A piedi scalzi

di

Sergio Daniel


Sergio Daniel - A piedi scalzi
Collana "I Salici" - I libri di Narrativa
14x20,5 - pp. 128 - Euro 11,50
ISBN 979-1259510402

Libro esaurito

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In copertina illustrazioni di Elena Vincenzi


PREFAZIONE

Nel suo libro, dal titolo “A piedi scalzi”, Sergio Daniel riesce a rappresentare in modo perfetto l’universo emozionale del protagonista e le peculiarità delle varie figure che si susseguono nel divenire narrativo.
La sua scrittura risulta limpida e precisa, capace di fissare le emozioni e gli stati d’animo più intensi del protagonista, che ripercorre le molteplici esperienze della sua vita, sempre riportando il personale mondo interiore con discrezione, e con il desiderio di condividere la propria esperienza ed il personale percorso, in un abbraccio amorevole.
In alcune pagine l’intensità narrativa di Sergio Daniel si fa vibrante e si avverte un totale coinvolgimento nella vicenda che sta raccontando.
Nelle prime pagine del libro già troviamo una importante riflessione dell’Autore che ben introduce alla vicenda narrata: “I piedi ci portano in giro tutto il giorno. I piedi sono l’elemento portante del nostro cammino” e, senza alcun dubbio, Danilo, il protagonista del romanzo, di strada ne ha fatta tanta e, fin da piccolo, ha sempre amato stare a piedi nudi, come a sentire che affondavano nella terra, come a voler percepire le sue “radici”.
Purtroppo, all’età di sessant’anni, dopo un infarto, si ritrovava con il corpo stanco e stremato, sdraiato su una barella del pronto soccorso, con i piedi nudi, come quando era bambino: durante la terapia intensiva lui “scivolava sulle sue emozioni”, ma si rendeva conto che era ancora vivo e che avrebbe rivisto sua moglie, le sue figlie e il nipotino che aveva solo un anno.
Come in una rivisitazione la vita gli stava passando davanti e riviveva ogni emozione a partire da quando era bambino ed amava stare a piedi scalzi, o quando era solito rifugiarsi sotto il grande salice, e, ancor più, quando respirava il senso di amore che gli infondeva la sua famiglia.
Poi c’era stato l’innamoramento per la vita sacerdotale anche se la sua fede convinta in Dio era sempre stata presente nella sua vita, alla quale era seguita la necessità di ricercare una nuova prospettiva nel proprio animo, allontanandosi dal percorso per diventare prete.
Continuava ancora a cercare risposte nella solitudine della sua “isola”, all’ombra del grande salice, e tornavano alla mente le giornate gioiose, le corse a piedi scalzi sulla terra fertile; il mondo interiore di un bambino molto sensibile, dolce ed introverso, ma anche la figura di un ragazzino forte e consapevole che non si voltava mai indietro e, poi, le scelte fatte nella vita, le incomprensioni e le sofferenze; il ricordo di episodi e vicende che avevano contrassegnato il suo cammino; il matrimonio con Stefania, un legame forte e solido che era lo colonna portante della sua vita; e, infine, la grande passione che aveva sempre messo nel suo lavoro, fino ad avviare un laboratorio di analisi istologiche.
Solo ora, che si trovava in ospedale, si rendeva conto che “la sua vita era stata tutta una corsa” e, nel silenzio dei giorni, aveva intrapreso un percorso interiore, un viaggio che ripercorreva le molteplici esperienze e manifestazioni della sua vita, illuminando l’animo di un uomo “innamorato della vita”.
L’infarto era stato un doloroso evento che aveva segnato la linea di confine della precedente esistenza con la nuova vita, e le inevitabili limitazioni che tale condizione comportava, ma Danilo continuava a ricostruire la sua storia, a creare e ricreare il suo meraviglioso universo emozionale e ad alimentare costantemente la sua grande capacità d’amare.

Massimo Barile


A piedi scalzi


A Giovanna, mia moglie


Hai scritto nella mia anima
le più belle parole d’amore.
Della tua anima respiro
ogni ricordo, ogni gioia,
ogni gratitudine e
stupore.


A PIEDI SCALZI

I

Come osservò Menenio Agrippa nella sua astuta argomentazione per convincere la plebe romana a tornare al suo ruolo, ogni parte del corpo ha pari dignità e concorre al benessere dell’intero organismo. In tutto ciò i piedi, perché sono più in basso o perché sono i più lontani dal cervello e difficilmente entrano nelle vicende di cuore, faticano ad entrare nel novero degli organi utili. Ci si accorge di loro solamente se per qualche ragione fanno male per via delle scarpe troppo strette o a causa di qualche calletto o perché di notte escono dalle coperte e li sentiamo freddi. Pari dignità? Mah, forse sì, ma solo perché abbiamo una straordinaria apertura mentale ed un alto senso della giustizia.
Forse dovremmo rivedere questa nostra opinione: una semplice analisi, infatti, dimostra che in realtà i piedi ci portano in giro tutto il giorno. È vero che comanda il cervello e il cuore alimenta e sostiene, ma dove andrebbe un’auto se non avesse le ruote? Fosse anche una Ferrari fiammante, non si sposterebbe di un centimetro! Questo, sono in realtà i piedi: l’elemento portante del nostro cammino. Guardate un neonato come tocca, manipola, osserva, ama i suoi piedini paffuti: istintivamente percepisce che quelli saranno uno degli strumenti della sua libertà. Non solo, mentre li maneggia, si sorprende di quello che i piedi gli fanno sentire, le sensazioni che danno rispetto alle caratteristiche del suolo dove appoggiano, di come, pur da così in basso, trasmettano al cervello e al cuore emozioni provocate da quello che toccano.
Danilo aveva sei o sette anni e ancora non conosceva tutte queste cose, ma amava tantissimo sentire i suoi piedi nudi che affondavano sulla terra umida mentre, già dalle cinque del mattino, teneva, sicuro, la cavezza dei buoi per arare i campi dove sarebbe stato seminato il grano. La scuola, a quei tempi, iniziava il primo di ottobre. C’era ancora tempo per dare una mano nei campi guidando i buoi, attento ad andare dritto, perché i solchi storti sono segno di trascuratezza.
Danilo non si lasciava distrarre da nulla, tranne che dalla meravigliosa sensazione che gli inviavano i suoi piedi scalzi sulla terra appena girata dal vomere, dalla meraviglia della luce che invadeva gentilmente il cielo nell’alba fresca d’autunno e dalla maestosità di un grande salice piangente, forse vecchio come il mondo, cresciuto al confine della proprietà, in un angolo dove si era formata un’isoletta di pochi metri all’incrocio tra il canale Correggio e un fosso confluente che segnavano il confine dei campi che la famiglia di Danilo lavorava a mezzadria.
Verrebbe da scagliarsi contro lo sfruttamento del lavoro minorile, l’uso smodato dei bambini nelle mansioni con cui le loro forze potevano misurarsi e altre simili questioni, più che giustificate, di cui è intriso il vivere moderno, oggi. Ma allora avevano un’altra dimensione. Danilo, con in mano la cavezza dei buoi, si sentiva potente e protetto e i suoi piedi scalzi nella terra erano radici feconde di vita.
Il grande salice era il suo rifugio quando arrivavano estranei o parenti da lontano. Lo infastidiva tantissimo quando gli estranei, per lo più sconosciuti o quasi, lo salutavano palpeggiandogli le spalle e le cosce per capire quanto fosse grasso: si sentiva come immaginava si sentissero i vitelli quando veniva il mediatore per organizzare la vendita. Così, appena vedeva da lontano qualcuno sullo stradone di ghiaia e terra battuta che portava alla casa, Danilo, di corsa, andava a rifugiarsi sotto le fronde rigogliose del salice, si sdraiava sull’erba fresca o si perdeva a contare i girini che popolavano l’acqua del fosso. Lì stava bene, respirava piano per non far volare via gli uccellini che abitavano i rami e, a volte, chiudendo gli occhi, gli sembrava di essere ancora dentro l’abbraccio di sua madre.
Amava molto gli abbracci della mamma e anche stare sulle spalle di suo padre, alto e forte, che lo portava nei campi facendogli vedere ciò che succedeva sotto gli occhi di un buon osservatore, spigandogli l’influsso della luna e delle stagioni, trattandolo, comunque, da uomo, responsabile di sé e delle proprie azioni. La mamma invece era di bassa statura ma il suo abbraccio comprendeva il mondo intero. Danilo si lasciava andare, con il capo appoggiato sul suo seno morbido, tra le braccia che lo avvolgevano. Era l’unico posto dove la sua anima riposava meglio che sotto i rami flessuosi del salice piangente.
La famiglia era una culla imperfetta e arcaica dove il vecchio, il nonno, dettava le regole e i suoi figli, le nuore, i nipoti, sostanzialmente obbedivano. Ma era una culla che proteggeva e scaldava. Ognuno contribuiva secondo le sue possibilità a farla andare avanti. Le sere d’inverno, nella stalla dove dormivano una quarantina di mucche, un toro e due o tre paia di buoi, i bambini giocavano nascondendosi tra gli animali sdraiati sulla paglia delle loro poste, gli uomini si impegnavano rumorosamente con le carte e cominciava la rivoluzione delle donne per uscire da una semi schiavitù e un sostanziale ruolo di fattrici.
Anita, la madre di Danilo, aveva vissuto buona parte del trentennio fascista in Francia, dove il padre, socialista, era scappato. Era cresciuta quindi fuori dalle rigide regole del mondo agricolo cattolico del basso Piave dov’erano tornati col finire della guerra e lei aveva sposato Rico ed era entrata nella famiglia Brumel.
Da subito aveva iniziato a far evolvere un po’ la famiglia, soprattutto per quanto riguardava le donne. Prima del suo matrimonio, le donne di casa Brumel non mangiavano a tavola. Si accomodavano su delle sedie poste lungo i muri della cucina con i bambini piccoli in braccio e il piatto in mano. Il tavolo era riservato agli uomini. Anita, fin dal primo giorno, prese la sedia e si sedette a fianco di Rico. La reazione fu modesta e Rico sostenuto anche da qualche fratello ritenne che il posto a tavola di sua moglie fosse accanto a lui. In pochi giorni, tutte le donne trovarono il loro posto alla tavola che era molto grande e poteva ospitare almeno trenta persone.
Quando Danilo, adolescente, cominciava a porsi i grandi temi della vita, della giustizia, della famiglia, del lavoro con l’impeto che caratterizza il momento evolutivo dell’adolescente, Anita gli raccontava con passione la sua conquista di un posto a tavola e molti altri fatti che la vita da migrante in un paese straniero le erano successi ed avevano formato la sua coscienza di donna.
La dittatura patriarcale pesava molto sull’anima di Rico. Durante la guerra, in Libia, era stato ferito al ginocchio sinistro. Era riuscito a tornare nascondendosi nella stiva di una nave dall’Africa all’Italia e con mezzi di fortuna dalla Sicilia al Veneto. Arrivò a casa ma con il ginocchio in cancrena. All’ospedale del Lido di Venezia gli venne asportata la rotula e sopportò un’ingessatura impressionante, dal collo a tutto l’arto inferiore sinistro, della durata di trentasei mesi, per bloccare l’articolazione del ginocchio e della congiunzione del femore all’anca.
In quel lunghissimo periodo di immobilità lesse molto, soprattutto libri che gli fecero maturare una coscienza sociale sulla condizione agricola. I braccianti, i mezzadri erano oppressi da condizioni contrattuali estremamente svantaggiose. In Emilia Romagna cominciavano a funzionare e ad essere descritte le prime cooperative agricole e questi progetti lo affascinarono. Lesse anche “Il Capitale” di Karl Heinrich Marx, anche se allora, per i cattolici, quel libro era all’indice.
Da bambino aveva frequentato la scuola elementare fino alla quinta (raccontava con orgoglio di essere stato bocciato per aver detto “puttana” alla maestra) ed era vissuto nel limbo bucolico della famiglia patriarcale fino a che fu chiamato in guerra, nell’arma dei carabinieri. Ci sono scuole capaci di insegnare molto di più di quel che si impara in un’aula; la guerra in terra d’Africa con le peripezie cui quella condizione costringe e poi tre anni di immobilità nel letto di un ospedale modificarono profondamente il suo patrimonio culturale.
Con molto dolore fisico ma una incrollabile fede in Dio e nella propria capacità di vincere, superò ogni difficoltà e ritrovò il proprio assetto fisico e morale di uomo forte, con dei progetti importanti per il lavoro agricolo. La famiglia patriarcale non era più in grado di dargli le necessarie risposte. Aveva già quattro figli. Lo Stato gli aveva assegnato una pensione di guerra. Era ora di rendersi autonomo. Rimase tuttavia un “pater familias” per tutta la vita.
L’influenza di Anita è stata certamente importante nella decisione di abbandonare la culla che tutti conteneva ma uno soltanto gestiva. Oltre alla Francia era stata anche in Germania, obbligata dagli accordi italo tedeschi secondo cui i figli degli italiani nei territori occupati dalla Germania dovevano prestare mano d’opera per sostenere l’industria bellica tedesca. Anita e due sue sorelle furono inviate a Monaco a lavorare in una fabbrica di bombe. In Francia aveva ottenuto un diploma di terza elementare. Ma la sua passione per la lettura e la facilità ad apprendere le lingue le diedero strumenti culturali significativi. Il resto lo imparò sui libri di scuola dei propri figli. Quattro. Ai tempi non erano molti: la sua famiglia originaria era di sette sorelle così come Rico aveva tre fratelli maschi e tre femmine. Sette e sette.
Anita e Rico comprarono una casetta poco lontano dalla casa che lasciavano e iniziarono la loro vita con Nino ed Enrica, fratelli maggiori di Danilo, e Teresa, di tre anni più giovane di lui. Dieci anni dopo Teresa, nacque Marta. Non era una vita facile, i soldi della pensione bastavano a stento e Rico continuava a lavorare nei campi della sua famiglia in cambio di cibo ma i piedi erano sempre scalzi, con la suola indurita e la capacità di emozionare al contatto con la terra, con l’acqua, con l’erba. I bambini indossavano dei sandali con la suola di legno per andare a scuola in estate e delle galosce in inverno, ma arrivati a casa liberavano subito i piedi.
La Marca Trevigiana fin dal Medioevo era definita Marca Gioiosa. La terra delle campagne è una terra morbida, fertile, priva di sassi. Fiumi e canali attraversano il territorio per ogni dove, irrorando ogni palmo coltivato e favorendo qualsiasi coltura. Il cibo non manca mai e anche il carattere della gente è vivo e allegro, le persone sono belle della bellezza che viene da una natura ricca e generosa. La polenta viene fatta con il mais bianco ed è più soffice e più delicata della polenta gialla, ideale per accompagnare il pesce che popola fiumi e canali e la carne di polli, anatre, oche e tacchini che scorrazzano per le campagne, quasi selvatici, insieme ai conigli. Le piante di mais superano i tre metri di altezza e le pannocchie sono grandi e coperte di chicchi. In una terra così la sofferenza è odiosa. C’è spazio per il benessere di tutti, trovando le strategie che a tutti possano permettere di partecipare al benessere ottenendo il giusto compenso per il lavoro.
Rico lavorava sodo e negli anni convinse molti agricoltori ad associarsi in cooperativa. Ancora oggi la cooperativa da lui fondata opera con successo, con importante miglioramento economico per tutti i soci. Tranne che per lui: non aveva terra di proprietà e prestava la sua capacità organizzativa a titolo totalmente gratuito.
Danilo aveva perso la sua isoletta sotto il salice piangente, ma era parte integrante della nuova avventura che viveva la sua famiglia. Il rapporto con i suoi fratelli era sereno, soprattutto con Teresa, con cui passava lunghe ore, in inverno, a giocare sotto il tavolo della cucina. Il nome di Teresa era stato scelto proprio da Danilo. Rico, per la sua patologia, aveva diritto ogni anno a qualche giorno di mare. Portava la famiglia a Cortellazzo, vicino a Jesolo, e quando Anita aspettava Teresa, Danilo, che allora aveva tre anni, giocava sulla spiaggia con una ragazzina di nome Teresa. Quando la bimba nacque, il fratellino fece il diavolo a quattro finché tutti si convinsero che sarebbe stata Teresa.
Crescendo, frequentava la terza elementare, era affascinato dalla figura del sacerdote che celebrava la messa. Idealizzava la figura ieratica che parlava in latino con Dio e consacrava il pane ed il vino, girando le spalle alla gente e rivolto soltanto verso l’altare. Per questo era diventato un chierichetto assiduo. Tutte le mattine alle sei era in chiesa. Tornava a casa subito dopo la messa per fare colazione e tornare a scuola, nelle aule che erano della parrocchia, in fianco alla chiesa, a quasi due chilometri da casa.
Un giorno di aprile, un pomeriggio limpido e pieno di sole, una Fiat 600 bianca si fermò davanti al cancello della casetta di Rico e Anita Brumel, ne scese un sacerdote un po’ grassottello ma dall’aspetto fine e affidabile. Aveva i capelli grigi e gli occhi irrequieti, simpatici. Capì subito come prendere quel bambino dolce e introverso, come convincerlo a cercare la sua strada andando in seminario. Aveva capito che quel bambino amava il silenzio, amava cercare parole che esprimessero tenerezza ed emozioni. Volle leggere alcune poesie che Danilo aveva scritto alla mamma. Parlò con tranquillità concludendo con la proposta che era venuto a portare. Danilo non ebbe esitazioni. Guardò negli occhi Anita, lesse il suo consenso e disse il suo sì.
Finita la quarta elementare, visse con la sua famiglia quella che sarebbe stata l’ultima estate insieme. Anita preparava il corredo contrassegnando tutti i suoi capi con il numero 139, i fazzoletti, le mutande, le camicie, ogni cosa. Non potendo più scappare sotto il salice piangente, Danilo ascoltava pazientemente le raccomandazioni degli zii, dei cugini più grandi, degli amici della famiglia, dei soci della cooperativa. Pur essendo introverso e timido, stava imparando a superare il fastidio procurato da tutti coloro che si sentono in dovere di dare consigli non richiesti, prefigurare situazioni non note, insegnare a vivere secondo loro, mentre un adolescente sta cercando di vivere secondo una propria idea che è ancora nebulosa e già questa è una grande fatica.
Il primo giorno di ottobre di quell’anno, Danilo varcava le porte del seminario tra le colline vicentine e da quel momento avrebbe avuto soltanto le sue gambe per camminare, la sua testa per ragionare e, grazie a Dio, dei buoni educatori, gentili e saggi. E forti nel dargli fortezza e determinazione. Ma da quel giorno, Danilo dovette indossare le scarpe per tutta la giornata. Aveva un paio di scarpe nere, un paio di scarponcini marroni e un paio di scarpe da ginnastica.
Per molti giorni sentì i suoi piedi bollire dentro le scarpe e le calze erano madide di sudore. Di tanto in tanto, durante le lezioni o le ore di studio, liberava di nascosto i piedi sotto il banco e li appoggiava sul pavimento fresco: che paradiso! Dopo pochi minuti però era costretto a infilare nuovamente calze e scarpe per evitare una punizione. A piedi nudi poteva camminare di notte, nella grande camerata dove dormivano una quarantina di bambini ed imparò a farselo bastare.
Era un bambino naturalmente disponibile e fisicamente più alto degli altri che lo cercavano per essere nella sua squadra o perché sapeva confortare gli afflitti. La domenica molti compagni avevano la visita della famiglia. Danilo serviva tutti a tavola, così sembrava anche a lui di essere in famiglia, si sentiva benvoluto.
Tutto era cambiato per Danilo entrando in seminario. La vita scorreva regolata da ritmi ben diversi da quelli di casa, tutto avveniva all’interno dell’istituto e non era necessario percorrere chilometri per andare e tornare a messa e poi a scuola e poi, a volte, al doposcuola, un prolungamento delle attività scolastiche che avveniva di pomeriggio.
Il giovedì pomeriggio e la domenica mattina tutte le classi del collegio, la quinta elementare e tre classi medie, uscivano per lunghe passeggiate sui colli intorno a Montecchio Maggiore. Durante la settimana venivano organizzati tornei di ogni tipo per occupare correndo le lunghe ricreazioni. Danilo si era ambientato benissimo, tanto che a volte dimenticava di scrivere a casa e i suoi genitori dopo qualche settimana senza notizie, telefonavano all’istituto preoccupati. Era fatto così Danilo. Viveva il momento che stava vivendo senza soffrire per ciò che aveva già vissuto, che aveva lasciato. Certamente il bambino che si nascondeva sotto i rami del salice piangente era maturato in un adolescente più conscio di sé, disponibile a mettersi in gioco.
Alla fine del primo trimestre della prima elementare, la maestra aveva dato ai genitori un biglietto elegante con scritta la sua opinione su Danilo. Scriveva: “Danilo ha tutte le buone qualità che si possono desiderare in un bambino: è buono, profondamente buono, intelligente, ordinato, volonteroso. I genitori ne possono andar fieri, ma devono essere accorti perché il loro figliolo è molto sensibile e abbisogna di tanto affetto e comprensione. Sono convinta che Danilo è più difficile da educare dei bambini comuni, perché va trattato con la massima delicatezza. In ogni cosa che fa o che dice, egli mette tutto se stesso e i grandi non devono prendere alla leggera i suoi problemi (che sono piccoli per gli adulti, ma tanto grandi per un bambino). Danilo ha bisogno di una persona a cui dare tutta la sua fiducia e guai se dovesse perderla! Auguro ai genitori che il loro bambino continui a crescere nella bontà che gli hanno messa in cuore e che intendono coltivargli sempre.”

Danilo lesse queste righe solo quarant’anni dopo che furono scritte. Gli furono recapitate con altri suoi documenti dopo la morte di Rico e Anita. La commozione gli riempì l’anima e pianse a lungo: quella giovane maestra aveva capito tutto di lui e, tutto sommato, anche i suoi genitori nei nove anni prima del seminario e gli educatori negli anni successivi. Danilo ebbe sempre vicino persone accorte, capaci di lasciargli quegli spazi di solitudine in cui lui, con i piedi scalzi sulla terra, sulla neve, sul pavimento, costruiva piano il se stesso di cui si fidava.
Così come da piccolo trattava i buoi con tenerezza e ne faceva quel che voleva, fino a legare una corda alle corna e farne un’altalena con quell’incredibile animale che teneva la testa più alta che poteva per consentirgli di giocare, così crescendo continuò a costruire con i compagni e con chiunque altro rapporti in cui l’affetto aveva un ruolo importante. Va detto ad alta voce che, nei sette anni passati in seminario, nessuno degli educatori mancò mai di rispetto alla sua anima e al suo corpo: erano preti o giovani che attendevano, dopo pochi anni, l’ordinazione in un ordine religioso dedito ai giovani, secondo la regola di san Leonardo Murialdo, torinese, contemporaneo di san Giovanni Bosco di cui condivideva l’amore per i ragazzi di strada, per la gioventù povera e abbandonata.
L’organizzazione predeterminata della giornata prevedeva scuola, studio e preghiera intervallati da lunghi tempi di svago e di gioco in cui scaricare l’esuberanza giovanile. L’allegria, anche se rumorosa, era tollerata e a volte provocata; la tristezza era compresa e ascoltata. Nacquero amicizie profonde sia con i compagni che con gli educatori. Certo, non era il paradiso, c’erano i rimproveri, i castighi, i brutti voti come in ogni vita che cresce, ma tutto era accettabile, anche il cibo che per il grande appetito di Danilo era sempre ottimo e abbondante.
Questa corsa nel tempo riempiva, sessant’anni dopo, la mente di Danilo. La mente, perché il corpo era stremato, sdraiato su una barella del pronto soccorso con medici e infermieri che agivano celeri su di lui. Era la sera della festa del Corpus Domini. Il giorno dopo avrebbe dovuto raggiungere Roma e aveva già la prenotazione e il biglietto. Ma Roma era lontana e per dove stava andando lui non serviva nessun biglietto. Aveva i piedi nudi, un po’ freddi, fuori dalla copertina della barella. Un’infermiera gentile, passando glieli coprì.

[continua]


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