Con questo racconto è risultata 8^ classificata – Sezione narrativa alla XIII Edizione del Premio Letterario Internazionale Il Club dei Poeti 2009
Questa la motivazione della Giuria: «In una fredda giornata, una donna ritrova un vecchio album di fotografie e i ricordi riportano alla mente i volti delle persone care, le immagini di momenti vissuti e la figura di Miriam, una compagna di scuola costretta a fuggire ai tempi della guerra perché ebrea, al di là della ramina, la rete di confine italo-svizzera. L’Autrice, con un racconto intenso e, al contempo, pervaso da una forte umanità, pone in evidenza la fragilità della vita e quel sottile filo che ci unisce e ci permette di rimanere in equilibrio sugli eventi della vita stessa: positivi o tragici che siano. E, magari, dopo qualche anno, durante una passeggiata in quegli stessi luoghi, inaspettatamente, ritrovare quella compagna di classe che diventa simbolo della libertà… questa volta, al di qua della ramina. Rosa Maria Corti, con la limpidezza che contraddistingue la sua scrittura, riporta alla luce una storia densa d’umanità». Massimo Barile
Al di qua della Ramina
Certe volte, quando si è anziani e
si vive in un piccolo appartamento, il tempo sembra non passare mai, specialmente durante l’inverno, quando il freddo o l’inclemenza della stagione impediscono una sia pur breve passeggiata. Hanno un bel dire i miei figli: «Mamma, non chiuderti in un bozzolo! Quattro passi e poche righe al giorno tolgono il medico di torno!». Vorrei vedere loro alla mia età e, per giunta, con una giornata come questa! Ah, dimenticavo: oggi fa molto freddo ed il cielo è gonfio di nuvole grigie foriere di neve. Quanto alla scrittura come terapia, forse non è una cattiva idea, purtroppo temo che il foglio bianco mi metta ancora più in ansia. All’improvviso il mio sguardo è attratto da un vecchio album di fotografie posato su un ripiano della libreria. Sollevo la rigida copertina di cartone nero che ha venature simili a quelle del marmo ed il cuore mi balza nel petto: quanti ricordi!
Ecco mio marito sulla sponda sud del lago di Lugano, davanti alla cascata di Rescia, dove ci siamo conosciuti. Galeotta fu quell’acqua spumeggiante e vorticosa… Questa invece sono io sulla scalinata della Calcinera ad Albogasio, la “scalinata di Luisa”, sì, insomma, proprio quella di “Piccolo mondo antico”; qui sono con una mia amica in Valsolda, il buen retiro della mia famiglia durante l’estate. E questa invece chi è? Mi sistemo meglio gli occhiali ed osservo con attenzione la fotografia. Ma è Miriam!
Il pensiero velocemente torna a Como, all’autunno del 1939.
A quel tempo vedevo il mondo con altri occhi. Avevo dieci anni e vivevo spensierata, baloccandomi in fantasticherie infantili. Passavo interi pomeriggi con la domestica tuttofare allo scalo merci delle Ferrovie dello Stato, allora situato presso la riva, ad osservare l’andirivieni dei vagoni ferroviari, nonché quello delle imbarcazioni, dei comballi e delle gondole, le vere regine del Lario, che ripartivano alla volta dell’alto lago con il favore della “Breva”, dopo aver scaricato le merci più disparate: legna, sabbia, verdura, latte…
Talvolta, quando mi prendeva forte la nostalgia per la mia barchetta, un guscio di legno che d’inverno veniva tirato in secco, diventavo irritabile e a nulla valevano i tentativi fatti dalla bambinaia per distrarmi, i racconti della sua gioventù nel vecchio quartiere popolare della “Cortesella”, dove ormai s’era abbattuto il “piccone risanatore”, spazzando via gli ultimi residui della Como medioevale, fatta d’antiche case d’abitazione con bottega, certo poetiche ma ormai fatiscenti, in nome dell’igiene e della razionalità.
Allora prendevamo la via del ritorno verso casa, andavamo nella serenità ventosa dell’autunno, fra cameriere con la borsa della spesa e soldati che cercavano di “attaccare bottone”, solleticate dal profumo delle caldarroste dei venditori ambulanti.
Quando vidi Miriam per la prima volta vestiva un cappotto rosso fiamma bordato ai polsi e al collo di morbida pelliccia di castoro e si dondolava sulla catena di ferro che divideva i giardinetti dal marciapiede. Rossa la piccola bocca ben disegnata, scuri i riccioli che fuggivano a cascata dalla cuffietta, grandi e dolci gli occhi un po’ malinconici. Reggeva una bambola abbigliata come lei, con stivaletti corti e lucenti. Non avevo mai visto niente di così bello e provai una fitta d’invidia! Anche la sua governante era deliziosa con il grembiule bianco perfettamente stirato ed inamidato.
Il giorno dopo, dimentica ormai dell’incontro, correvo allegra e scatenata nel cortile della scuola che risuonava di grida e di infantili risate. Ricordo che l’arrivo della Madre Vicaria riportò improvvisamente il silenzio. Veniva a presentarci una nuova alunna.
Quale stupore nel riconoscere la bambina del parco; le mie compagne sembravano rapite dalla bellezza della nuova arrivata che se ne stava lì, vicina a noi eppure lontana, inarrivabile; in quell’istante capii di aver perso il mio ruolo di leader.
All’ultima lezione di canto, prima delle vacanze natalizie, suor Angelica scelse quella fra di noi che avrebbe attaccato l’assolo durante la “Festa degli Auguri”. Naturalmente si trattava di Miriam: la sua voce, infatti, si levava sicura su tutte le altre, in un raro equilibrio di potenza e dolcezza.
Il mio sguardo carico di gelosia saettò nella stanza mentre il suo si abbassò come a chiedere scusa di quella preferenza per lei, l’ultima arrivata.
Un giorno, al ritorno dalla cappella dove avevamo cantato con quanto fiato avevamo in gola il “Veni Creator”, dopo la distribuzione dei santini e della cioccolata, passammo davanti al parlatorio. C’era un uomo in piedi, in attesa, avvolto in un elegante soprabito foderato di pelliccia. L’incarnato era pallido, quasi livido, i lineamenti segnati da una ruga profonda. Miriam si staccò da noi e prontamente lo raggiunse. Allora l’uomo sorrise e sembrò più giovane. Arrivò anche la Madre Vicaria col suo passo leggero ed insieme solenne. Sussurrò: «Povera cara», poi sfiorò con una carezza i bei riccioli scuri e offrì un altro santino. Il mio, che m’era sembrato tanto bello, all’improvviso non m’interessò più. Sentivo come un groppo in gola, avrei desiderato che quella carezza, quei sorrisi fossero per me. La gelosia mi accecava e fuggii via.
Avrei voluto essere come Miriam, diventarle amica, invece riuscivo solo a farle dispetti; a farne le spese di solito era il nastro che le tratteneva la cascata di riccioli oppure l’ astuccio delle matite.
Un giorno però, l’inverno volgeva ormai al termine, le suore ci comunicarono che Miriam non avrebbe terminato con noi l’anno scolastico; se ne andava via con i genitori, costretti a trasferirsi nuovamente per motivi di lavoro. Vedere quel banco vuoto dapprima fu una liberazione, in un secondo momento invece, quando per caso venni a conoscenza del “segreto” di Miriam, mi sentii peggio di prima. Dalla porta socchiusa del salotto buono, infatti, mi era giunta la voce di mamma che diceva alla nonna: «Questione di prudenza… di questi tempi… la guerra… i genitori sono ebrei… Povera piccola, ho sentito dire che se i genitori sono arrestati e messi nei campi d’internamento i bambini devono seguirli».
«… spaventoso», aveva risposto nonna, «speriamo che riescano a passare il confine. In Valle Intelvi ed in Valsolda sono tanti quelli che ci provano. Purché non finiscano nelle mani di qualcuno senza scrupoli! A volte pagare non basta… di notte poi, in montagna, con una bambina…».
Poi era sceso il silenzio. Quelle parole mi avevano angosciata. Adesso che Miriam non c’era più ed io conoscevo la verità, mi ritrovavo con l’amaro del rimorso. Mi sembrava ingiusto che i bambini pagassero per le follie dei grandi. Avrei voluto fare qualcosa per lei, ma ormai era troppo tardi.
Tutte le mattine, osservando il banco di Miriam ormai vuoto, provavo una stretta al cuore. Immaginavo la mia amichetta camminare e camminare ancora su per i ripidi monti che intravedevo dalla finestra della nostra casetta sul Ceresio; immaginavo la ramina, la rete di confine a grosse maglie di ferro appesa a robusti pali di castagno infissi saldamente nel terreno, immaginavo i campanellini che vi erano appesi, dei minuscoli campanellini di bronzo pronti a tradirla, al minimo tocco, con il loro tintinnio e mi sembrava di sentire l’abbaiare dei cani sguinzagliati dalle guardie…
Finalmente le lezioni giunsero al termine; dopo il saggio di fine anno la scuola chiuse i battenti e ritornò silenziosa. Come sempre io partii con i miei genitori per le vacanze, ma non fu un’estate lieta e giocosa come le precedenti quella che trascorsi sulle rive del lago di Lugano.
Con l’improvvisa partenza di Miriam si era affacciata in me una nuova consapevolezza della vita, della sua fragilità e transitorietà.
Mi sentivo come schiacciata da qualcosa che non potevo gestire, pensavo a Miriam in continuazione e non perdevo l’occasione per ascoltare i discorsi dei grandi, per scoprire cosa poteva esserle accaduto…
Solo alcuni anni dopo, per caso, venni a sapere com’erano andate le cose.
La bambina era stata affidata alla governante che, con l’aiuto dell’anziano e fedele autista, era riuscita a raggiungere la frontiera e, da lì, Lugano dove, fidando nella conoscenza del posto e del dialetto, su per giù identico a quello che si parlava nella sua valle d’origine, aveva potuto muoversi abbastanza facilmente, almeno nei primi mesi… Poi la bambina si era ammalata e i soldi avevano incominciato a scarseggiare. La paura d’essere scoperta dalle autorità elvetiche aveva finito per ingigantire nel cuore della bambinaia che, alla fine, s’era decisa a ripassare il confine con l’aiuto di un suo compaesano, un contrabbandiere che conosceva bene i sentieri di montagna per averli percorsi tante volte con la bricolla sulle spalle. Lo aveva incontrato per caso in un caffè vicino al parco dove qualche volta si avventurava con la bambina per farle prendere un po’ d’aria e gli aveva raccontato tutto perché sapeva di potersi fidare. Insieme avevano giocato tante volte da piccoli, insieme avevano concertato un piano, tanto semplice quanto audace. L’avevano messo in pratica, avevano raggiunto la Val Fontana, affrontato la fatica di una salita nei boschi, portando in spalla a turno Miriam che tratteneva il fiato impaurita, lei bambina di città non abituata al buio, ai rumori del bosco. Per fortuna la piccola si era addormentata.
Quando si era risvegliata si trovava ormai al sicuro in un alpeggio sui monti.
La bambinaia tenne nascosta Miriam per molto tempo e lo fece così bene che nessuno in paese venne mai a sapere della presenza di una bambina bellissima dallo sguardo malinconico.
Miriam in seguito abbandonò la valle per andare a studiare in città presso una parente sopravvissuta all’orrore dei rastrellamenti, della deportazione, dei campi di sterminio, ma non si dimenticò della governante che le aveva fatto da madre e ritornò sempre a trovarla tutte le estati per un breve periodo.
Su quei ripidi monti dov’era situato l’alpeggio, durante l’estate del ’46, il caso volle che io potessi incontrare Miriam durante una delle lunghe e faticose escursioni che ero solita fare in compagnia del mio cane. Al di qua della tanto temuta ramina, grazie al coraggio e all’amore di una donna, ella aveva trovato la salvezza. Era ancora più bella di quanto ricordassi e quando mi abbracciò, in quel tiepido e luminoso mattino di settembre, il groppo che sentivo in gola quando pensavo a lei, finalmente si sciolse come la brina sul pascolo ai primi raggi del sole.