Non è un Paese per giovani-Riflessioni e proposte per la politica italiana

di

Roberto Locatelli


Roberto Locatelli - Non è un Paese per giovani-Riflessioni e proposte per la politica italiana
Collana "Koiné" - I libri di Religione, Filosofia, Sociologia, Psicologia, Esoterismo
14x20,5 - pp. 58 - Euro 8,00
ISBN 978-88-6587-3199

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In copertina: Palazzo Montecitorio © Annto – Fotolia.com


“Imbonitori e sciamani della politica, che nella politica sguazzano come pesci d’acqua torbida, circondati da un nugolo di servi senza faccia pronti ad azzuffarsi per garantirsi gli avanzi del padrone, in una incessante corsa al carrierismo che li possa portare ad essere i servi più prossimi del leader.”


Prefazione

Il volume di Roberto Locatelli, dal titolo “Non è un paese per giovani. Riflessioni e proposte per la politica italiana”, rappresenta lo specchio fedele della situazione politica odierna del nostro Paese.
Lo sguardo di Roberto Locatelli, sempre attento e critico, pone in evidenza, grazie ad una accurata documentazione e a numerosi riferimenti a scritti pubblicati negli ultimi anni, il decadimento culturale e politico che attanaglia il sistema italiano.
L’analisi prende in considerazione alcuni aspetti peculiari che possono illuminare i motivi della crisi del presente, attraverso un excursus storico che parte dalle mancate riforme degli anni Ottanta, passa dalle maglie dell’inchiesta di Mani Pulite del famoso pool di magistrati di Milano, conduce al crollo dei partiti politici che avevano contrassegnato i decenni del secondo dopoguerra ed, infine, alla nascita della pseudo Seconda Repubblica.
Appurato che il “male italiano” viene da lontano, Roberto Locatelli evidenzia come, dagli anni Novanta, la situazione politica ha visto un lento deterioramento: sono apparsi partiti personalistici e si è verificato un distacco della politica dalla vita reale dei cittadini ed è apparsa evidente la mancanza di progetti politici concreti che cercassero di sanare le contraddizioni: al contrario, la politica è diventata terreno fertile per imbonitori d’ogni sorta che si sono impadroniti dei settori vitali e, a causa della loro incapacità, hanno provocato il buco della spesa pubblica dovuto a sprechi, utilizzo discutibile del finanziamento pubblico ai partiti, mala gestione, clientelismi e ruberie varie.
Roberto Locatelli propugna un “approccio” stile dottor House: la totale mancanza di meritocrazia, che cede il passo davanti all’appartenenza politica, deprime il valore della classe dirigente e diventa necessario selezionare i soggetti con qualità e personalità per fermare il declino con scelte politiche adeguate.
Da questa disamina emerge l’obbligatorietà di fissare alcune regole alla classe politica e Roberto Locatelli, dopo lo sdegno per le vicende degli ultimi anni, elenca alcuni correttivi che possono frenare il decadimento: eliminare il carrierismo politico e le nomine di comodo; impedire l’entrata in politica da parte di condannati, indagati e rinviati a giudizio dalla magistratura; tagliare gli stipendi da favola, i privilegi, i cumuli di cariche e, infine, dimostrare trasparenza nella vita professionale e politica da parte dei soggetti che si avvicinano all’attività politica.
Roberto Locatelli non si ferma all’inevitabile severa critica davanti all’andazzo della politica italiana, ma è portatore di una proposta politica: il doveroso impegno da parte della collettività per ricreare una classe politica che veda come protagonisti persone oneste e preparate, che siano esempio positivo per la società civile e sappiano eliminare lo scollamento attuale tra “elettori ed eletti”.
La cronaca politica non depone certo a favore di un miglioramento della gestione del potere o ad un ritrovato senso di responsabilità seppur la speranza non deve venire meno.
Che il proposito di Roberto Locatelli possa avverarsi è auspicio sicuramente condiviso dalla maggioranza.

Massimiliano Del Duca


INTRODUZIONE

Oggigiorno i politici dimostrano quanto poco rispetto abbiano dei cittadini, soprattutto nelle loro vesti di genitori, proprietari, lavoratori, professionisti, imprenditori, volontari e pensionati, mentre interessa quasi esclusivamente il ruolo di elettore che gli stessi rivestono periodicamente per le consultazioni di tipo amministrativo, regionale, nazionale ed europeo.
I politici sono lontanissimi dai problemi di coloro che in questo Paese “tirano la carretta”, dall’alto dei loro lauti emolumenti mensili più benefit, delle loro altolocate frequentazioni, dei loro clientelismi parentali ed amicali, della loro immeritata ma ultra garantita pensione.
I più sono totalmente a digiuno di qualsiasi professionalità che non sia l’astuzia, la scaltrezza, il voltafaccia, la raccomandazione, la più bieca piaggeria; ciò naturalmente in spregio alla valorizzazione delle capacità e del merito.
I partiti politici sono il contenitore principe di questo malcostume e di questa deriva parassitaria degli stessi, dove l’adulazione del capo, il “leccaculismo”, l’assoluta e cieca dedizione ad un’astratta e pretestuosa causa sono presupposti imprescindibili per fama, carriera, potere e soldi.
L’esempio oggi più lampante sotto i nostri occhi è quello di una classe politica tutta intenta a fingere di combattersi sulle più svariate e inutili tematiche, su tutte l’ennesima riforma della legge elettorale, ma scaltra nel ricompattarsi quando ad essere presa di mira è la sua stessa essenza di vita: lo spreco di denaro pubblico, il clientelismo, i privilegi, la vanità ostentata nei media, la bella e agiata vita nei salotti che contano.
Due Paesi, da una parte l’oligarchia, creata, sostenuta e mantenuta da partiti politici slegati dalle necessità della gente perbene, dall’altra quest’ultima, perennemente illusa dai politici che le proprie difficoltà potranno essere risolte dando fiducia a questo o quel partito, questo o quel candidato premier, ma puntualmente delusi e gabbati a urne aperte e conteggi terminati. Infatti nel breve volgere di poche ore, si passa da mirabolanti promesse di risolvere qualsiasi problema, ad un totale disinteresse verso la gente, anzi, con la ineluttabilità di politiche “lacrime e sangue”, ma indispensabili per il bene comune.
Le vicende giudiziarie, economiche, sociali e di costume che negli ultimi anni hanno interessato la politica italiana, hanno creato in me uno sdegno come mai prima mi era capitato di vivere.
Da decenni gli uomini politici italiani stanno sistematicamente provocando e umiliando i cittadini con promesse non mantenute, battute da barzellettieri, mediatiche provocazioni lessicali, frasi fatte, ma soprattutto con comportamenti maleducati, squallidi, che trasudano ignoranza, viltà e arroganza, mentre schiacciano con tasse, burocrazia e familismo la società tutta, in particolare nei suoi esponenti più onesti, preparati e laboriosi.
I politici, o per meglio dire, “La Casta1”, ha prodotto danni forse non ancora irreversibili, ma che saranno difficili da rimuovere se non con la fatica di diverse generazioni di cittadini, perché ricostruire una società di persone oneste umiliate nel presente e sfiduciate nel futuro sarà impresa ardua, dolorosa e di lunga durata.
Quotidianamente la protervia con la quale i nostri (dis-)onorevoli si muovono nei palazzi del potere non può che suscitare un istintivo moto di ribellione che, se non ancora concretizzato con la forza bruta, lo è a livello di percezione generale e di considerazione sociale riscontrata tra la popolazione.
Ma non possiamo, né dobbiamo starcene in silenzio a subire tutto questo, Thomas Paine, uno dei grandi artefici dell’indipendenza degli Stati Uniti d’America, sosteneva che “la cortesia, e persino il silenzio, da qualsiasi motivo siano dettati, tendono a produrre effetti nocivi quando avallano, sia pure in minimo grado, azioni vili e malvagie2”.
La politica italiana sembra tutta imperniata sulla massima andreottiana “il potere logora chi non ce l’ha”, frase che, se analizzata lucidamente, fa rabbrividire in quanto denota una concezione del potere fine a se stesso, di politici volti all’esercizio del potere quale sfoggio di vanità, non con senso di responsabilità. In questa frase non c’è il benché minimo timor di Dio per la gestione di un potere che può condizionare la vita sociale, economica e produttiva di milioni di persone, bensì lo sfoggio di vanità, arroganza e protervia che il ruolo conferisce a chi lo esercita.
Siamo lontanissimi da ciò che realmente il potere dovrebbe significare per un essere umano, ossia il senso di responsabilità, l’essere angustiati dal tarlo del dubbio circa ogni decisione assunta, la sofferenza interiore nel sapere che ogni propria scelta può incidere sulla vita di una smisurata moltitudine di persone.
Thomas Jefferson, uno dei più illustri padri fondatori degli Stati Uniti d’America e Presidente dal 1801 al 1809, così si esprimeva riguardo l’agire di un uomo politico: “I grandi principi della giustizia e dell’ingiustizia sono comprensibili a chiunque: perseguirli non richiede l’aiuto di molti consiglieri. Tutta l’arte di governare consiste nell’arte di essere onesti. Mirate solo al vostro dovere e l’umanità vi concederà la sua fiducia quando fallirete3”.
Quanta verità e quanta virtuosa distanza con la succitata massima andreottiana, qui viene tracciata la via alla quale un politico deve conformarsi, non la gestione del potere fine a se stesso, bensì l’essere onesti in ogni proprio atto di governo, con ciò marcando una profonda differenza: dal politico interessato e rivolto alla gestione del potere in sé e per sé, al politico che deve essere soprattutto onesto nei propri atti, servendo così il suo popolo al meglio delle proprie possibilità, morali ed intellettive. Un potere che è servizio onesto ai cittadini, anziché gestione privatistica, familistica e clientelare fine a se stessa.
Già Alberto Savinio, in un libretto del 1943 intitolato “Sorte dell’Europa”, individuava la “retorica” quale “male endemico del nostro Paese, il male che inquina la nostra vita, la nostra politica, la nostra letteratura, una delle cause principali, se non addirittura la principale, delle nostre sciagure4”.
La rabbia della gente comune per una vita sottomessa ed umiliata dalle scelte della “Casta”, mi ha spinto a scrivere questo libro, di critica, di rabbia e di proposta politica, affinché possa essere sia un valido strumento di analisi politico-sociale, sia una utile piattaforma per proposte che limitino e vincolino a maggiore onestà e concretezza l’azione politica dei nostri immarcescibili (dis)-onorevoli.
Chioso riprendendo uno stralcio di un articolo del giornalista e scrittore Massimo Fini: “Guardo alla tv i nostri uomini politici, di destra e di sinistra, e mi chiedo perché mai questi personaggi da avanspettacolo devono comandarci. E il ricordo va all’austerità di Luigi Einaudi, di Alcide De Gasperi, di Giorgio Amendola. Il mondo è cambiato, si dirà. È vero. Oggi, in Italia, si può diventare ministri arrivando direttamente dallo show business. Giorni fa un amico londinese mi diceva, con una piega beffarda che gli stirava le labbra sottili: “Qui in Gran Bretagna si ride di voi”. Ho risposto: “Non c’è bisogno di essere stati educati a Oxford per ridere dell’Italia. Neanche nel Burkina Faso ci prendono sul serio5”.
Sulla stessa lunghezza d’onda vi è un altro giornalista e scrittore, Maurizio Blondet: “…un Paese senza classe dirigente, dove comanda chi “non deve comandare”, ossia loschi buffoni, demagoghi da quattro soldi, preti ignoranti, tutti senza visione del futuro e senza capacità di progettarlo. Ma è anche la storia di un “popolo” che, una classe dirigente, positivamente, la rifiuta. Che, come lo zappatore e il cafone quando va al mercato in città, diffida del colto dottore, e invece crede ciecamente al venditore ambulante d’olio di tigre e di altre pozioni da miracolo, si affida ai loschi buffoni e ai saltimbanchi che lo lisciano per il suo verso, lo contentano nelle sue richieste immediate, nei suoi impulsi istantanei6”.
È ora di cambiare registro.


Note introduzione

1 “La Casta” è il titolo del libro scritto da Gian Antonio Stella e Sergio Rizzo nel 2007, che ha inesorabilmente marchiato con questo sostantivo a carattere spregiativo la classe politica italiana.

2 Tratto da “Senso comune” di T. Paine.

3 Tratto da “Thomas Jefferson – Federalismo e Democrazia” (capitolo “Esposizione sommaria dei diritti dell’America britannica (1774)”) a cura di L.M. Bassani.

4 Tratto da “La retorica del 25 aprile” di M. Fini, pubblicato su “Il Giorno” del 29 aprile 2001.

5 Tratto da “Volgarità, disonestà e cinismo. Non mi riconosco in questa Italia” di M. Fini, pubblicato su “Il Gazzettino” del 16 maggio 2008.

6 Tratto da “Selvaggi con telefonino” di M. Blondet.



Non è un Paese per giovani-Riflessioni e proposte per la politica italiana


A mio figlio,
Alessandro


IL PUNTO DELLA SITUAZIONE

“Qualsiasi imbecille è capace di governare
mettendo delle tasse”.
Maffeo Pantaleoni

La crisi della politica italiana risale a prima che la meritoria inchiesta d’inizio anni Novanta da parte del pool “Mani pulite” di Milano iniziasse a falcidiare i partiti politici “storici” della Prima Repubblica, per poi approdare nella cosiddetta Seconda Repubblica; definizione quest’ultima utile più per facilitare la comprensione della sequenza temporale della cronaca politica, che per la veridicità della caratterizzazione storica della politica e dell’ordinamento politico italiano degli ultimi vent’anni.
Ma facciamo un passo indietro.
Il Sessantotto, lungi dall’aver liberato dalle catene della sudditanza e dell’inferiorità le classi sociali meno abbienti per garantire loro diritti prima mai usufruiti, nella realtà ha solo mostrato il volto più violento, ipocrita e nullafacente della società italiana, dove i figli della cosiddetta “borghesia bene”, in odor di laurea, protestavano per avere senza fatica quello che i loro genitori si erano guadagnati con sacrificio. La lotta per i diritti della classe operaia fu solo uno specchietto per le allodole, tanto che ancora oggi la classe operaia italiana, nonostante combattivi sindacati di categoria, scioperi, manifestazioni, blocchi e quant’altro, risulta essere la meno pagata tra i Paesi di pari rango d’Europa.
Col pretesto di creare una società più giusta, più eguale, si è messo al bando ciò che più caratterizzò la generazione dell’immediato secondo dopoguerra, e che portò al boom economico degli anni Cinquanta e Sessanta: l’impegno, la fatica, il sacrificio, il merito. Tutto questo veniva spazzato via dalla spocchia di viziati e viziosi giovinetti allevati nel lusso delle loro famiglie borghesi, che senza meriti e fatiche si apprestavano a cavalcare l’onda dei diritti civili per farsi classe dirigente, infiltrandosi e occupando i gangli dell’apparato pubblico italiano.
Ed è così che gente totalmente aliena al merito, alla fatica, alle capacità, all’impegno fisico o intellettuale, contando sul solo sforzo del chiacchiericcio e la capacità di imbonire attraverso i media, ha scalato i gradini della politica per diventare negli anni, nei decenni, la classe dirigente degli anni Ottanta e Novanta, quella del debito pubblico alle stelle, della mancata crescita economica, del degrado dell’istruzione ad ogni livello, soprattutto quello d’élite delle Università, della corruzione dilagante, della cementificazione selvaggia, della contiguità con la malavita organizzata e con il brigatismo militante, della solidarietà pelosa a spese d’altri, dell’arroganza del potere espressa in ogni sua ramificazione e unità di qualsiasi ordine e grado, dell’irresponsabilità nei propri atti, della menzogna e dell’omertà elevate a ragion di Stato.
Coloro che avrebbero voluto liberare la società dal vecchiume, l’hanno cristallizzata con la loro arrogante e ignorante presenza, a loro volta impossibile da rimuovere.
La politica adottata da allora è stata quella della crescente spesa pubblica, giustificata con il fine di creare “giustizia sociale”, quindi opportunità ai meno abbienti, in realtà si è creata una società di caste, dove solo l’appartenenza ad una di esse poteva garantire possibilità di carriera, non certo qualità e merito. Pertanto l’obiettivo era solo quello di potersi sedere al tavolo del potere per partecipare alla “spartizione della torta”, ossia della ricchezza da altri creata ma che la politica poteva permettersi di appropriarsene per redistribuirla a fini di tornaconto politico-elettorale-economico.
Questo modus operandi reiterato nel tempo, nei decenni, ha privato la società italiana intera della cultura dell’impegno, della fatica, del merito; perché darsi tanto da fare quando le giuste conoscenze o la semplice appartenenza ad un determinato clan possono garantire carriera, onori e lauti guadagni? Una domanda retorica.
Mentre per coloro che credevano ancora nella fatica, nel merito e nelle capacità, non rimanevano che tre possibilità, o combattevano con più determinazione e, forse, a fatica riuscivano a ritagliarsi la fetta di meritata gloria personale, oppure se ne andavano all’estero, da sempre vera patria degli italiani meritevoli, oppure rimanevano in Italia a deprimersi nei propri insuccessi, nelle proprie frustrate ambizioni, nei propri inutili sacrifici.
Ma dagli anni Ottanta e Novanta ad oggi la situazione non è cambiata in meglio, bensì persino peggiorata, infatti a seguito della meritevole inchiesta di “Mani pulite” da parte del pool di magistrati di Milano, crollarono i partiti storici nati nel secondo dopoguerra e, contestualmente, figure politiche di primissimo piano vennero investite da scandali e vergogne a profusione, con la conseguenza che qualcuno dovette o allontanarsi dall’attività politica o accontentarsi di ruoli di minor rilievo all’interno di partiti nati da continui rimescolamenti di nomi, simboli, casacche, slogan. Tuttavia quello che poteva essere un momento storico unico e tanto agognato per spazzare via una classe politica corrotta e nefasta, non ha rispettato le attese così come in altri momenti della storia italiana, e figure politiche di terza e quarta fascia presenti nei partiti storici del Secondo dopoguerra travolti dall’inchiesta si sono trovati, quasi senza volerlo e sicuramente senza meritarlo, a svolgere un ruolo di primo piano in quella che tutti i media hanno ribattezzato quale Seconda Repubblica.
Figure abituate da anni a vivere all’ombra di politici di primo o secondo rango, avvezzi al servilismo, ignari di cosa fossero capacità, meriti, preparazione e responsabilità nelle scelte, livorosi ed invidiosi, pronti a sbranare un pezzo di potere come sciacalli appena si fosse presentata loro l’opportunità.
Sì perché la disastrosa classe dirigente politica degli anni Settanta e Ottanta almeno una sola piccola nota di merito l’aveva, le figure politiche apicali dei partiti si prendevano le responsabilità delle scelte o delle non scelte compiute, governavano in maniera disastrosa ma non si nascondevano: almeno ci mettevano la faccia.
Mentre dagli anni Novanta ad oggi la situazione è precipitata ancora più di prima.
Partiti politici nati da continui rimescolamenti parlamentari, prima nel “palazzo” e poi sul territorio, con simboli, nomi e colori che si avvicendano frenetici ma senza un reale riscontro di elettori sul territorio, partiti padronali e “leaderistici” che segnano una inevitabile mancanza di dialogo ed elaborazione politico-culturale al proprio interno, ma che hanno come unico sfogo la divulgazione mediatica di slogan ad effetto sul cittadino-elettore.
Bandita l’ideologia, in quanto appartenente ad un’epoca precedente al crollo del Muro di Berlino e dell’inchiesta “Mani pulite”, non si è approdati ad una nuova elaborazione politico-culturale, non si è scelto il silenzio per pensare ai disastri prodotti e pervenire ad una proposta politica che fosse partorita da gente onesta, preparata, meritevole.
Bensì si è pervenuti ad una proposta politica elaborata da incapaci, rozzi e ignoranti, basata sulla demonizzazione dell’avversario politico, su slogan che facessero immediatamente presa sulla parte più suggestionabile delle persone, su riti, immagini e gesti che, quando non volgari, risultavano ridicoli, fine a se stessi, anzi, pensati proprio per essere efficienti solo se finalizzati alla fruizione dei media, televisione in primis. Una sorta di sagra di paese con caviale, champagne, giacca-cravatta-doppiopetto e sorriso smagliante d’ordinanza; ma anche insulti, voci roche, pernacchie e dito medio per mostrarsi incattivito, un combattente virile, pertanto anche incorruttibile, alla propria gente.
Ma tutti i nodi prima o poi vengono al pettine, e oltre al doppiopetto e agli insulti si celano nella migliore delle ipotesi inconcludenti personaggi politici, se non addirittura inquisiti e condannati dalla magistratura.
I partiti padronali e “leaderistici” hanno appiattito, se non addirittura eliminato, l’elaborazione di concrete proposte politiche, e portato alla convinzione che la candidatura e l’elezione dei parlamentari fosse tanto più sicura quanto più ci si dimostrava obbedienti, servili e proni al volere e ai diktat del proprio leader di partito.
La cieca obbedienza al leader, la difesa dell’indifendibile in termini di linguaggio, atti e fatti del leader, la totale acquiescenza delle proprie poche cellule cerebrali al fine di non elaborare né proporre nulla che potesse anche solo rischiare di urtare la sensibilità del leader, sono i comportamenti minimi per avere chance di carriera politica.

[continua]


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