Racconto premiato di Rossella Melotti


Con questo racconto è risultata 1^ classificata – Sezione narrativa alla IX Edizione del Premio di Scrittura Creativa dedicato a Lella Razza 2013

Questa la motivazione della Giuria: «Senza nessuna accondiscendenza ai soliti e ormai usurati “buoni sentimenti”, il racconto ci presenta la storia di Emma, una senza-tetto, la sua vita, la sua esistenza quotidiana.
Lo sfondo è la città con tutte le sue contraddizioni: benessere e malessere, vite ordinate e disordinate, esistenze ostentate in prima fila e quelle ai margini, se non nascoste. E tra tante vite comuni e brulicanti nel caos frenetico della città, emerge dallo sfondo, con pennellate sempre più sicure e nitide, il ritratto di Emma.
Scelta felice quella di presentarla quando la città si sveglia e, con lei, anche Emma. Par di vederla: stropiccia gli occhi, s’allunga come un gatto, racimola in fretta le sue cose, sorseggia la grappa, si liscia i capelli. Pochi tratti netti e decisi delineano la sua figura: piccola, esile, sottile; sciatta e malandata conserva briciole di serenità e di entusiasmo che affiorano ogni tanto, quando qualche ricordo felice ritorna nella sua mente ottenebrata dall’alcool.
Emma è diversa, si è allontanata dalla vita cosiddetta normale, ha girato le spalle al suo mondo e vaga senza meta e senza tempo.
La sua esistenza è fragile e precaria e invisibile come quella di molti altri.
Eppure, nonostante tutto, lo sguardo (dell’autore o autrice) su Emma non è pietoso e compassionevole, è semplicemente buono. Non si scandalizza davanti alla spirale di disperazione in cui è piombata la vita di Emma, ma neanche per l’indifferenza quotidiana in cui la città è immersa. E’ uno sguardo vero, disincantato, struggente, melanconico e la scrittura rende ragione di questo sguardo».

Luisella Lunghi


«Emma»

L’ombra della notte si dilegua lasciando filtrare la livida luce dell’alba. L’asfalto, nero e vitreo, trasuda gli odori notturni di gatti randagi, birra e bucce d’arancia, sparse qua e là nei budelli dei marciapiedi. Un tram singhiozza un cigolio, lungo le rotaie del curvone dietro la piazza, e il venditore di rose arranca a passo lento intrufolandosi sotto la tettoia, dov’è solito intrecciare mazzi di fiori. La grande piazza mostra tutta la sua imponenza e vertiginosi muri dei palazzi, addensati come cubi in scatola, s’accendono ripetutamente di luci alle finestre, dentro le quali, ignote ombre fermentano di vita. Un camioncino riversa pacchi di giornali ancora umidi d’inchiostro vicino all’edicola all’angolo. L’alba incornicia sempre gli stessi scenari e per Emma significa un nuovo risveglio, un giorno da vivere fra metropolitane, stazioni, giardini e pontili dentro una città che sembra inghiottirla nella sua immensa bava. Stropiccia gli occhi, Emma, nell’intento di respingere il primo bagliore di luce che le giunge obliquo. Immersa nel suo giaciglio, formato da due metri quadri di sacco a pelo e cartone ondulato, osserva il cielo grigio e uniforme che la sovrasta. Questa è una delle tante giornate di Milano, senza sole, senza pioggia, soltanto nubi e foschie danzanti nel gelido mattino di un febbraio infinito. S’allunga come un gatto, distendendo i muscoli intorpiditi e le dita formicolanti, con rapidi scatti delle mani, racimola in gran fretta tutte le sue cose, gettandole nella tracolla di tela che porta sempre con sè. Sorseggia un po’ di grappa avanzata che le va in gola in un botto, le guance bruciano all’improvviso come se avesse la febbre e riscalda tutto il corpo per combattere il freddo pungente che stagna intorno. Il rischio è sempre quello di morire per assideramento notturno ma Emma si difende con l’alcool unico rimedio possibile per la sua sopravvivenza. Si liscia i capelli lanosi con un pettine sdentato, racimolato fra i rottami di una vecchia discarica ella periferia e si dirige verso i servizi pubblici dove può lavarsi il viso con sapone di Marsiglia. I passanti cominciano a frantumarsi in mille direzioni, come formiche frenetiche, presi da mille i pensieri, non si accorgono di lei, impalpabile presenza fra tante. Eppure lei è una donna speciale, lei è Emma, la barbona della stazione, ”La bimba”, come la chiamano gli altri senza tetto che affollano le panchine e le gradinate del piazzale, poiché è la più giovane fra tutti barboni che quotidianamente occupano la stazione Cadorna. Qualcuno più carinamente la definisce “Clochard” utilizzando un francesismo che rende il tutto quasi romantico o fiabesco ma la realtà è tutt’altro che fiabesca, difficile da accettare, una vita di stenti avvolta dai misteri di un passato frantumato nel dimenticatoio. Emma è una dei tanti senza tetto di Milano, non possiede una fissa dimora, vivacchia e gira nelle stazioni di servizio, nelle metropolitane, tra le lamiere delle baraccopoli o nei giardini delle periferie . S’intrufola come un gatto negli interstizi della città, tra muri tenebrosi, dove le esistenze interpretano miseria e desolazione, si nasconde negli agglomerati delle case tutte uguali, addossate le une alle altre in un groviglio di ballatoi e tetti o nei rioni e nei cortili, accerchiati da fuliggini e cani randagi. Questa è la città dei poveri e non quella dei signori, ma ugualmente densa di dignità, una rete allargata di silenzi e disperazione, di vite vissute ai margini, di vite e stop! Emma, faccino pallido, reso arguto dal naso dritto pieno di capillari rotti, occhi scuri, smarriti e bocca a rosea proprio come una bimba .Un corpo esile, disegnato dalla magrezza dalla sua condizione, un corpo che guizza come un pesce dentro lunghi vestiti, scoloriti, e un piumone consunto, verde militare, annodato alla bell’è meglio da uno spago. In lei c’è qualcosa di genuino nonostante sia sciatta e malandata. Zoppica, i passi poco ritmati, sottolineano la stanchezza interiore di chi ha mangiato la vita ai bordi della società. Emma ha un’età indefinita, ha perso il conto dei suoi compleanni ed il tempo delle candeline sulla torta è svanito nelle giornate buie di birra e vino. Ha scelto questa esistenza così misera e truce dopo che la vita cosiddetta “Normale” l’aveva delusa a e gettata nel limbo degli emarginati. La fine di un amore, una depressione, i debiti e l’alcool così è iniziato la lunga spirale verso il niente, la via Crucis della disperazione, sempre attaccata alle bottiglie, uniche compagne di viaggio nel pianeta degli invisibili, quelli che non son dentro non son fuori, vite a metà, tra sofferenza e rabbia, dolore e solitudine. Emma sorride quando chiede l’elemosina, porge la mano e fa l’inchino, proprio come un dama, trascorre la mattina a racimolare qualche soldo per comprarsi da mangiare o un pacchetto di Marlboro, parla poco e stentatamente, sembra aver smarrito la voce da tempo, abbassa ripetutamente lo sguardo quando incrocia gli occhi degli altri. Qualcosa nel suo animo si contorce e si ribella ossidandosi nei silenzi voluti, nei gesti rallentati, nelle parole che più non dice. Mostra un’insolita serenità anche quando rovista nei cassonetti, litigando coi gatti affamati che la graffiano tutta. Osserva le persone che transitano freneticamente alla stazione, attende che qualcuno la guardi senza pietà, come si fa con le persone normali osserva tutti tra indifferenza e stupore, quasi ignara del fatto che una volta anche lei era così, una volta…tanto tempo fa! Emma ha molti amici, quelli della strada come lei, bivaccati sulle panchine del parco Sempione o lungo i Navigli. Ne ha conosciuti a mucchi, fra le fila ordinate della Caritas, nell’attesa di un piatto caldo o del pane, uomini e donne senza meta, senza sorriso, intrecciati in precari equilibri di ordinarie quotidianità .Qualche volta anche lei ride, parla o gesticola, la birra la riporta a galla negli strati di una normalità ormai sconosciuta, allora riprende la voce di un tempo, si anima d’entusiasmo e rivede il colore del cielo che appare azzurro cristallino, ma sono solo brevi barlumi, poi riaffoga nell’abisso di sempre sotto le macerie di un’esistenza ingessata.
Guarda incuriosita il grande orologio della stazione, bianco, tondo, con le lancette nere che scandiscono incessantemente il tempo degli altri, quello degli incontri, dei saluti, delle parole fra innamorati, dei biglietti del tram, dei caffè bevuti in fretta, una girandola d’ eventi senza sosta. Il fischio acuto del capostazione regola arrivi e partenze, lo sciame umano nei sottopassaggi e fuori i rumori assordanti della strada, una città che lavora, una città che vive. Emma si allontana lentamente la stazione di giorno non fa per lei, il passo incerto di chi non sa dove andare, la tracolla piena di oggetti e la strozzatura della bottiglia di vino sempre dentro la mano destra. Il giorno per lei non comincia e non finisce mai, un tempo pieno, nastro continuo. Osserva il cielo grigio informe, attraversa l’asfalto, nero e vitreo, e si dirige lontana, sempre più lontana, tanto da divenire un piccolo punto scuro, quasi invisibile!
«A modo mio, avrei bisogno di carezze anch’io!».

Rossella Melotti



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