Con questo racconto è risultato 5° classificato nella XVII Edizione del Premio Letterario Internazionale Il Club dei Poeti 2013 – Sezione narrativa
Questa la motivazione della Giuria: «Racconto onirico e visionario. La decodifica non è facile: tra fotomodelle dallo sguardo vitreo, manichine che strizzano l’occhio e il continuo sguardo al suo riflesso nelle vetrine d’un negozio. La narrazione è pulsante e lascia presagire “cose dell’altro mondo”». Massimo Bari
Innerimenti. Cellulari. Turbano. Un. Signore.
Camminando cosa vedo? Un manichino. Una manichina, anzi. In realtà ne sono una mezza dozzina, ma le vedo di sfuggita perché sono di fretta.
Questa qui, in particolare, è una manichina di colore. Mi ha strizzato l’occhio.
Faccio ondeggiare il mio muso come un cane che vuole liberarsi dall’acqua che gli è rimasta addosso dopo essersi tuffato in un piccolo ruscello. Il problema è che l’occhio strizzato di dosso non mi si scrolla. Grazie allo scossone che dò col muso perdo due ciglia, un capello, e sessantadue cellule epiteliali, ma l’occhio strizzato rimane lì. E allora quasi quasi torno indietro, aspettandomi di vedere una bella modella nera in carne ed ossa, invece di un manichino. Che poi magari, ne parliamo anche del suo strizzare verso me, un birbantello di anni cinquantadue ma che ne dimostra non più di quarantanove.
Però, il risultato del mio controllo è un manichino. Manichina.
Elegante, vestiti firmati, bel seno plastico e sodo. Una bomba. Solo che è ferma.
Senza badare a quello che succede, proseguo verso il luogo dove devo andare.
Non amo le riunioni mensili che il capo organizza, ma andarci è l’unico modo per far sì che nel giro di qualche anno io diventi il capo che organizza riunioni mensili che nessuno ama e alle quali nessuno vuole andare perché sono stato il resto del mese in vacanza alle isole Arzille e niente conosco e niente ho visto dell’andamento e dello spread. Quindi, vestito con armatura formale nera e valigetta nera alla mano, guardo il mio riflesso nella vetrina di un negozio e vedo un cappello rosso.
Entro e lo compro. E lo indosso subito.
Più avanti, proprio sotto il palazzo dei miei affari, incontro un signore che indossa il mio stesso cappello.
«Bene, sei arrivato. Ci hai messo tempo» mi dice.
«Il tempo in eccesso è dovuto ad un contrattempo» gli dico io.
«Lo è sempre. Quale contrattempo?».
«Ho perso tempo a controllare che chi mi avesse strizzato l’occhio non fosse una vera… una modella intendo».
«Beh, ma… lo era!».
«…cosa?».
«Lo era. Non l’hai cercata? Non è qui con te?» mi chiede il mio amico, mentre dalle sue spalle fa capolino una manichina in plastica, bionda, con i vestiti firmati, e con uno sguardo vitreo che farebbe sentir freddo anche a un pesce morto.
«No… forse… forse mi sono confuso! Forse… non ho capito il trucco».
«Ah, beh amico. La scelta è tua. Puoi salire senza la strizzeria oppure puoi andartela a cercare. Stai sicuro, però, che quelli della squadra blu verranno tutti con una strizzeria. Ier sera si vociferava che di loro, alcuni, ne hanno anche una di scorta».
La notizia mi lascia di stucco.
«Ma dai?» gli dico, per far sì che anche le mie parole siano di stucco.
Stacco la conversazione e allungo una falcata in direzione del negozio dove la manichina mi ha strizzato l’occhio, e io ho lasciato che tutto morisse lì. Stranito mi trovo però, quando, imboccata la via giusta, i denti sbatto contro un muro pietrificato.
«Merda!» dico allora, convinto di quel che esclamo.
«Oh ma tu senti! Feci, mi chiama lui!…» fa una voce missata malissimo, con i bassi distorti e i tweeter per le frequenze alte in pausa pranzo.
«Chi ha parlato?» dico, ovviamente, io.
Il muro mi risponde «Io parlo, fetente latente. E prima ancora che ti chieda chi tu sia, ti chiedo dove vai. Dimmi lesto dove sei diretto».
«Io devo andare… di là?».
«Di là dove?».
«Al di là del muro… al di là di te».
«A far cosa, di grazia?».
«Io…non lo ricordo…».
«Lo so, ora vai. Hai perso la tua compagna strizzetta, ma non hai
perso la guerra. Vai».
«Io… sì…».
E quindi mi incammino verso il posto da dove sono venuto. Sono venuto da lì? Dall’ufficio. Giusto?
Arrivo sotto, e il mio compare già non c’è più. È salito con la sua… cosa. Prendo l’ascensore e al sesto piano entro in una porta di legno.
Vicino la porta, appesa al muro, c’è una targhetta con sopra scritto il mio nome. Vibra, quando chiudo la porta.
Dentro è tutto buio. Completamente buio. Ritmicamente, una luce bianca, accecante, pulsa.
Con la sigla “bpm” si indicano i “battiti per minuto”. È una sigla usata principalmente in musica, nello sport, e nella medicina. Quando un musicista imposta il suo metronomo a “60 bpm”, quello darà sessanta battiti per minuto, e scandirà quindi i secondi.
La luce bianca, accecante, pulsante, illumina la stanza con pulsazioni istantanee, ad una velocità di 120 bpm. Due volte al secondo, dunque, la stanza viene pervasa per pochi attimi da un bagliore che spiega cosa c’è.
Cosa sta succedendo?
Per terra, a pochi metri da me, c’è un cappello rosso. Poco più in là, vedo delle figure rannicchiate sopra un corpo. Stanno mangiando l’uomo che aveva il cappello rosso. Istintivamente porto la mano sulla testa, ma mi accorgo di non avere il cappello. Ritraendola, e portandola danvati agli occhi, vedo del sangue.
La velocità di scarica della luce scende a 60 bpm. Una volta al secondo.
Il raggiungimento di un’idea precisa sulla situazione mi è difficile. Mi accorgo che le figure rannicchiate, che mangiano carne e fanno rumore, hanno una strana forma. Sembrano essere avvolte da un vestito gonfio e buffo. Al fianco di ogni figura c’è un manichino femminile, in posa.
La frequenza scende a 30 bpm. Un battito ogni due secondi. Una pulsazione di luce ogni due secondi.
Faccio un passo, perché qualcosa, cavolo, dovrò pur fare. Cerco di avvicinarmi alla scrivania. Dovrebbe esserci qualcosa sulla scrivania. Una foto? Qualcosa che mi faccia… bene. Un elemento positivo, saliente. Ecco.
Sulla scrivania deve esserci qualcosa di importante, perché è li che si mettono le cose importanti. Almeno credo che sia così.
La frequenza scende a 15 bpm. Ogni quattro secondi, un flash luminoso informante travolge il mio sistema sensoriale. In quattro secondi, quelli che corrono nelle gare percorrono un sacco di spazio. Spazio nel tempo.
I mangiacarne hanno sentito i miei passi goffi. Si alzano. Ora sono in piedi attorno al corpo del mio ex amico. E nei prossimi secondi non potrò fare altro che aspettare la prossima fotografia.
L’attesa è… fastidiosa, perché non c’è niente a scandire il tempo, che per quanto ne so potrebbe essere un’invenzione. Potrebbe non esistere, qui, il tempo.
Ecco il flash! Li ho visti! È tremendo. Sono dei… cappelli, blu e con delle appendici superiori e inferiori. E con dei denti di un altro colore, non blu. Denti sporchi. So che tra pochi secondi sentirò quei denti stringere su di me. Non aspetto il prossimo flash, per vedere se ho ragione. Per fortuna trovo la maniglia, e posso uscire.
5 bpm. Non ho idea di che significhi.
Anche fuori, adesso, è tutto buio. Non riesco più ad alzare il braccio destro. Arriva il flash, e mi consente di vedere una targa che è a lato della porta. È bianca. Non c’è scritto nulla sopra. Sento qualcosa che mi sta toccando. Qualcuno è dentro di me è sta giocando con me. Sento freddo.
Spifferi.
Sbatto contro un muro. Vorrei dire qualcosa, ma non ci riesco.
«Allora, eccoti qui. Chi sei?» mi chiede il muro, con le frequenze basse così forti che mi piego in due per il dolore. Non riesco più a muovere gran parte del corpo. È tutto freddo.
«Non lo so».
Il prossimo flash sarà del colore dei denti che si stringeranno attorno a me. Attorno al mio… quella parte che collega il corpo alla… quella che sta sopra…
Zero bpm.
Simone Di Plinio