide entrare. Quella scialba figura vestita di nero avrebbe fatto desistere dal fare delle avances anche un uomo vissuto per vent’anni da solo in un’isola deserta. Sembrava un topo con gli occhiali neri; le lenti spesse come fondi di bottiglia. Mi convinsi che un soggetto del genere poteva essere uscito solo dalle viscere di un’altra epoca o, peggio ancora, da un fumetto satirico. Guardai mio figlio con l’espressione di chi ti deve abbandonare al proprio destino. Senza indugi gli feci cenno di avanzare. Era il suo primo giorno di catechismo e noi eravamo in ritardo. Il topo, con la Bibbia aperta tra le mani, fece un sorriso con i suoi dentoni sporgenti e le lentiggini in bella mostra, ma prima che potesse iniziare una qualsiasi comunicazione le dissi che sarebbe passata la baby-sitter a riprenderlo. Non la degnai di un saluto, mi tappai il naso e uscii fuori da quel tugurio tenebroso. Gary se la sarebbe cavata da solo. Almeno credevo.
Appena fuori mi sentii finalmente libero. Dovevo fare in fretta. Accompagnare Gary dopo il lavoro era una gran scocciatura e rischiava di mandare all’aria i miei adulteri piani per il weekend. Ma Lysette, mia moglie, aveva insistito, esasperante come sempre. Ora dovevo essere veloce. Non mi ero neppure cambiato e mi aggiravo con gli abiti da broker tra le viuzze di quel grigio quartiere di New York, vicino alla parrocchia di San Paolo Apostolo. Mentre camminavo rapidamente, riaffiorò il ricordo di quando io andavo al catechismo. Era una bella occasione per incontrare le ragazze. Quante storie ebbi in quel periodo. Fu lì che conobbi Dayana, quattro anni più grande di me. Mi iniziò al sesso che avevo dieci anni… nel confessionale! Mi chiesi a cosa servissero tutte quelle stronzate che raccontavano le catechiste. Non cercai seriamente una risposta. Sapevo solo che erano di una noia mortale.
Raggiunsi la macchina e vi salii. Avevo detto a Lysette che sarei rimasto fuori per lavoro. Era una scusa che funzionava sempre. Buttai la giacca sul sedile del passeggero, allargai il nodo alla cravatta e mi misi al posto di guida. Era una bellissima giornata di sole a metà settembre e il caldo del pomeriggio si faceva sentire. Sfrecciai a tutta birra sulla cinquantanovesima strada fino all’incrocio con la Undicesima avenue. Col verde voltai a sinistra, ma un pazzo passò col rosso da destra e quasi mi veniva addosso se non avessi frenato di botto. Scesi urlando arrabbiato tutte le parolacce che conoscevo all’insegna di quel pirata della strada che si allontanò accelerando e un attimo dopo inveii contro la fila di macchine dietro di me che a suon di clacson non aspettava altro che di passare.
Mi rimisi in macchina più irato che mai e sgommai, ma non passai inosservato: la macchina della polizia di fronte mi si mise davanti sbarrandomi la strada. L’agente al fianco del guidatore fece cenno di fermarmi sul bordo della carreggiata. Maledii lo stronzo di prima, e anche l’agente con l’espressione corrucciata che era sceso dalla macchina. Dovevo assolutamente calmarmi e spiegare l’accaduto. L’agente fu poco comprensivo e mi multò. Dovetti stare zitto e intanto perdevo ancora tempo. Sarei arrivato tardi all’appuntamento. La prenotazione al Motel era a nome mio e Ginger avrebbe dovuto aspettare fuori finché non sarei arrivato. Era imperdonabile!
Finalmente ripartii ma cento metri più avanti un camion carico di mele sbandò e si ribaltò mettendosi di traverso: la strada era tutta sbarrata. Alcune macchine gli finirono addosso e fu il caos più totale. L’ingorgo era insuperabile. Decisamente non era la mia giornata! Proprio sopra di noi passò l’elicottero di un noto magnate della finanza, conosciuto in tutta l’America. In quel momento ciò mi apparve come una beffa. Roso dall’invidia gli augurai di crepare schiantandosi con il suo elicottero. Magari riuscivo a passare la scalogna di quell’ultima mezz’ora proprio a lui. Nel frattempo giungevano la polizia, le ambulanze e i vigili del fuoco. Fummo fatti allontanare a piedi dalle macchine, cosa che non accettai. Litigai con l’agente di turno che in modo chiaro mi fece capire che se non avessi alzato i tacchi mi avrebbe portato alla centrale.
Dovevo calmarmi, anche se non sopportavo l’idea che il caviale e il vino rosso ordinati per allietare la focosa serata con Ginger stavano per andare a farsi fottere. L’acquolina in bocca mi spinse al fast food all’angolo. Ordinai un hamburger con doppia porzione di salse e mi ingozzai come un porco, alla faccia di quella giornata di merda.
Un’altra mezz’ora passò e non era successo un bel niente. Tutti si affannavano a dare una mano. Appena fuori dal fast food indossai i miei occhiali neri da sole e appoggiato al palo scuro della luce mi isolai dal mondo, noncurante, in attesa che si creasse lo spazio sufficiente tra le lamiere per mandare a quel paese tutti e schizzare via dalla mia voluttuosa amante. Salivai copiosamente al pensiero delle sue tettone quinta misura abbondante, niente a che vedere con le misere coppettine seconda misura di Lysette. Io ero un uomo d’affari, dalla posizione invidiabile, che lavorava nel cuore economico del globo terrestre. Meritavo di più di una moglie morigerata e di sani principi, che mi appioppava il figlio perché Gary avesse un’educazione paterna esemplare. Patetico!
Un vecchio negro, storpio e mezzo cieco, allungò la mano elemosinando qualche spicciolo, ma incazzato com’ero gli dissi di togliersi dalle scatole. Con l’unico occhio sano mi fissò con uno sguardo vitreo e riprovevole e mi disse: «Solo i buoni di cuore saranno premiati. Ricordalo, uomo dalla pelle bianca e dall’anima nera!». Il suo era stato poco più di un sussurro, ma tremendamente chiaro. Senza aspettare risposta andò via e il mio sorriso beffardo mi si gelò a metà sul viso. Lo seguii con gli occhi e un minuto dopo non distinguevo più i suoi contorni, inghiottiti dal riflesso luminoso del sole basso pomeridiano, poco prima del crepuscolo.
Ero stufo di aspettare e andai verso la macchina. C’era uno di quei dannati agenti nei paraggi e gli chiesi quanto tempo ci sarebbe voluto ancora. La risposta fu lapidaria: «Se la gente come lei desse una mano anziché bighellonare in giro inutilmente a fare domande, certamente faremmo prima». Ormai la mia pazienza si era dissipata. Il bicchiere era colmo. Ero così pieno di rabbia che tirai un cazzotto sulla carrozzeria della macchina sbottando «Cristo!!».
All’improvviso tutto divenne nero. Nero! Non buio o scuro, ma nero come la pece. Così nero che sentii le viscere contrarsi per la paura. Mi strofinai gli occhi con prepotenza, quasi che cercassi di strappare via un qualche involucro che casualmente si fosse appiccicato sui miei occhi. Ma quando li riaprii non vidi niente. Il nulla più totale. Sentii il panico che mi assaliva e cominciai a respirare affannosamente. Deglutii forte, a più riprese, tentando disperatamente di riprendere il controllo di me stesso. Cercai di pensare, con le mani appoggiate sulla macchina. Mi resi conto che stavo sudando freddo. Era una sensazione bruttissima. Pensai. Ci doveva essere una spiegazione. Forse ero stressato. Gli ultimi eventi avevano sovraccaricato la mia mente e questa aveva fatto cortocircuito. Probabilmente sarebbe finito tutto in un attimo. Eppure i secondi passavano e non accadeva niente. Era tutto nero. Allora pensai che forse ero stato colpito da qualche strana malattia agli occhi, come nel romanzo di quello scrittore portoghese… Saramago! Già, s’intitolava proprio Cecità. Molti anni prima, quando ero studente di Economia, avevo letto le prime pagine del libro e poi l’avevo scaraventato sul pavimento.
Ruotai la testa sia a destra che a sinistra, lentamente. L’improvvisa esplosione di nero aveva temporaneamente atrofizzato l’uso degli altri sensi. Tesi le orecchie e finalmente udii l’enorme confusione che regnava tutt’attorno, sia vicino che in lontananza. Sentii gente urlare, strillare, piangere. Percepivo il crepitare del fuoco in un paio di direzioni. Un boato potente sembrò voler squarciare quel manto nero che, implacabile, restò dov’era, beffandosi di tutto e di tutti. L’aria era acre e piena di fumo. Tentai nuovamente di aguzzare la vista facendo un giro su me stesso di trecentosessanta gradi. Ma non vidi niente, neanche una lucetta, una fiamma, un bagliore. Niente di niente. Tremante, tirai fuori la mia penna-torcia e la accesi: nulla! Intorno a me regnava il nulla assoluto. Era come se tutto fosse scomparso in un buco nero che non lasciava uscire alcuna luce. Provai con l’accendino, ma niente. Rabbrividii. Quel nero era così intenso, pregnante, penetrante da non lasciare un singolo spiraglio di luminosità. Toccai la fiamma e mi bruciai, ma non la vedevo.
In un attimo mi sentii totalmente solo, in balia di quel nero scaturito dalle viscere dell’inferno e la paura ebbe il sopravvento. Tentai di parlare, ma le parole mi si strozzarono in gola. Mi sentii mancare e caddi sulle ginocchia. Era come se quel nero mi entrasse dentro, fin nel profondo dell’anima e io ero del tutto impotente. Forse quel negro aveva ragione: la mia anima era nera, così nera da aver invaso tutto il mondo intorno a me dopo aver varcato i labili confini del mio corpo peccaminoso. Iniziai a piangere convulsamente, scoraggiato, e istintivamente cercai di pregare in ginocchio, con le mani giunte. Ma non ricordavo alcuna preghiera, neanche il Padre Nostro o l’Ave Maria. In quel momento maledii la mia sciagurataggine e, preso da un immane sconforto psicofisico, vomitai a più riprese, fino a svuotarmi del tutto. La gola era in fiamme e dolorante. Mi sentivo spossato, come un involucro inerte, facile preda di quel nero assoluto.
Che fosse giunto il giudizio universale? Che si fosse materializzato in quella forma, creando l’inferno sulla terra? L’orrore prese possesso della mia persona, un orrore smisurato e senza fine, come quel nero diabolico. Desiderai di morire. Sì! La morte mi appariva per la prima volta come una liberazione da quella condanna eterna. Chi lo sa se il Signore mi avrebbe fatto dono della morte. Mi pentii. Mi pentii umilmente dei miei peccati mentre le lacrime scorrevano copiosamente sul mio corpo. Chiesi perdono per le mie dissolutezze e nutrii nel profondo una piccola speranza di essere liberato da quella condanna. Per tutta risposta mi giunsero confusamente alle orecchie le voci di altre persone. Mi sforzai di sentire meglio e, tra le urla di paura, distinsi chiaramente il ritmico eloquio delle loro preghiere.
Con grande sforzo mi tirai su. Mi muovevo a tentoni e, basandomi sull’orientamento della macchina, mi diressi nella direzione da dove ero venuto, spostandomi un po’ verso sinistra per raggiungere il marciapiede. Con grande preoccupazione pensai a Gary. Chissà come stava, che cosa gli era successo. Dubitai che il topo avrebbe potuto gestire la paura dei bambini lì presenti. Dovevo andare da lui. Probabilmente era terrorizzato. Fui colto dall’orrore quando mi accorsi che non riuscivo a vedere il viso di Gary con l’occhio della mente. Anche le immagini mentali erano scomparse, sotterrate da una patina di nero impenetrabile. Nuovamente fui colto dallo scoramento.
In quel momento urtai con le gambe contro qualcosa e caddi. Una donna incominciò a urlare impaurita, con un tono così straziante che il sangue cominciò a ricircolare nelle mie vene e le tempie mi pulsavano all’impazzata. «Non abbia paura!», urlai. «Sono un uomo. Nient’altro che un uomo». Avevo capito la natura profonda del suo terrore, simile al mio, e agii rapidamente per tranquillizzarla che non ero un demone. Accertatomi che la donna era un po’ più calma ripresi il cammino in quel mare di nero, diffidente sulla riuscita della mia impresa. Ma Gary era lì, a qualche centinaio di metri di distanza e io dovevo andare da lui. Ebbi la sensazione di essere un’anima del purgatorio che cerca la via della redenzione e del perdono e, stranamente, questo mi tirò un po’ su di morale. Forse aveva generato in me una remota speranza. Avanzavo lentamente per paura di sbattere contro qualcosa o, peggio, cadere da qualche parte. Le braccia in avanti tremavano e le sentivo pesanti, pesantissime.
Sussultai allo squillo del mio telefonino nella custodia della cintola. L’avevo del tutto dimenticato. Qualcuno mi stava chiamando e forse avrei potuto chiedere aiuto. Tremante, lo presi e lo strinsi forte per paura che mi cadesse e venisse inghiottito dal nero. Era assurdo quanta speranza lo squillo del cellulare mi dava in quel momento. Risposi con voce incerta. Era Lysette. Piangeva: «Paul! Dove sei? … Ho paura!». Il suo sussurro straziante mi lacerò l’anima. Era sola, sommersa dalle tenebre, terrorizzata, incapace di muoversi. Da quando era comparso il nero era a malapena riuscita a trovare il telefono appoggiato in cucina. In preda al panico, senza respiro, pronunciò il nome di Gary e pianse convulsamente. Ero impietrito. Mai niente aveva fatto paura a Lysette. Mai! Lei era sempre forte, decisa, irreprensibile. Sentirla in quello stato mi fece male, più di qualunque altra cosa. Mi scossi. Dovevo fare qualcosa. Per lei. Ripresi vigore, mi feci forza, controllai il respiro e con calma le dissi di non preoccuparsi, che avrei pensato a tutto io, che stavo andando a prendere Gary e che… l’amavo. Ripose in me quella fiducia che mi accordava da anni, ma stavolta non l’avrei tradita e non intendevo mentirle.
Non era facile. Per un po’ un forte senso d’angoscia mi compresse il petto, questa volta perché non mi ritenevo all’altezza del compito che mi ero assunto. Un forte dissidio si insediò nella mia coscienza e due diverse fazioni dell’anima combattevano senza esclusione di colpi sul campo di battaglia del mio spirito interiore. Quell’arcano conflitto mi prostrava oltre ogni immaginazione e dovetti mettermi carponi per resistere alla parte di me che ostacolava il doloroso cambiamento. Nella tensione del momento la mia ragione si rifiutò di ricadere nella dissolutezza e mi sferzò con vigore. Uno scatto d’orgoglio scaturì dall’intimo e sentii l’enorme bisogno di meritare l’amore e la stima di Lysette e Gary. Riconobbi in questa spinta interiore il vero coraggio e finalmente mi rialzai, vincendo le forze avverse.
Mi incamminai con passo più lesto. Mi sentivo più lucido, più sicuro a vagare in quella aerea pece. Urtai ancora una volta contro qualcuno. Doveva essere un tipo su di giri, fuori controllo, perché immediatamente mi acchiappò per la camicia strattonandomi e mi sbatté a terra. Era un uomo forte. Mi urlò in faccia cose irripetibili, mi diede del figlio di puttana, mi sputò e mi tirò un cazzotto. La sequenza fu rapidissima e cercai di ripararmi con le braccia. Evitai di reagire perché dovevo andare da Gary e volevo evitare che la situazione degenerasse ulteriormente. E poi, quell’uomo era solo un’altra anima persa nel nero del purgatorio terreno. Gli chiesi scusa a più riprese, anche se non sapevo perché. Mi lasciò andare e io mi rimisi in piedi, conscio d’aver fatto la cosa giusta.
La fine del marciapiede mi fece capire che ero finalmente sulla cinquantanovesima strada. Girai a destra; ormai mancava poco. Sentii qualcuno piangere. Era un ragazzino. Senza indugi lo chiamai, con calma, senza spaventarlo. Riuscii a raggiungerlo. Tremava di terrore. Gli diedi la mano e gli parlai. Mi rispose tra i singhiozzi. Si chiamava Josef ed era un ragazzo di colore. Lo portai con me, mano nella mano, come fosse mio figlio. Avvolsi la sua manina infreddolita e tremante con tutto il calore che la mia stretta poteva dargli. Gli misi addosso la mia camicia per ripararlo un po’ dalla frescura. Una sensazione nuova m’invase, mai provata fino ad allora. Mi sentivo diverso, un altro uomo e amai da subito quella percezione di equilibrio, di serenità interiore, accompagnata da una forte carica emotiva. Sentii la pienezza della mia persona esprimersi totalmente, in quel nero impenetrabile che era diventata ormai la mia seconda pelle.
All’entrata della chiesa ritornò la luce, nello stesso modo improvviso con cui se n’era andata. Fui sbalordito. Era come essere in paradiso. Feci sedere su una panca di legno il piccolo Josef e andai di filato verso la stanza del catechismo. Entrai giusto in tempo per sentire pronunciare dal topo con gli occhiali «Dio disse: ‘Sia la luce!’. E la luce fu». Gary pareva tranquillo. Appena mi vide gridò «Papà!». Corse ad abbracciarmi e io lo strinsi forte a me, come mai era accaduto prima. Dopo un minuto aggiunse «Papà, la signorina Vera è veramente eccezionale. Non abbiamo avuto paura con lei».
Per molti anni sulla Terra ci si chiese cosa fosse successo. Gli scienziati, disorientati, inventarono incredibili teorie ogni giorno, maghi e fattucchiere ci erudirono su assurde stregonerie, i più fantasiosi dissero che erano stati gli alieni. Religiosi di culti diversi lo considerarono come l’ultimo, magnanimo avvertimento di Dio per evitare la conclusiva punizione divina. Io una risposta non ce l’avevo. Sapevo solo che erano più importanti i cambiamenti del mio animo ed ero convinto che molti la pensarono allo stesso modo. Sapevo solo che un topo con gli occhiali quel giorno, a distanza di un paio d’ore, mi era apparso come un angelo comprensivo e paziente. Due occhi pieni di vita risaltavano dietro le spesse lenti. Una mascella decisa e prominente faceva da contorno ai denti da coniglietto. Dei capelli stupendi incorniciavano quel viso lentigginoso rendendolo piacevole e aggraziato. Ringraziai la signorina Vera e il suo sorriso di risposta fu per me il segno che avevo raggiunto il traguardo del mio tortuoso percorso di cambiamento.
Roberto Chirico