Rosa Maria Corti con questa opera è 1^ classificata al Premio La montagna Valle Spluga 2009
«La ragazza dell’affresco una storia in Val San Giacomo»
Candolcino, 28 luglio 1639
Il commissario grigione
A guardarla bene non aveva l’aspetto d’una strega. Con quelle due trezze bionde e quegli occhi azzurro cielo gli pareva piuttosto un’icona da gêsa, ma il diàul, è risaputo, sa cumè tentà!
Troppo bella per essere figlia di quel povero storpio che sedeva davanti al tribunale con l’aria d’un can bastunàa. Di lui peraltro aveva sentito dire che fosse stato diritto come un pino e forte come un toro prima che l’orso al quale aveva giurato di strappare la lengua, perché troppe erano le manze che gli aveva fatto stremìre facendole fuggire a precipizio nel burrone, gli invalidasse il braccio destro e gli sfregiasse orrendamente il volto facendogli per sopraggiunta perdere un occhio.
Dunque, pensò il commissario, meglio non lasciarsi trarre in inganno e continuare l’interrogatorio. Non era uomo da lasciarsi scoraggiare facilmente, sapeva lui come estorcere i più riposti segreti dalle accusate, quelle verità che esse nascondevano nel più profondo strato dell’anima-cipolla, tanto più che costei non s’era presentata al fiscale alcuni mesi prima per denunciare di essere stata ingiuriata dalla propria vicina come ladra e strega, rea cioè, secondo quest’ultima, di averle rubato una matassa di filo e averle fatto patire strani dolori di panza.
Non si sarebbe fatto incantare da quegli occhi di cerbiatta spaurita che aveva continuato a ripetere durante l’interrogatorio di non saper “far male a niuno”: gli indizi, la cattiva fama, ormai erano quasi assodati e se non fosse bastato un piatto di bella cera per farla confessare sarebbe ricorso al tormento dello squasso.
Il notaio
La nuvola era scesa in fretta dal passo, scura e rabbiosa, tanto che in breve tempo tutta la campagna era stata presa da una fosca disperazione di vento e lampi. Il notaio Giovan Antonio Leus al primo tuono sobbalzò e diresse lo sguardo, appuntato fino a quel momento all’unica finestra della sala per le udienze, verso l’imputata. Il lume della lucerna faceva risaltare maggiormente il pallore della donna, tanto che quest’ultima, pur nel breve volgere d’un paio di giorni, gli sembrò dimagrita come chi esca da un lungo periodo di carestia.
«La carestia va spartita tra tutti!, ragionò allora Giovan Antonio, «ma la grandine a chi tocca il danno è tutto suo».
Che almeno si decidesse in fretta a confessare le proprie colpe ed il proprio pentimento.
Il notaio Leus, benché stesse dalla parte del potere, in fondo era di buon cuore e gli faceva pena vedere quella giovine in catene rabbrividire di paura e di freddo sotto una tonaca leggera che lasciava indovinare le grazie di cui madre natura l’aveva abbondantemente fornita. Ma quelli non erano pensieri da farsi, eran pensieri che un inquisitore avrebbe detto ispirati direttamente dal diàul.
Il notarius allora abbassò gli occhi, anche perché se la donna fosse stata per davvero una strìa avrebbe potuto trasformarlo in un basalìsk, in una cavra bèsüla o in qualche altra bestiaccia malefica. A quel punto la penna calò sul verbale.
“Il 28 luglio dell’anno 1639… passate le ventiquattrore prescritte dal diritto…la sopraddetta iurata de veritade dicenda a suo discarico di coscienza deve manifestare il suo pentimento riguardo al malefizio lanciato contra Caterina de Stambilone…”.
Il magister
Giò Pietro, il magìster muraro proveniente dal Lago di Como, che aveva tolto sopra di sé la fabbrica di un ponte in pietra, a collegare la strada di valle con la chiesa di Sancti Gulielmi da pochi anni ampliata affinché il popolo potesse più facilmente accorrere a venerare il santo eremita che lì era morto circa trecento anni prima, si apprestò ad alzarsi dal letto.
Quando s’era risvegliato di buon ora nella stanzetta al primo piano della locanda, aveva riconosciuto subito l’ormai noto scalpiccio degli zoccoli dei muli e degli asini che risalivano la Val San Giacomo sotto il peso della mercanzia, il tintinnio delle sonagliere, gli schiocchi di frusta. Mentre si lavava alla meglio in un catino, il pensiero gli era subito corso al ponte andato distrutto ancor prima d’essere terminato ma la coscienza gli era rimasta tranquilla. Prima di iniziare il suo lavoreri con l’aiuto di alcuni validi collaboratori, per lo più compaesani e parenti esperti nel taglio delle pietre, aveva valutato bene la corrente, esaminato a lungo la giavérä[4], calcolato con cura lo spessore degli archi, valutata la pendenza delle rampe su entrambe le estremità, rispettato le proporzioni codificate, deciso di stabilizzare i piloni con grossi mucchi di pietre e calcina a mo’ di fondamenta. Non aveva mancato, infine, di fare certi scongiuri perché l’opera gli riuscisse bene e s’era pure preoccupato di assoldare, per trasportare pietre, sabbia e legnami per le impalcature, un po’ di braccia in più del necessario fra la popolazione del posto, giusto per vincere la diffidenza di quei bastiàn contrari sempre pronti a criticare specie se è un forastiero a compier l’opera.
Per la verità nessuno aveva avuto da ridire quando aveva assunto la Giàcoma, quella giovine del terziere di mezzo che adesso era accusata d’essere una strìa. Una filatrice di lana, una ragazza come tante altre in valle, solo che lei era rimasta senza lavoro, con un padre ormai invalido e la madre già in pace nel regno dei pöri mort.
L’aveva assunta perché gli aveva fatto pena, pensando che il suo tornaconto, però, ce lo avrebbe avuto anche lui usandola come modella, tant l’eva bela, per i pitüur che doveva realizzare lungo la parete laterale destra de la gêsa consacrata due anni prima.
Quei capelli biondi con la sua bela vèrtisa, quelle guance che avevano il colore della frutta quando matura, quegli occhi azzurro chiaro, erano perfetti per la Madonna in trono, accanto a Dio Padre che tra le nuvole slarga i brasc su la crûus. Quanto al bambinello Gesù, ce n’eran tanti di soggetti interessanti fra i fiulitt che si avvicinavano curiosi quando estraeva il filo a piombo per verificare che le pietre fossero allineate perfettamente. Sbaratàvan i ugitt e, a buca verta, lo osservavano ben bene, prima di tornare al gioco della cióna o a quello del batarèl.
Gli uomini, invece, spalancavano gli occhi sulla Giàcoma come incantati.
«Striati! Li ha tutti striati!», aveva gridato Angioletta, la nipote del custode della chiesa, gelosa delle occhiate con le quali il suo moroso sembrava abbracciare il seno bianco e sodo, nonché i fianchi larghi e invitanti della Giàcoma. Quanto alla vicina di quest’ultima, venuta giù dai monti di Stambilone apposta per testimoniare, ce l’aveva messa tutta a dimostrare lo stregamento subito, a suo dire, in prima persona, cercando di chiarire a sua eccellenza il commissario, al signor ministrale affiancato dal suo iusdicente, agli ufficiali di comunità e al signor notaro, la volontà della Giàcoma di nuocerle e la sua capacità di fare malefizi tanto contra homini, quanto contra animalli e cose, visto che, come le avevano riferito, con l’arrivo della ragazza anca al temp l’eva cambiàa.
Dall’arrivo della Giàcoma, in effetti, il sole non s’era più visto in valle, quasi fosse geloso anche lui cumè i dunètt della sua bellezza, rifletteva mastro Giò Pietro mentre con l’animo oppresso si recava alla “casa della ragione”.
“Stai a vedere”, pensava, “che per averla dipinta sul muro mi tocca qualche guaio anche a me, come non bastasse il crollo del ponte. Fortuna che non è morto nessuno”.
Il magìster, rabbrividendo sotto al giaché[7], allungò il passo quasi a volerla finire in fretta con quella storia lì, ché cominciava a pesargli come una croce.
La Giàcoma
Il commissario grigione, che aveva dormito poco e male, era andato ruminando tutta la notte il sistema per far confessare in fretta la Giàcoma. Tutto quell’umidore brumoso ch’era calato come una pesante cappa sulla valle gli aveva riacutizzato certi dolori alla schiena e non era certo di buon umore quando si accinse al terzo interrogatorio anche se si sforzò di mostrare il volto benevolo dell’istituzione, ricordando all’accusata il mite trattamento riservato ai rei confessi, fatto, questo, che il notaio registrò prontamente nel verbale aggiungendo sotto dettatura: «L’inquisita di anni 22, viene da noi diffidata ed avvertita che se non confesserà verrà sottoposta a tormento e che se nel tormento resterà stroppiata o le seguisse mutilazione di arto o effusione di sangue, sarà per colpa sua non avendo voluto dire la verità».
«Allora, la mia Giàcuma, sei disposta a confessare la verità su quanto hai fatto? Ammetti di aver preparato pozioni magiche? Ammetti di aver maleficiato la qui presente Caterina de Stambilone?»
«Nel corso di mia vita, prima d’andare a cercare la limosina, ho soltanto filato lana e governato i malati in casa mia: ho guarito il mio fratellino dai vermi e ho cercato di rimettere in sesto il mio povero padre quando è stato dislombato e accecato dall’orso. Mi ha insegnato la mia povera madre, come a lei la mé äva, a usare le erbe, che devono essere raccolte la mattina di San Giovanni, prima del levar del sole, soprattutto la camomilla e l’erba di San Giovanni che fan passare tanti mali e anche il cattivo tempo».
«Allora», proseguì il commissario, soddisfatto della piega che stava prendendo l’interrogatorio, «non neghi d’aver fatto con dette erbe dei malefici e d’aver anche manipolato le forze della natura, d’aver sottomesso la corrente del torrente al Maligno, insomma d’aver agitato l’acqua del Liro provocando così la tempesta che ha distrutto il ponte?».
«Io non compr endo bene alcune vostre parole, eccellenza, so soltanto di non aver fatto male a niuno, se ho detto delle male parole alla Caterina è stato perché lei mi aveva accusata ingiustamente e lasciata senza lavoro dicendo di non volermi più dare altra lana da filare perché non avevo filato bene quella che mi aveva consegnato in precedenza. Quanto alla tempesta, io ho soltanto pigliato una foglia di quell’erba di San Giovanni, un poco di ulivo benedetto e quelle frasche che si portano alle processioni delle Rogazioni e si lassano nei campi contra le tempeste. Tutte tre queste cose ho abbrugiato nell’aria per far tornare il bel tempo, imperciocché si slontanasse la tempesta e si potesse lavorare senza paura al ponte e mentre quelle cose abbrugiavano mi sono inginocchiata e ho detto – Padre eterno benedetto, Madonna benedetta, la grazia che ne havete mandata Signore dal cielo in terra, conservatela Signore. E, se c’è qualche cattiva nuvola, disfatela».
A questo punto il commissario, biascicando a bassa voce, tanto che il notaro fu costretto a ripetere le sue parole, insinuò il dubbio che le erbe bruciate per evitare la grandine fossero servite invece a provocare la tempesta.
«Utrum similia fecerit etiam ad malum finem nempe ad provocandas tempestes…»
«Gesù Dio, me ne scampi, Madonna benedetta, che io non ho mai fatto tal cosa».
«Dunque neghi di aver fatto un patto col Diavolo?»
«Vostra eccellenza, certo, è sicuro, io non ho fatto patto alcuno col Diavolo».
Pronunciate queste parole, però, la ragazza sentì le gambe fare giàcum giàcum.
L’insistenza del commissario nei precedenti interrogatori l’aveva stupita e l’aveva fatta piangere a lungo, la minaccia della tortura l’aveva impaurita assai, ma adesso questo volerle fare ammettere un’alleanza con il signore degli inferi la disorientava. Questo cambiar le carte in tavola con estrema maestria, (il notaro l’aveva scritto anche nel verbale “benignis, placidis et caritativis verbis”), questo giocare d’astuzia per ottenere la verità che desiderava, le fiaccavano la resistenza. Le veniva quasi voglia di ammettere la verità che lui voleva sentire. Non voleva tornare in prigione, non voleva essere sottoposta alla tortura della corda, quelle continue domande erano già un tormento insopportabile.
Cercò allora di estraniarsi, di pensare alla sua casa, al suo piccolo mondo fatto di andirivieni dal bosco alla stalla, dalla stalla alla cucina dov’erano le sue povere cose, l’avita panadóra, la peltréra, l’acquaröo che il sole illuminava e quasi riscaldava quando il frigole era spento.
Benedét sóo, benedét
Salta föra dal boschét
Cont ‘na bala de argént
Par scoldà la póra sgént.
Ripensò ai boschi, ai prati, alle cime del suo villaggio e avrebbe voluto come loro abbandonarsi al mormorio del vento. Perché non si poteva essere come loro? Invece le toccava soffrire e, prigioniera com’era, non poteva neppure fare un salto all’ingiù come la cascata che spumeggiava proprio di fronte alla sua valle.
«Pizzìga mulìga la gata fa liga
Pizzìga un pò la lengua di mort
Cadèna batàcc tulì qui che stacc».
Chissà perché le veniva in mente questa conta che le faceva sua madre quando lei era piccolina. A volte, quando le ombre scendevano dai monti, le sembrava di vederla, di sentire la sua voce protettiva. Benedetta lei che non soffriva più… Intanto che la Giàcoma volava lontano con il pensiero, il commissario decise di rimandare all’indomani l’interrogatorio e di far perquisire nel frattempo la casa dell’imputata, “cum vellet de delicto perpetrato omnem possibilem habere cognitionem”, mentre i testimoni, richiesti di giurare, confermarono le loro accuse “… omnia su praescripta ratificaverunt esse vera”.
Il signor curato
Il giorno del quarto interrogatorio venne sentito dal commissario anche il curato del villaggio, prima trattenuto a letto da un’insolita indisposizione. Costui, obbligato a svolgere una funzione di mediazione fra l’autorità ecclesiastica ed i suoi parrocchiani, condivideva peraltro la realtà quotidiana della popolazione ed era disponibile alla comprensione ed alla tolleranza.
Al giudice che gli chiedeva se conoscesse eretici o strìe, negromanti o sortileghi, rispose che non ne conosceva.
«Io per me tengo la Giàcuma per quello che è. Dichino gli altri quello che vogliono. Io per me devo dire che la Giàcuma è venuta da me per riconciliarsi e comunicarsi».
Incalzato dal commissario circa le cause dell’improvvisa furia delle acque del torrente Liro, cercò di stare nel vago. «Vostra eccellenza, lo dicono anche i vecchi che le stagioni sono peggiorate, che le nebbie sono diventate più comuni e che la grandine, un tempo quasi sconosciuta, ora spesso biancheggia sui prati…».
Il commissario si lisciò la rada barbetta rossiccia. Quel curato era una vecchia volpe, ma sapeva lui come procedere, tanto più che nel frattempo il notaro sottovoce gli aveva comunicato che nella casa della Giàcoma erano stati rinvenuti quelli che i manuali indicano come i “corpi del delitto” e cioè: due pignatini unti con un po’ d’olio e sporchi, alcune foglie secche avviluppate in carta e pezzette, una carta con dentro delle semenze e un cornetto svuotato e bucato.
Avuta così conferma di qual piede zoppichi la mula, il commissario dispose che venisse effettuata la ricerca del bollo, per la qual cosa ancora una volta si sospese l’interrogatorio, pur essendo stato appurato che l’imputata mai aveva partecipato al barlott.
Notte del 12 agosto 1639: Custodes carcerum
L’imputata s’era lamentata a lungo prima di riuscire ad addormentarsi. Nel silenzio quasi innaturale ch’era calato subito dopo, Bartholomeus, l’incaricato della sorveglianza, sentì uno strano vuoto montargli nel cervello. S’era arrovellato a lungo circa i poteri di strìa della Giàcoma e, per dirla tutta, non era mica tanto convinto della sua colpevolezza, non tanto per l’atteggiamento tollerante del curato o perché la giovane anche sotto tortura aveva sempre sostenuto la sua innocenza, quanto per l’insolito modo d’agire del commissario grigione.
L’avevano dipinto come severo e crudele eppure, a differenza d’altri che non esitavano a condannare a morte in base a semplici sospetti, a indizi minimi, costui, in barba alle procedure, aveva persino informato la Giàcoma delle accuse che erano state formulate contro di lei, le aveva dato la possibilità di fornire la sua versione dei fatti, di difendersi.
Quel suo mostrarsi diffidente, puntiglioso all’eccesso, quel suo continuo cercare il pelo nell’uovo, a lui era sembrato dettato più da scrupolo che da zelo fanatico, come se dubitasse di tutto, finanche della propria esistenza. Per farla breve l’atteggiamento del commissario gli era apparso non veramente determinato, nonostante quel sopracciglio perennemente inarcato, quell’espressione dura che incuteva a tutti paura.
Quanto all’espressione della Giàcoma, la faseva propri cumpassion, e sì che gli avevan raccomandato di non guardarla negli occhi e di tenersi addosso qualche foglia di alloro benedetto o di artemisia per impedire alla strìa di aggredirlo nel sonno. Era stato questo pensiero a tenerlo sveglio a lungo in sopraggiunta ai lamenti della ragazza. Poi però la stanchezza gli aveva fatto chiudere gli occhi e nel sonno i pensieri erano diventati sogni.
S’era affacciato alla finestra e aveva scorto uno spicchio di luna. Dopo tanti giorni di brutto tempo le nuvole erano finalmente scomparse e con esse anche la nebbia portata via da una brezza che mordeva le guance. Spinto da una forza che non aveva nome era uscito dal palazz e si era diretto, quasi volasse, giù verso il torrente. Il chiarore spettrale della luna piena colava sui macigni del greto contro i quali l’acqua s’infrangeva in mille spruzzi argentati rompendo il silenzio fondo della notte. All’improvviso un suono umano, una sorta di canto senza parole, aveva attirato la sua attenzione. Era avanzato piano, pieno di timore, con il cuore che gli batteva in petto come un martello, poi l’aveva vista: era là che faceva ondeggiare il suo corpo nudo alla luce della luna, alzando le braccia al cielo e mormorando una suadente melodia.
Le bellissime trezze sfatte a tratti sfioravano come una veste l’acqua che, all’improvviso, prese ad avvitarsi in spire attorno alle sue caviglie, a risalirle lungo le gambe, su fino all’ombelico, fino ad accarezzarle i seni tondi, la gola, le gote, la fronte, mentre la luce della luna diventava sempre più bianca, tanto che tutto il cielo sembrò ardere d’un biancore accecante impossibile a sopportarsi che annientava la vista e l’anima.
Epilogo
Quella notte stessa avvenne che un’ala del palazz dove s’era svolto il processo andasse misteriosamente a fuoco. Nella confusione e nel panico che seguirono nessuno pensò a mettere in salvo le carte che il notaio Leus aveva con tanta cura e diligenza redatto, registrando ogni domanda, ogni risposta e persino l’espressione della Giàcoma, avendo ciascuno maggiormente a cuore la salvezza della propria pelle. Accadde invero anche un altro fatto strano. La porta della cella dov’era stata rinchiusa l’imputata venne trovata aperta e di quest’ultima non fu trovata alcuna traccia. Paffete!, come sparita nel nulla. Interrogato, il sorvegliante non seppe rispondere che con parole incoerenti, anche se nessuno gliene fece una colpa, il fuoco che gli aveva bruciato le vesti e intaccato le carni doveva avergli roso anche il cervello.
Alcune ore dopo, in tarda mattinata, avanti di ripartire per Chiavenna, il commissario, che pure aveva fatto strani sogni prima d’essere svegliato dalla puzza di bruciaticcio e di fumo, davanti alla “casa della ragione” e a una folla numerosa accorsa come uno sciame d’api sul miele, sotto un cocente sole estivo condannò pubblicamente la Giàcoma, ormai divenuta uccel di bosco, a “perpetuo bando fora deli paesi et teritorio del dominio delli illustrissimi signori delle eccelse Tre Leghe, soto pena della vita”.
Della bella ragazza non si seppe più nulla, ma la sua immagine sorridente è ancora là sulla parete laterale della chiesa di San Guglielmo.
Rosa Maria Corti
Note