Da Chiavenna allo Spluga - Prose e poesie per una valle alpina

di

Rosa Maria Corti


Rosa Maria Corti - Da Chiavenna allo Spluga - Prose e poesie per una valle alpina
Collana "Le Schegge d'Oro" - I libri dei Premi - Narrativa
15x21 - pp. 156 - Euro 14,50
ISBN 978-88-6037-8934

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In copertina: “Uno sguardo sulla Valchiavenna. Portale d’ingresso di Palazzo Vertemate Franchi, Prosto di Piuro” Fotografia di Rosa Maria Corti

All’interno fotografie di Rosa Maria Corti


Pubblicazione realizzata con il contributo del Club degli autori quale premio, in quanto autrice 8^ classificata al Concorso Il Club dei Poeti 2009


Presentazione

La memoria del passato è indispensabile per comprendere il presente. Il ricordo di ciò che si era e le radici della propria terra sono fondamentali per capire l’odierna condizione, per alimentare la nuova dimensione che guarda al futuro. Rosa Maria Corti, con la sua narrativa, cerca di vedere realmente ciò che è davanti agli occhi, in una fusione tra passato e presente, di conoscere e capire la vita dei borghi, delle vallate e delle comunità montane che racchiudono un universo di memorie storiche, di segni evidenti del passaggio di alcune popolazioni, di multiformi usi e costumi, di tradizioni e leggende. Ecco allora che il libro Da Chiavenna allo Spluga diventa “occasione” e spinta propulsiva per una intelligente riscoperta, direi conferma, della storia della regione alpina, dal Piano di Chiavenna alla Valle Spluga, fino alla Val Bregaglia con Piuro e Villa di Chiavenna. Rosa Maria Corti alimenta i suoi racconti, intensi e profondamente legati all’umanità dei suoi protagonisti, ed espande la memoria storica grazie ad una continua ispirazione che nasce dall’atmosfera della montagna, dalla sua peculiarità che racchiude le bellezze naturali, i caratteristici borghi e le preziose chiese fino alle sperdute baite: simboli della vita stessa, a volte, “reperti” da salvaguardare, da estrarre dai sedimenti e dall’oblio dell’Uomo. Un vecchio palazzo, un affresco in una chiesa, uno stemma gentilizio in pietra, una epigrafe come tante, un vicolo che ha il profumo del tempo… e siamo insieme all’Autrice, in cammino con lei, tra il suono d’una sorgente e i rintocchi d’una antica campana che riconduce al Tempo, sovrano dominatore, tra acqua e cielo, tra Umano e Divino. La profonda conoscenza e i continui riferimenti storici, nonché la paziente ricerca documentale, permettono a Rosa Maria Corti di creare e ricreare racconti affascinanti, in perfetto equilibrio tra storie legate alla realtà della regione e avvenimenti fantastici, cronistoria e creatività letteraria.
Ecco allora le vicende collegate alla vita degli emigranti che fuggono dalla dura realtà della montagna e gli episodi che riconducono al periodo della guerra durante il transito del passo del San Gottardo, che si mescolano con la leggenda dei “Salvadeghi”, chiamati anche “Pelus”, misteriose creature che vengono allo scoperto di notte, uscendo dalle grotte ed impaurendo pastori e viandanti sui sentieri della valle; e poi, la rivisitazione fantasiosa d’un incontro tra un mercante e il vescovo Pier Paolo Vergerio, con l’ironica trovata circa il mestiere di “restauratore”, non di mobili ma della Chiesa, da ricondurre alle fonti evangeliche per la “restaurazione” di una società rurale; e ancora, la storia della bella ragazza dell’affresco sulla parete della chiesa di San Giacomo, con sottofondo l’accusa di presunta strega con capacità di maleficio; o le vicissitudini della lusitana Anna Nunes, la sua vita come un lungo travaglio fino alla fine dei suoi giorni, sepolta nel cimitero della collegiata di San Lorenzo a Chiavenna; e, infine, la visita nella Valle Spluga da parte di Hans Christian Andersen che, durante una sosta imprevista, rimane affascinato e la sua anima pervasa dalla magia di quel luogo.
Un tuffo letterario che riporta in superficie eventi storici, ambienti magici e conflitti religiosi, invenzione e fabulazione: mettersi in cammino con Rosa Maria Corti significa, in definitiva, avvicinarsi a tutto ciò che esiste di meraviglioso nel mistero della vita, in un abbraccio che non conosce la polvere del tempo.

Massimo Barile


Prefazione

Nella seconda metà della decina di anni che faccio parte della giuria nel Concorso internazionale di poesia e narrativa “La montagna Valle Spluga” il nome e gli scritti di Rosa Maria Corti Terragni mi sono diventati familiari: per la narrativa si è classificata terza nel 2005, prima nel 2006, quinta nel 2007, di nuovo terza nel 2008 e prima nel 2009. C’è un rischio quando si tratta di fare classifiche, escludendo ovviamente la mala fede: quello di essere involontariamente trascinati dalla conoscenza del nome e delle posizioni conquistate dal concorrente in quel concorso o in altri analoghi. Ma non è il nostro caso, in cui si opera su materiali anonimi e solo a cose fatte dal Club degli autori vengono resi noti i nomi corrispondenti ai numeri. Eppure in questi anni i racconti della Corti Terragni hanno riscosso nei giurati ampi consensi.
Il segreto – se così si può dire – sta nel partire da una non occasionale conoscenza della storia e della cultura locale, che viene rielaborata con libertà e freschezza inventiva, con un periodare fluido e avvincente. Nei racconti della Corti Terragni passano così davanti al lettori “i salvadeghi” che saltano fuori di notte e che popolano tante leggende, mentre San Carlo Borromeo è in visita in Valchiavenna (anche se in effetti questo rimase un suo desiderio inappagato per l’opposizione dei dominanti grigioni, in maggioranza protestanti); o il vescovo di Capodistria Pier Paolo Vergerio che, passato alla riforma, fu predicante a Chiavenna e Piuro, prima di andare in Germania. Sono sempre quei secoli di sudditanza grigione a far da sfondo alla ragazza in un affresco nel santuario di San Guglielmo, tra commissari alle prese con interrogatori alle presunte streghe; o alla vedova portoghese sepolta nel cimitero della collegiata di Chiavenna, di cui fa fede una lapide del 1549.
Ma si prende anche spunto dagli emigrati a Roma, che però non aspettano che di tornare al loro paese e all’ambiente genuino dei padri; o dall’ambiente riposante di Isola sotto lo Spluga; o dal pendio di Menaròla con i suoi contrabbandieri d’un tempo. Compare anche il tempo di guerra, in passato frequente, oggi per fortuna – ma non dovunque – scomparso: chi sul Don ha trovato un briciolo di umanità nelle isbe e chi riesce a rientrare in patria dal confine italo-francese attraverso il San Gottardo e lo Spluga. Altre ambientazioni sono al Ponte del Passo, all’imbocco meridionale della Valchiavenna o in Engadina o direttamente in Valchiavenna, come la visita ripetuta del novelliere danese Cristian Andersen con il cosiddetto corriere di Lindò.
Anche nel settore poesia si è distinta la Corti Terragni. Fra i tredici componimenti qui pubblicati, cinque hanno avuto secondi o terzi premi o riconoscimenti speciali. È sempre la Valchiavenna a dare ispirazione e anche a dettare una decina di trittici ispirati a località diverse, tra cui Madesimo come omaggio a Giosue Carducci e all’amata Annie Vivanti, illustri ospiti a cavallo tra otto e novecento.
Chi scrive, anche quelli che si sforzano di sostenere di scrivere solo per sé stessi, ha una segreta, forse inconscia, aspirazione a pubblicare, perché noi parliamo e scriviamo per comunicare ad altri. Bene allora un libro di racconti e poesie, come questo, che non è da consumare in poche ore e da trangugiare, ma da accostare a poco a poco, in momenti diversi, magari tornando sul già letto e meditando. Vale per i racconti, ma – ancor più – per la poesia, che proprio perché materialmente “inutile”, è quanto di più alto l’uomo riesca a esprimere e a lasciare come testimonianza del suo passaggio.

Guido Scaramellini


NOTA DELL’AUTORE

Troppo spesso, diretti alle mete internazionali dello sci reclamizzate a gran voce dai media, attraversiamo col ritmo rapido, tipico peraltro della vita moderna, una miriade di villaggi, di piccoli paesi, senza nulla “vedere” e “conoscere” realmente. Varrebbe invece la pena di rallentare il nostro andare, rimodularlo sul ritmo degli antichi pellegrini ed alzare i nostri occhi per scoprire una varietà di paesaggi e interessanti dettagli caratterizzanti una valle ricca di mille contrasti quale è la Valchiavenna.
Personalmente devo ringraziare gli organizzatori del Concorso internazionale di poesia e narrativa “La Montagna Valle Spluga”, giunto alla decima edizione, infatti il concorso ha rappresentato per me l’occasione di riscoprire questa regione alpina attraversata dai fiumi Liro e Mera, un tempo importantissima via commerciale e di transito tra il Nord Europa e la Pianura Padana, che comprende il Piano di Chiavenna con i suoi monti e le sue valli, la Valle Spluga o Val San Giacomo (Val di Giüst, in dialetto) e la Val Bregaglia italiana, con i comuni di Piuro e Villa di Chiavenna. Se il centro più importante è Chiavenna con le sue suggestive piazze, le fontane ed i portali in pietra ollare, il Parco archeologico botanico dove convivono armoniosamente essenze esotiche e nostrane, le “Vie Storiche”, che collegano la Valchiavenna con la Svizzera, popolate nei secoli da pastori, contrabbandieri ed emigranti e percorse da sconosciuti viandanti come pure da illustri personaggi, sono fonte di inesauribili scoperte e pertanto meritano molto di più d’una occhiata rapida e sommaria.
A stimolare le mie ricerche, ad ispirare i miei racconti e le mie poesie, è stata a volte la montagna, che suscita elevati e nobili pensieri, forte della presenza di una natura che non smette mai di stupire con i suoi ghiacciai, le sue acque bianche di spuma nelle cascate, il bosco nella sua splendida veste primaverile o autunnale, a volte invece il paesaggio antropizzato, una terra contrassegnata da pittoreschi nuclei, baite ed alpeggi, castelli e palazzi, chiese e cappelle. Molto spesso a stuzzicare la mia curiosità sono stati dettagli minimi: una balaustra in pietra ollare, i decori a sgraffito di un palazzo, un prezioso affresco murale, un vecchio ballatoio con le pannocchie stese al sole, una graziosa loggia sul fiume, un mazzo di carlina segnatempo appeso ad una antica inferriata, uno stemma gentilizio, un’epigrafe, un vicolo soleggiato fra antichi carden…
Passo dopo passo ho scoperto che è bello camminare senza fretta, esercitando tutti i nostri sensi, assaporando profumi che ci riportano indietro nel tempo, accarezzando la corteccia di un albero o un ciottolo di fiume, ascoltando lo zampillare d’una fontana, la voce di un torrente e gli smorzati rintocchi d’una campanella lontana. Passo dopo passo ho scoperto che non è difficile riappropriarsi di sensazioni perdute, sentirsi in armonia con l’ambiente circostante, riannodare i fili di passate esistenze, scoprire che vi sono mille occasioni per incontrarsi, per conoscersi e per incantarsi.


Da Chiavenna allo Spluga - Prose e poesie per una valle alpina


E se l’avvenire dell’albero e il suo progresso verso
l’alto sono sopra la terra, le radici sono sotto la terra.
E ciò significa che l’avvenire è alimentato dal passato.
Guai a coloro che non coltivano il ricordo del passato:
sono gente che seminano non sulla terra, ma sul cemento.

Giovanni Guareschi

Le passé est la clef indispensable
pour toute compréhension serieuse
du temp présent.

Fernand Braudel


LA MONTAGNA VALLE SPLUGA
E I “SALVADEGHI”

In certe mattine autunnali, quando le cime emergono da un mare di nebbia che sale dal fondovalle dove scorre il Liro, è facile fantasticare e, camminando a ritroso fino nella preistoria, risalire a 7000-10000 anni fa, quando un gruppo di cacciatori raggiunse, nella bella stagione, il Piano dei Cavalli, forse anche loro affascinati da una delle più belle valli delle Alpi Lepontine, caratterizzata da cascate che scendono dai pizzi vicini, fitti boschi di conifere, radure dove fioriscono i rododendri e ampie praterie alpine. Quegli uomini, che avevano con sé coltelli, archi e faretre, avevano organizzato i loro ripari sottoroccia e, quando pioveva e si annoiavano, dipingevano e graffivano i loro dei e le figure degli animali che cacciavano. In quelle spelonche si sentivano al sicuro quando dense nubi salivano dal fondovalle ed il cielo si oscurava all’improvviso come sotto una gelida cappa di piombo.
Essi sapevano che tuoni e lampi avrebbero presto conquistato i picchi e gli strapiombi di quelle montagne e così se ne stavano accucciati intorno al fuoco mentre tonfi paurosi, borbottii, scoppiettii, insomma un concerto terrificante, faceva loro battere forte il cuore.
Con la stessa velocità dei fulmini passarono anche i millenni, i secoli, gli anni, ma quelle grotte continuarono ad essere abitate, quei sentieri che talvolta danno l’impressione di camminare sospesi nel vuoto, continuarono ad essere frequentati.
All’epoca di San Carlo Borromeo, quella delle streghe e dei malefici per intenderci, su quei pascoli dove un tempo le cacce erano state abbondanti, in quella valle meravigliosa, incominciarono ad accadere cose strane. Poteva succedere ad esempio che d’estate, quando era il momento di falciare il fieno, i contadini, sul far della sera, udissero strane voci che dicevano: “Lasciateci la falce ed il falcetto e qualche cosa da mangiare”. Se ciò puntualmente avveniva, il mattino seguente i contadini trovavano i prati falciati. Anche i pastori, se lasciavano una ciotola piena di latte ed una pagnotta, si ritrovavano il giorno dopo con il burro ed il formaggio già preparati.
Quando scendeva la nebbia ombre furtive si azzardavano a scendere nei villaggi e qualche volta riuscivano ad intrufolarsi nelle case per rubare manciate di castagne ma soprattutto fette di torta e certi biscotti che sapevano di burro e di erbe profumate.
Il più delle volte si divertivano ad infastidire i viandanti sui sentieri della valle, urlando e buttandosi giù velocemente dai pendii, tanto velocemente che non si riusciva a distinguerne le forme.
Per ovviare a questi gravi inconvenienti, insomma per evitare di trovarsi a tu per tu con queste strane creature, gli abitanti dei villaggi incominciarono ad apporre inferriate in croce alle finestre oppure a costruire queste ultime molto piccole, quasi delle feritoie. Inoltre tutti evitavano di passare vicino a roccioni dove si affermava che i “Salvadeghi” avessero dimora, specialmente di notte e col brutto tempo, che erano i momenti in cui costoro si divertivano di più, probabilmente perché avevano la vista acuta come quella degli animali notturni. Chi era costretto a transitare vicino al loro rifugio, se riusciva a passare inosservato, caso raro per la verità, li sentiva ridere forte, gridare e fare rumoracci. Dimenticavo di dire che “Salvadeghi” è il nome con cui ho deciso di chiamare questi esseri bizzarri, ma, in quei tempi lontani, capitava di sentirli nominare anche in altri modi e precisamente: “Pelùs”, “Salvàn”, “Omeón del bósch”, “Crescìt”, “Bràgˆola”, ecc.
Col tempo i “Salvadeghi” si fecero sempre più capricciosi e dispettosi: leccavano in un batter d’occhi la panna che affiorava dalle conche del latte, afferravano lesti le pagnotte appena sfornate, rubavano in una manciata di secondi tutti i panni stesi sui prati ad asciugare, facevano sparire, anche di giorno, qualche capra e qualche pecora; si diceva infine che, approfittando delle giornate di nebbia, rubassero persino i bambini.
A quel punto la popolazione cominciò a non poterne più. Giacché a nulla era valsa la proverbiale solidarietà della gente della valle, che sempre si era aiutata per fare strade, costruire case, spalare neve, si decise di chiedere aiuto alla Chiesa. Non essendoci però in Diocesi sacerdoti in grado di risolvere il problema, ci si rivolse nientemeno che a Carlo Borromeo.
Il sant’uomo aveva fatto il suo ingresso a Milano con la dignità di arcivescovo nel 1564, ma già alcuni anni prima si era distinto nella lotta contro l’eresia e la stregoneria, non solo nella sua diocesi ma in tutta l’Italia settentrionale. Fu così che nel mese di luglio il giovane cardinale giunse in visita in valle, dopo aver attraversato Chiavenna in una “notte oscurissima” con grandissima pioggia. Qui l’indomani mattina di buon ora pregò e, davanti all’attonita popolazione, predicò che il “falso inimico”, l’essere che tutto può con la complicità di streghe e stregoni, può far capolino ovunque, spesso come una bella signora nella quale solo i piedi non hanno forma umana, altre volte invece con le sembianze del porco, simbolo di lussuria e delle tentazioni, altre ancora con quelle di creature insolite e misteriose. Più tardi si risolse a risalire la vallata, da solo, rifiutando qualsiasi scorta e pur anche l’ausilio di una cavalcatura.
Giunto alla meta il prelato tolse da una sorta di zaino una bella tovaglia bianca e la stese nei pressi del più gran roccione, posto a precipizio sulla montagna, dopo avervi imbandito, lui che era avvezzo ad una tavola più che frugale, un’invitante colazione: torte, biscotti e altre leccornie di cui i “Salvadeghi “ erano tanto golosi. Essi, infatti, incuranti dell’uomo, uscirono dai loro nascondigli e si precipitarono verso il cibo urlando come erano soliti fare.
A quel punto San Carlo Borromeo levò alto il braccio e tracciò sui “Salvadeghi” un segno di croce. Si alzò un vento che sollevò la tovaglia e tutte le creature che l’affollavano precipitarono nel baratro sotto il roccione, in mezzo a sibili, schianti, boati, alle voci dei “confinati” dei “maghét”, delle streghe e di tutti gli spiriti della valle.
Da quel giorno nessuno vide più quelle creature ma ancor oggi, quando le forze della natura si scatenano ed i bambini si nascondono fra le braccia dei genitori, c’è qualcuno che sostiene di udirne le grida.

Opera 3ª classificata al Concorso Internazionale “La Montagna Valle Spluga” 2005


“QUELL’ AMORE DI MONTAGNA”

Il vecchio mastro di posta, inconfondibile per il paio d’enormi favoriti, aveva terminato la vendita dei biglietti ed i bagagli erano già stati tutti sistemati sul tetto della diligenza. Il cocchiere allora salì in serpa e, dopo uno squillo di tromba, fra un tintinnare di sonagliere, schioccar di frusta e gioco di briglie, il “Corriere di Lindò”, uno splendido cocchio a quattro, partì alla volta del Passo dello Spluga.
Un passeggero però rimase a terra, stette per un po’ ad osservare la carrozza postale che si allontanava con il suo carico di passeggeri, lettere, giornali, denaro e merci, poi, lentamente, passando sotto uno dei tanti portoni dove venivano riscossi dazi e pedaggi, si avviò lungo la via principale diretto al centro di Chiavenna.
Si sforzava di osservare le antiche facciate dove erano splendidi affreschi che la dicevano lunga sull’eccellenza degli abitanti del luogo, sui loro timori, sulle loro occupazioni, dipinti che, in altra occasione, lo avrebbero interessato ed ispirato, ma in quel momento la sua mente era come vuota, nemmeno s’accorgeva della gente che accanto a lui camminava leggera, con il volto pieno d’ottimismo.
L’inverno era nell’aria ed il bosco, ora incendiato dalla ruggine autunnale, presto sarebbe stato coperto da neve e cristalli di ghiaccio. Lo sconosciuto sapeva che avrebbe fatto meglio a salire su quella carrozza, poiché se il viaggio di andata all’inizio dell’estate era avvenuto sotto un temporale incessante e, in una sorta di incubo apocalittico aveva valicato il passo giungendo da Splugen a Chiavenna, quello di ritorno con la neve sarebbe stato ancora più difficile e tormentoso.
Eppure qualcosa lo aveva trattenuto. Appena si era incamminato aveva avuto la sensazione di sottrarsi alle sue responsabilità ma più forte del senso di colpa era stato quello dell’ineluttabilità, come se il destino avesse deciso per lui sollevandolo da ogni dubbio e perplessità.
Ricordava quando un mese prima aveva deciso di andare fino a Como per visitare le splendide basiliche romaniche, opera di quelle abili maestranze, i Magistri Comacini, che si erano spinte in tutta Europa, finanche nella sua terra. Partito da Chiavenna, diretto verso Colico, dopo un miglio il cavallo era come impazzito e lui era dovuto tornare indietro a piedi in quel paese che sembrava trattenerlo con fili invisibili eppure tanto tenaci.
Andava dunque per le vie del borgo, fra case imponenti, piazze dalla caratteristica pavimentazione acciottolata, bei portali e fontane di pietra. Sentiva che camminare gli faceva bene e aspirava avidamente i profumi della frutta matura e del buon cibo che si diffondevano tutt’intorno mescolandosi con quello della legna bruciata. Gli piaceva apprezzare il mondo che lo circondava attraverso sapori ed odori; tutti i suoi sensi, quando viaggiava, erano all’erta: vista, udito, ma soprattutto gusto ed olfatto agivano nel profondo dell’animo suo, provocando potenti emozioni e muovendo esaltanti sensazioni.
I profumi risvegliavano in lui sopiti ricordi di luoghi ed occasioni. Del suo ultimo viaggio in Italia, compiuto nel 1852, ricordava lo spettacolo delle file dei cocchi e dei cavalli in mezzo alla folla elegante che formicolava nei viali al centro di Milano, quello raccolto ed insieme festoso del Lago di Como, il profumo dell’uva matura che si arrampicava in turgidi grappoli sul muro di una vecchia locanda, nei pressi della confluenza del Mera col Lago di Novate. L’ostessa aveva portato un “bianco” trasparente ed un piatto di pesce odoroso di burro e di salvia. Dopo pranzo si era incamminato lungo la riva del lago verso un tempietto, indubbiamente molto antico, che si stagliava su uno sfondo di canneti.
Gallinelle d’acqua si tuffavano a pescare e riemergevano con l’alborella d’argento dentro il becco. Accanto a loro pochi cigni alteri si lisciavano le candidissime penne incuranti di un piccolo e brutto anatroccolo che sbatteva le ali sforzandosi, con tanta fatica, di prendere il volo. C’era odore di muschio, d’alga decomposta, di lago ed il piccolo si era voltato verso di lui per un istante, come per chiedere aiuto. Ricordava quello sguardo dolcissimo, quasi umano, come fosse stato ieri… eppure da quel giorno erano passati quasi cinque anni.
Il vociare della folla riscosse il viaggiatore dai suoi pensieri. Nel luogo dove nel frattempo era giunto, una bella piazza al cui centro sorgeva una fontana ottagonale in pietra ed ai cui lati spiccavano alcuni portali nello stesso materiale, stava un uomo dall’aspetto fuligginoso intento a riparare una pignatta. Lo straniero appoggiò il suo scarno bagaglio per terra e stette ad osservare l’artigiano. Pareva un chirurgo intento a praticare una sutura, con un impasto simile ad una pappa e quand’ebbe terminato, dall’espressione soddisfatta della donna che si riprese l’oggetto, una pentola in quella “pietra ollare” di cui parlava già Plinio, si capiva che il lavoro era stato eseguito a regola d’arte. Lo sconosciuto viaggiatore riconobbe in lei la bionda e robusta ostessa di Campodolcino, dove era stato una decina di giorni prima, che gli aveva servito, nella piccola e bassa “stüa”, un piatto generoso di “brisàola” seguito da carni profumate cotte in un caldo grembo di pietra e accompagnate da una bottiglia di vino robusto che gli aveva messo in corpo una grand’energia e risvegliato la vena letteraria. Dopo pranzo se n’era andato pigramente a zonzo lungo il torrente Liro. Qui, tra precipiti massi, cullato dal ronzio della corrente, s’era addormentato e fra scaglie di luce, come in un miraggio, la pietra aveva preso la forma di un’incantevole sirenetta. Il suo canto ammaliante era risuonato a lungo come spampanato dal vento e la sua nudità era stata coperta dai flutti del torrente in amore. Al risveglio, tremavano ancora le isobare dei sensi e germinavano a grappoli i suoi pensieri, un fremito di meraviglia, di stupore gli era salito dai precordi. In quella contrada rurale, in quel luogo selvaggio, aveva avuto la sensazione d’assistere allo sgretolamento della natura e alla sua rinnovata creazione. Anche l’apparizione di quella mitica creatura non poteva essere stata casuale ed egli vi volle scorgere un segno a lui indirizzato, un messaggio speciale. La sua anima si era nutrita di quelle immagini per lui inusuali e spaventosamente belle; il suo sguardo, dalle rocce levigate del fiume, era risalito, in un paesaggio di pascoli e baite dorate dalla smagliante luce settembrina, fino ai duri crinali, alle rocciose cime innevate che sembrano vigilare amorosamente sul vasto lago di Montespluga. Aveva immaginato le lunghe carovane di muli cariche di merci dirette anche verso la sua terra, la lontana Danimarca, dove avrebbe portato e custodito per sempre la visione dei grandi passi alpini, delle abetaie, dei boschi, dei fondovalle, dove l’uomo strappava alla montagna la terra e costruiva faticosamente muretti e terrazze per coltivare la vite.
Ancora una volta lo straniero tornò alla realtà e riprese il suo andare giungendo, in breve tempo, nel centro del borgo, caratterizzato da un imponente palazzo affrescato con imponenti stemmi ed una bella fontana in pietra. Rientrò nella locanda che aveva lasciato da poco più di un’ora e, dopo aver firmato il registro degli ospiti, salì in camera, la stessa grande stanza a due letti che aveva occupato la notte precedente, dove subito spalancò le finestre dalle quali poteva vedere la chiesa con il suo turrito campanile.
Il proprietario dell’albergo, al piano terreno, si chiese cosa mai avesse indotto a tornare sui suoi passi quel forestiero, peraltro gentile e riservato, che appena arrivato gli aveva chiesto, di venerdì, giorno di magro, una tazza di latte, ma che per il resto non dava alcun fastidio, se ne stava, infatti, tutto solo a disegnare e scrivere su un suo libricino. Merito forse di una donna, della sua cucina, o di quell’amore di montagna?… La curiosità di sapere quali commerci, quali bisogni, quali segreti il misterioso viaggiatore portasse con sé, spinse il vecchio Corradi a dare un’occhiata al registro dove spiccavano, appena vergati, i caratteri ancora freschi d’inchiostro, ma il nome che lesse, H. C. Andersen1, non gli disse nulla.
“Chiavenna sarà la chiave delle Alpi ma è come porto di mare”, borbottò fra sé l’oste sorridendo della sua battuta. “Del resto, se i clienti pagano, io bado solo a far bene il mestier mio” e corse via per servire alcuni avventori che lo reclamavano a gran voce.

Opera 1ª classificata al Concorso Internazionale “La Montagna Valle Spluga” 2006

1 Hans Christian Andersen (Odense 1805 – Copenaghen 1875)
Scriveva lo scrittore: “Le fiabe mi stavano in mente come un seme, ci voleva soltanto un soffio di vento, un raggio di sole, una goccia d’erba amara…”
A me è piaciuto immaginare che l’ispirazione sia venuta ad Andersen proprio quando transitò dalla incantevole Valle Spluga, durante un suo viaggio in Lombardia.


IL MAGICO POPOLO
DELLA MONTAGNA VALLE SPLUGA

Preistorica pace, bianche acque filanti.
Condotti alla briglia i dispettosi folletti
escono dalle loro dorate spelonche,
scendono dai crinali, si riposano in verdi
anfiteatri naturali, ascoltano attenti
la cantilena dei ruscelli, il fresco
e dolce gorgheggiare di uccelli.
Anche Eco, irrequieto e scherzoso,
sembra muto, osserva delle acque
sulle rocciose balze il morbido tessuto.
Si specchiano nelle pozze gli animali del bosco,
intessono fili d’erba le vanitose gazze.
Le fate attendono che sorga la luna
per intrecciare danze al ritmo del vento.
Ed è musica di cembali lo stormire di pini ed abeti,
fra mughi e rododendri si perde l’eterna ballata.
Sotto precipiti massi, nella piccola casa
dalla finestra in croce, qualcuno ascolta
dei Giganti il canto. Risuonano di bambù
le canne strappate agli stagni del Liro nel fondovalle
ed il concerto terreno sale verso Pian dei Cavalli,
riecheggia nella Val di Febbraro
s’eleva oltre la cresta dei monti,
raggiunge del Suretta i ghiacci,
si placa nel magico mondo del lago.

Opera 2ª classificata al Concorso Internazionale “La Montagna Valle Spluga” 2005


SORÈL

Rombo cupo, come di valanga,
sarabanda chiassosa di spettri.
Goffi demoni danzano nella notte
con bizzarre streghe i loro minuetti.
Costretti ad un viaggio senza tempo
con gli occhi cercano qualcosa,
forse quella pace a loro preclusa.
Solo il sorgere del sole mette fine
a tanta pena e crudo tormento.
Ma se t’accosti all’erratico granito
un soffio sentirai come di lamento.


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