Con questo racconto è risultata 9^ classificata ex aequo – Sezione narrativa nella VIII Edizione del Premio di Scrittura Creativa Lella Razza «Frammenti di memoria: una donna straordinaria»
Ninetta: Mamma e Ostetrica straordinaria
Quando Letizia ha espresso il desiderio di iscriversi a Ostetricia, io e mia sorella ci siamo guardate e, sorridendo, abbiamo pensato alla stessa persona: la nostra Mamma, meravigliosa e straordinaria Mamma Ninetta Ostetrica.
“Essere ostetriche non è una professione” soleva dire, “non è un lavoro: è una Missione, è ascoltare la Voce che arriva dall’Alto, tocca il tuo cuore e ti fa vivere in una dimensione diversa. Mai dimenticherò l’emozione provata quando ho messo fra le braccia di Foschiaika suo figlio Romano, nato l’8 Febbraio: il giorno del mio compleanno. La prima creatura che ho aiutato a venire al mondo. Quell’emozione non mi ha mai abbandonata, mai è diventata abitudine. Quel figlio, atteso per nove mesi, è stato accarezzato, coinvolto e reso protagonista in tanti progetti di vita, amato ancor prima di vederlo. Essere Ostetrica in un comune come Savogna, composto di ben undici paesini, sparsi sul dorsale del Monte Matayur, raggiungibili solamente a piedi, voleva dire convivere nella quotidianità con fatica e sacrifici”.
La mamma era orgogliosa di essersi diplomata a Padova in Via Del Santo. Non contenta di quel diploma né conseguì un secondo in Fisioterapia, un’appetibile primizia per quei tempi! Correva l’anno 1922. Poche persone, donne in particolare, erano in possesso di quei due tesori che davano la possibilità di trovare aperte tante porte verso un nuovo mondo, anche se fatto di sofferenza.
Mamma non perse tempo e partecipò al primo bando di concorso a disposizione. Il comune era Savogna di Cividale, in provincia di Udine. Vinto il concorso, partì senza indugio accompagnata dal papà, lasciando la famiglia e la bella e grande casa paterna di Volpago del Montello, vicino a Treviso.
Il viaggio della mamma è stato lungo: treno e diligenza. Giunta a destinazione l’ha accolta il Podestà. Le è bastata un’occhiata per rendersi conto della povertà del paese. Emozione e paura sono state le sue prime impressioni. La gente non parlava in italiano ma una lingua a lei incomprensibile: lo sloveno.
“Jè parslà, je parslà” (è venuta è venuta). Tante donne erano lì sulla porta di casa ad attenderla. Parlavano tra di loro. La guardavano con aria timorosa.
“E’ troppo bella ed elegante per stare in mezzo a noi, non si fermerà, se ne andrà dopo due giorni” bisbigliavano. Non la conoscevano e già avevano paura che non rimanesse.
“Sapeva così di buono!” le confidarono in seguito. Da subito diventarono per mia mamma “le mie donne, guai a chi le tocca, esigo per loro il massimo rispetto.”
Perinza e Irma, madre e figlia, l’attendevano sulla porta di casa che l’avrebbe ospitata.
Chi avrebbe immaginato che sarebbero diventate parenti! Perinza e Irma erano zia e cugina di Alfredo, che la bella ostetrica in seguito sposò.
Alfredo era veramente un bel ragazzo di trentatre anni, con un posto sicuro all’anagrafe del comune.
Senza rendersi conto, il laboratorio di chimica aveva iniziato a comporre espressioni e formule nel cuore di entrambi. L’adrenalina tanto cercata e desiderata negli innamorati aveva dato inizio al corso naturale delle cose.
Il matrimonio s’e fatto! Siamo nati noi tre figli.
In quegli anni, nascevano tanti bambini, e per la mamma non c’era riposo, sia di giorno che di notte. Ricordo i passi delle persone che la venivano a chiamare:
“Cumar la Nadalia ha le doglie, si prepari, l’aspettiamo”.
In un batter d’occhio era pronta, con la valigetta in mano.
Quella notte c’era tanto freddo e nevicava. Mia sorella mi teneva per mano. Piccole in camicia da notte di flanella lunga fino ai piedi, con le mani attaccate alla ringhiera del balcone, la seguivamo con lo sguardo. I nostri occhi navigavano in un mare di lacrime per il dolore di vederla sparire nella bufera, avvolta nel suo grande scialle nero, sorridente e veloce al seguito del futuro papà o zio.
Quando la neve era troppo alta, metteva i piedi nell’orma lasciata da chi la precedeva con in mano una lanterna a petrolio. Si calzavano i cosp, zoccoli di legno alti come scarponcini, che ben presto si sarebbero bagnati. Non erano caldi. Non erano comodi.
Mamma non voleva che ci alzassimo dal letto, ma lei sapeva che eravamo lì: senza girarsi alzava la mano in segno di saluto. A testa bassa rientravamo in camera singhiozzando. Mia sorella teneva i piedi fuori dalle coperte, al freddo, per sentirsi più vicina a quelli della mamma: nel giro di poche ore sarebbero stati umidi e freddi.
Lo scialle nero della mamma, riposto nel suo armadio, è stato accarezzato un’infinità di volte. Mia sorella si avvolgeva dentro anche in piena estate. Lo annusava. “Senti il suo odore!” mi diceva.
Quello stesso scialle lo ricordo anche per un altro fatto: eravamo in piena guerra. Decine di aerei sorvolavano i nostri paesi. Le bombe cadevano a grappoli. La mamma mi stringeva forte forte fra le sue braccia. Eravamo nel lodar tra il fieno e il carretto di Zanut Zeniabuknovu, avvolte nello scialle nero cercavamo protezione e calore. Trattenevamo il respiro…
“Madonna di Castelmonte aiutaci, fa che possa riabbracciare i miei figli Paolo e Michelina, profughi dai miei. Piangeva e pregava la mia mamma. Quanta sofferenza e quanto dolore! Mi stringeva al suo petto forte, troppo forte. Solo dopo ho capito il motivo di quella disperata stretta: per lei era come se fossimo lì tutte e tre.
I bambini nascevano anche sotto le bombe. Tremavo quando vedevo la fascia bianca con la croce rossa che si legava al braccio per farsi riconoscere. Era il suo lascia passare. In quel periodo ha curato ferite di tanti soldati, veniva rimproverata, e a volte minacciata.
“Le ferite che curo non portano firme, il sangue che questi ragazzi perdono è rosso, rosso come la fiamma dell’amore, pertanto lasciatemi fare il mio lavoro”. Non aveva paura, ma se paura c’era non l’ha mai dimostrata.
Che mamma fosse una persona straordinaria in paese lo sapevano tutti. La nostra famiglia possedeva anche un piccolo mulino, ereditato dal nonno, e parte della farina dovuta per il macinato veniva da noi regalata ai più bisognosi. Allora, una buona polenta bastava per soffocare i morsi della fame.
Quando la mia amica Valentina si è ammalata, è stata lei a curarla e a far compagnia e coraggio a mamma Felicita. Nessuno si avvicinava a quella casa. “E’ infetta!” dicevano. Niente e nessuno l’ha mai fermata di fronte al bisogno, anzi, portava anche me.
“Raccontale qualcosa, leggile una fiaba, quando si risveglierà, ti ringrazierà”
“Simona ti ho sentita quando leggevi, non potevo né parlare né muovermi. Grazie! Grazie anche alla tua mamma che con la mia non si sono mai stancate di pregare”.
Era da sola ad assistere quel parto così difficile e pericoloso di una primipera non sposata. Erano tempi brutti per che si trovava in quello stato. I famigliari non volevano l’intervento del dottore, troppo scandalo!
“Non ti preoccupare Anita, andrà tutto bene, ho parlato con la Madonna, mi ha rassicurata”. Sono nati tre gemelli. Non c’è stato scandalo, ma una grande festa.
Molto spesso mi portava con se a far la prima visita post-partum. Lungo la strada mi elencava i nomi dei fiori, degli alberi, degli uccelli, e delle farfalle. Mi spiegava che molte erbe e fiori erano adoperati nei laboratori di farmacologia, si chiamano piante officinali. Quante cose sapeva la mia mamma!
Quando ha saputo che per il suo Paolo non c’era più nulla da fare, con voce greve ha detto: “Portatemi da lui”. Accanto a quel capezzale ascoltava e guardava muta quel figlio che già sapeva non sarebbe mai tornato a casa. I suoi occhi grigio-verdi erano diventati scuri, senza espressione.
In cimitero non l’ho più vista al mio fianco.
“Mamma dove sei? Avete visto la mia mamma?”
Mi sono diretta verso l’uscita. Eccola! Stava camminando curva nel suo dolore, affranta e bagnata sotto la pioggia di quel giorno di novembre.
“Mamma quella non è la nostra macchina, vieni ti accompagno io”. “Non importa, siediti vicino a me”. Non piangeva, ma il suo respiro era un urlo silenzioso. Mi teneva stretta a se. Straordinaria anche nel suo immenso dolore, ha trovato la forza di sorridermi per alleviare la mia sofferenza.
“Ti voglio ricordare con quel sorriso Mamma”!
Ha vissuto fino a novantasei anni. Se ne andata in silenzio, guardava me, mia sorella e le nipoti, che sono state sempre vicine a lei.
Una luce a noi sconosciuta le ha fatto brillare gli occhi. Chi aveva visto? Chi l’aveva presa per mano per guidarla verso la gioia eterna?
Simona Agnese Blasutig