Rosa Maria Corti con questa opera è 5^ classificata alla VIII Edizione Premio Letterario Internazionale La Montagna Valle Spluga 2007
Antiche pietre raccontano
La carrozza che, giungendo da nord, saliva verso il passo dello Spluga era guidata da un vetturino che sembrava sapere il fatto suo e ben conduceva i cavalli su per gli stretti e ripidi tornanti. L’unico passeggero, da ciò rassicurato, dopo aver dato un’occhiata al panorama del tutto inusuale per lui e raro comunque a vedersi nel mese di agosto, il sole stava sbucando dalle nuvole illuminando uno scenario d’impervi monti e pascoli innevati, si rilassò e cominciò pensare agli affari suoi, ai motivi che l’avevano convinto ad attraversare personalmente le Alpi per sincerarsi di certe voci che, sempre più insistentemente, erano giunte alle sue attente orecchie.
Semplice garzone di bottega ancor giovane aveva ereditato da un vecchio mercante, vissuto solo al mondo, non solo la ben avviata attività, ma, a detta di chi aveva conosciuto quest’ultimo, anche l’intraprendenza, l’avarizia e la misoginia. Il ricco fondaco, situato non molto lontano dalla cattedrale della potente e florida città di Coira, l’antica Curia Rhaetica, era, in effetti, l’ unica ragione di vita del nostro uomo, scapolo incallito, nonché fonte di grosse preoccupazioni.
Con l’avvento della Riforma religiosa, infatti, egli rischiava di perdere il suo migliore cliente, nientedimeno che l’eccellentissimo vescovo della città. Il suo padrone, a furia di non dormire di notte, battendo l’agguerrita concorrenza, ne era divenuto fornitore ufficiale, riuscendo a procurarsi, anche se a fatica, tutto quello che una simile personalità poteva desiderare, dai preziosi paramenti ecclesiastici alle tovaglie d’altare finemente ricamate, dalle coppe in metallo prezioso agli ottimi vini della Valtellina e Valchiavenna.
Purtroppo ultimamente i traffici commerciali con il Sud, con l’Italia per intenderci, erano diventati difficoltosi, poiché i Grigioni, il paese cioè della lega Grigia, che aveva dato il nome a tutta una regione, erano per due terzi di religione calvinista mentre le popolazioni assoggettate della Valtellina, di Bormio e di Chiavenna, erano cattoliche.
La voce del vetturino che, dopo un’ennesima serie di tornanti, questa volta in discesa, richiamava i cavalli alla sosta presso una vecchia locanda di posta, riscosse per un attimo dalle sue preoccupazioni il nostro, d’altro canto desideroso di sgranchirsi le ossa e di placare il sordo brontolio dello stomaco.
Dopo un’occhiata al superbo panorama della Val San Giacomo ed un’altra al suo bagaglio, invero essenziale, il giovane mercante, entrò nel piccolo ma accogliente edificio.
Nell’unica stanza lunga e stretta sembrava non esserci anima viva, quando però i suoi occhi si furono abituati un poco allo scuro del locale, notò, vicino al camino, dove non languiva ormai che poca brace, un altro uomo.
L’oste, all’arrivo del nuovo ospite, che pareva uomo d’un certo peso, a giudicare almeno dal mantello, dal giaccone foderato di pelliccia e dal farsetto imbottito, si affrettò a riattizzare il fuoco e ad annunciare che presto sarebbe stato servito il pranzo.
Come furono portati cibo e vino i due sedettero quasi contemporaneamente al vecchio tavolo di noce. Per un po’ nessuno parlò, poi, il mercante, che non aveva alzato lo sguardo dal piatto dove filanti gnocchetti di pasta trasudavano odoroso burro, cominciò a rivolgere qualche occhiata indagatrice al commensale suo vicino.
Pallido in volto, la fronte stempiata, lo sconosciuto era di corporatura esile; al contrario, il nostro giovane esibiva complessione robusta, colorito roseo, mascella squadrata, naso carnoso e folti capelli.
Sentendosi osservato il primo alzò per un istante gli occhi rivelando uno sguardo intenso, febbricitante, quasi da fanatico, che gelò subito l’espressione cordiale fiorita sulla bocca del mercante.
Quest’ultimo, dopo aver masticato ancora qualche boccone d’un insolito ma saporito salume e ingollato un sorso di vino, non resistendo alla curiosità, dopo essersi presentato come Giacomo Geeser ed aver accennato vagamente alla sua professione, la prudenza non era mai troppa e numerosi erano i briganti in prossimità dei passi, chiese all’altro chi fosse e dove fosse diretto.
Lo sconosciuto, allontanando il piatto ancor pieno a metà, come infastidito strinse forte le labbra sottili, poi, dopo aver emesso una sorta di sospiro, con voce stridula disse di chiamarsi Pier Vergerio, di professione “restauratore”, di ritorno dal fondovalle dove aveva visitato il contado di Chiavenna e quello di Piuro.
Al nostro non parve vero d’aver trovato qualcuno in grado di fornirgli lumi circa le voci che gli erano giunte e che descrivevano i luoghi dov’era diretto, Piuro specialmente, come pieni di belle ville di nobili, di case di ricchi mercanti con ampi cortili, sontuosi portici ed eleganti colonnati, sale spaziose ornate di pitture ed addobbate di rinomate tappezzerie di Fiandra e d’altri preziosi drappi, dove facevano bella mostra di sé stufe alla tedesca superbissime per lavori d’intaglio, copiose argenterie, pavimenti lastricati di monete d’oro zecchino provenienti dai più svariati paesi, ameni e spaziosi giardini con spalliere d’aranci, cedri, limoni e vasi di legno, di terracotta, di bronzo, di rame e d’argento.
A furia di pensarci la notte Giacomo s’era deciso a visitare di persona quella valle descritta da tutti come un paradiso, a constatare con i suoi propri occhi la veridicità di tanta ricchezza, intenzionato a stabilire proficue relazioni con i commercianti di quelle città, desideroso d’acquistare vini, mercanzie d’ogni tipo, soprattutto pentole ed oggetti in pietra ollàre che tanto erano richiesti in Germania dove contava di rivenderli personalmente.
Il nostro si disse intenzionato anche al commercio di cose artistiche, perché, bisognava riconoscerlo, a tale proposito, le chiese e le case cattoliche non avevano rivali in fatto di ornamenti e di belle immagini ed aggiunse che era disposto ad acquistare tutto quanto quei bravi mercanti avrebbero potuto offrirgli senza tante storie, o, per meglio spiegarsi, senza tanti scrupoli religiosi o politici.
Le livide labbra dell’altro avventore a quel punto si serrarono vieppiù, poi, mentre il viso di colpo diventava di colore acceso, lasciarono uscire una voce agra, tutt’altro che gradevole.
“Credo di essere stato frainteso circa il mio mestiere. In verità aborro l’arte ed il culto idolatra delle immagini, considero il commercio uno sporco affare e predico la necessaria distruzione di ogni idolo pagano, la lotta contro il dogma, il ritorno della Chiesa alle sue pure fonti evangeliche, nonché la restaurazione di una società rurale”.
Dopo quelle parole, simili ad un fiotto improvviso, ad un rigurgito acido, improvvisamente Vergerio tacque e fra i due calò un silenzio pesante, quasi ostile.
Il mercante, che per un istante era rimasto stupito, come incapace di seguire il discorrere dell’altro, si riscosse, ingoiò prima a vuoto, poi, reprimendo una sensazione improvvisa di freddo, vuotò il bicchiere fino all’ultima goccia, quasi a cercare sul fondo un’adeguata risposta.
A toglierlo da ogni imbarazzo giunse il vetturino che annunciava la partenza poiché s’avvicinava un forte temporale estivo e bisognava affrettarsi a valle.
Mentre attraversa la Valle di San Giacomo il nostro ebbe modo di riflettere.
Erano tempi quelli di fanatici d’ogni sorta, di predicatori intolleranti, tempi in cui tristemente si diffondeva l’odio e si attuavano le vendette più sanguinose, tempi in cui la superstizione regnava sovrana e bastava un nulla per perder la testa o finire al rogo.
Con assolutismo veniva predicata la religione, cattolica o riformata che fosse; alle persecuzioni dei ministri protestanti seguivano da parte cattolica gli orrori dell’Inquisizione contro gli eretici e contro le loro merci che venivano sequestrate. C’era da temere ogni giorno per i propri commerci, addirittura per la propria vita e la via al dialogo sembrava impossibile.
Al nostro uomo pareva invece che si potesse, anzi si dovesse, vivere in pace, in buoni rapporti.
Malinconicamente si chiedeva: “Forse che davanti alla morte non siamo tutti uguali? Forse che fame e sete non accomunano protestanti e cattolici? Forse che tutti gli uomini non sono fratelli, indipendentemente dalla loro fede? Iddio non ha costruito barriere, confini, è l’uomo che li ha inventati e con essi le armi per difenderli, per tormentare e tormentarsi”.
Nel frattempo la carrozza dopo alcuni tornanti in mezzo a vigneti, campi e prati dove pascolavano pecore e mucche, era arrivata a Chiavenna.
Il nostro mercante avrebbe voluto recarsi subito a Piuro, ma, non essendovi più mezzi di trasporto e addetti disponibili, decise di cercarsi un alloggio rimandando gli affari all’indomani.
Si avviò dunque tra le antiche case, lungo le vie del borgo che sembravano corridoi di palazzi privati pavimentati con una sorta di grossi bottoni, dove tutti quelli che si incontravano si salutavano come se fossero vecchi amici.
Passo dopo passo scoprì che era bello camminare senza fretta, assaporando un buon odore di cose dolci, rimirando prestigiosi palazzi, preziose chiese e begli affreschi murali, ascoltando lo zampillare di una fontana, le grida dei bambini, la voce vicina di un fiume e gli smorzati rintocchi di una campanella lontana.
Il crepuscolo gettava ormai ombre sulle vecchie mura e a Giacomo parve di udire le antiche pietre raccontare di sacro e di profano, di intimità domestiche, di calore familiare, di trame semplici di nascite e di morti, di gioie e di timori, di speranze, di occupazioni quotidiane, di giorni sui campi con le mani affondate dentro la terra bruna, di azzurri lini, di biondi grani, di profumati fieni, di dolci frutti, di cicli e stagioni, di gelidi inverni e di luminose primavere.
All’improvviso una luce morbida e piacevole proveniente da una bottega attirò il suo sguardo, si avvicinò allora all’ingresso e rimase stupefatto ad osservare una statua lignea di pregevole fattura.
Pareva una cosa viva e Giacomo non la dimenticò più.
In piedi, sopra una falce di luna, stava la Vergine dallo sguardo dolcissimo con il Bambino benedicente. Aveva lunghi e ondulati capelli, solo in parte coperti da un velo immacolato simile ad un sottile turbante trattenuto sul capo da un’esile coroncina dorata ed un ampio manto ricadente fino ai piedi in morbidi drappeggi.
La doratura del mantello lasciava un po’ a desiderare, ma, si ritrovò a pensare il nostro mercante una volta giunto in un’accogliente locanda per trascorrervi la notte, con semplici ritocchi un bravo restauratore l’avrebbe certamente riportata al suo antico ed eccezionale splendore.
Quel pensiero gli riportò alla mente gli occhi gelidi ed esaltati dell’uomo che aveva incontrato al passo e che sembrava voler restaurare il più buio Medioevo, ripiombando l’uomo nell’angoscia e nella sofferenza; provò allora un vivo senso di disagio, poi, però, finalmente, la stanchezza ebbe la meglio ed il sonno lo vinse…
Quella notte stessa, si era alla metà di agosto dell’anno 1618, Giacomo Geeser venne risvegliato da uno spaventoso boato. La cima del Monte Conto, così apprese in seguito, si era staccata ed aveva seppellito l’intero abitato di Piuro. Il fiume Mera per qualche tempo aveva interrotto il suo deflusso principiando a formare una sorta di lago prima che l’acqua ricominciasse a scorrere giù per la valle. Tutte le ricchezze del borgo erano state sepolte sotto la colossale frana e a loro testimonianza non era rimasta che una villa simile ad un fastoso palazzo romano ed isolata su un pendio in una località ricca di terrazzi vitati.
Quel boato accompagnò il nostro l’indomani durante il viaggio di ritorno. Giacomo non ritenne opportuno, infatti, rimanere a trafficare in mezzo a gente provata dal dolore, ché molti avevano perduto parenti nel borgo vicino dove ormai regnava soltanto la desolazione. Si disse fortunato per averla scampata, per essere al sicuro nel suo fondaco quelle merci, fortunosamente ereditate, per le quali non dormiva la notte al pensiero delle tasse, delle difficili transazioni, dei pericoli dovuti ai trasporti, ai predoni; non ultimo si chiese se fosse davvero quella ricchezza segno della predilezione divina o una forma di dannazione, ché gli sembrava il viver suo un correre alla morte.
Certo lui non era né peggiore né migliore di altri, ma vide, come in uno specchio, il vuoto intorno a sé, la solitudine gli si spalancò innanzi in tutta la sua desolazione: non soci, ché aveva sempre temuto l’avrebbero potuto derubare, non amici ché l’avrebbero solo invidiato, non una moglie ché avrebbe potuto essergli infedele.
In prossimità del passo, dopo aver attraversato boschi e una valle ricca d’acqua, uscito da una gola spaventosa ed insieme affascinante, in quella locanda dove aveva incontrato rabbia e rancore, mentre l’oste magnificava un vino in grado di riscaldare qualsiasi cuore, Giacomo si disse che era tempo di pensare non solo ai suoi commerci, non solo a destreggiarsi nelle difficili circostanze politiche e religiose, ma anche di pensare ad amare, di imparare ad amare.
“Forse l’amore vince ogni cosa” esordì allora improvvisamente e l’oste, peraltro avvezzo a sentirne di ogni sorta, annuì convinto.
Ancora non sapeva Giacomo d’essersi già innamorato della terra che aveva appena visitato, ancora non poteva immaginare che presto, molto presto, vi avrebbe fatto ritorno.
Nota
Si dice che i personaggi di un racconto abbiano una volontà propria, indipendente da quella di chi scrive. Giacomo Geeser (personaggio di fantasia) e Pier Vergerio (personaggio realmente vissuto e legato alle vicende del territorio della Valchiavenna e delle valli limitrofe), come fantasmi si sono affacciati alla mia mente reclamando un loro spazio e ricordandomi che, come ebbe a dire Virginia Wolf: “ La memoria è una luce che danza nella mente quando la realtà è ormai sepolta”.