Sonia Della Libera - Angeli senza pretese
Collana "Le Schegge d'Oro" - I libri dei Premi - Narrativa 14x20,5 - pp. 148 - Euro 12,00 ISBN 978-88-6587-2413 Clicca qui per acquistare questo libro In copertina: «Una preghiera» dipinto di Fabio Nardin Pubblicazione realizzata con il contributo de IL CLUB degli autori in quanto l’opera è finalista nel concorso letterario J. Prévert 2012 Chi saranno mai, gli angeli senza pretese? Carol, la giovane americana protagonista di questa storia, li descrive come “persone speciali […] che si sono materializzate al momento giusto e mi hanno dato chi affetto, chi una mano e basta. Secondo me, sono degli angeli… diciamo terrestri, solo che loro non se ne rendono conto e se glielo dicessi si metterebbero a ridere.” Li definisce angeli poiché “fanno del bene in silenzio, come se fosse la cosa più naturale del mondo, senza andarlo a dire in TV o rilasciare interviste. I piccoli gesti di tutti i giorni hanno una grandissima importanza. Sono quelli che illuminano le giornate, no?” Introduzione Questo libro è un viaggio nell’universo dell’amicizia con la A maiuscola che vede come protagonista una ragazza americana di circa trent’anni, Carol, che vive in Italia. Come ci sia arrivata e perché, il lettore lo scoprirà nelle pagine che seguono, compiendo un viaggio di circa due anni insieme a lei, tra regioni e realtà diverse, mentre si confronta con alcune stagioni dell’amore e da ragazza si trasforma in donna. Sonia Della Libera Angeli senza preteseA tutti gli angeli in incognito Parte prima: Milano sud Nuovi colori per dipingere il cielo “Buonasera. Tiene per caso colori acrilici?” L’uomo dietro al bancone era assorto nei conti di fine giornata e la domanda sembrò cadere nel vuoto. In attesa di una risposta, Carol si guardò attorno, passando in rassegna quel curioso negozio. Raramente in vita sua aveva visto un posto tanto disordinato. All’esterno non c’era alcuna insegna ed era un vero peccato: quel caos mancava di un titolo. Si era decisa ad entrare solo per i cavalletti in bella mostra in vetrina: doveva per forza trattarsi di un colorificio. In quella sera di nebbia di fine ottobre, a fungere da richiamo per potenziali avventori era soltanto la forte luce a neon posta al centro del soffitto. Era un enorme quadrato abbagliante che tuttavia non riusciva ad irradiare la sua potenza fino alle pareti, contornate da scaffali su cui troneggiavano vasetti vuoti, cartoncini sparsi, bottigliette di olio di lino, risme di fogli e qualche tubetto di colore solitario: la logica della disposizione delle cose era davvero… creativa. “Cusa alè che te di?” L’uomo scrutò la giovane attraverso gli spessi occhiali che gli contornavano gli occhi, ma non le prospicienti sopracciglia. Lei indossava un maglione arancione chiaro, messo per far risaltare il color mogano dei morbidi ricci che le incorniciavano il viso. Aveva un collo elegante e modi raffinati che il suo abbigliamento sportivo non riusciva a celare. “A che cosa ti servono?” L’uomo le fece cenno di seguirlo giù per una stretta scala a chiocciola. Scendendo, borbottò “Attenta alla testa” e, una volta raggiunta l’angusta stanzetta posta al piano di sotto, puntò dritto su una scatola sepolta sotto decine di altre assolutamente uguali, incolonnate su una sorta di davanzale, ed estrasse un tubetto. “Te va ben in si?” Carol annuì e chiese i colori primari, che l’uomo scelse e racchiuse in una mano, levandola poi dinanzi a sé come per mostrarle il suo prezioso bottino, e dopo averla fermata a mezz’aria, si mise a studiare il suo viso ed i suoi occhi verde smeraldo. La stanza era piccola e la distanza tra loro era di poche decine di centimetri. In quel momento, Carol si chiese se scendere lì sotto con quello sconosciuto fosse stata una buona idea. “Beh? Che aspetti? Devi risalire prima tu, non posso mica scavalcarti! Preocupeten no, non ti guardo il didietro. Nanò, potrei essere tuo padre. E di figlie ne ho già tre.” L’uomo accompagnò tanta saggezza con una risata sardonica. Una volta di sopra, Carol ebbe un solo pensiero: pagare ed uscire in fretta. Lui però aveva deciso di fare conversazione. “Non ti ho mai visto. Sei nuova?” Quella frase venne subito ripresa da un uomo sulla cinquantina che si era improvvisamente materializzato dentro il negozio. I due si guardarono ghignando, con la complicità di chi si conosce da sempre. “Hai detto che dipingi, no? Allora perché non vieni al corso serale che si tiene qui in paese?” Carol guadagnò l’uscita con passo deciso, ma continuò a percepire le chiacchiere e le risate di quei due sconosciuti finché non fu lontana. Te capì, nanò? Il laboratorio di pittura si svolgeva nel piano interrato di una vecchia scuola ormai dedicata soltanto alle mostre. I muri erano scrostati ed impregnati dei colori più diversi a causa dei vecchi cavalletti e dei numerosi barattoli pieni di pennelli disposti lungo le pareti. Quella sala non conosceva riscaldamento, ma in compenso c’era sempre musica in sottofondo, rigorosamente degli anni ‘50 e ‘60. Il corso coinvolgeva una decina di persone, le più diverse: casalinghe, ex bancari, pensionati e oramai anche Carol. Gianni la sapeva lunga. Si era rallegrato nel vedere che «la ragazza dei colori acrilici» gli aveva dato ascolto e che si era aggiunta al gruppo. Lei era particolare e il suo occhio di artista lo aveva visto subito. Aveva studiato il suo profilo ed il suo sguardo per capire di che animo era e vi aveva trovato dolcezza, delicatezza ed una punta di fragilità. Sapeva che il suo piglio asciutto l’aveva intimorita e il fatto che si fosse iscritta al corso dimostrava carattere e coraggio. Chissà come riuscivano a convivere in una sola persona aspetti tanto contraddittori. “Hai lasciato a casa tuo marito da solo, stasera?” Era stato il primo sorriso che gli aveva regalato, un primo cenno di apertura e di amicizia. Carol stava dipingendo la sagoma di una donna in volo sopra la terra in una notte di luna piena; l’aveva vestita del suo maglione arancione chiaro e dotata di un palloncino da cui si faceva portare. “Dove va quella donna lì?” Carol era colpita dall’immediatezza di quell’uomo. Non sapeva esattamente se era dettata da un bicchiere di troppo o da un modo di fare che gli era connaturato; comunque fosse, la sua spontaneità gli piaceva davvero. Proprio burbero, alla fine, non era: i conti su cui era riverso quando lo aveva conosciuto dovevano essere stati davvero deprimenti. Il suo modo di fare, tra l’aperto e l’invadente, era caratteristico anche del cinquantenne che aveva intravisto al negozio, Edoardo, in cui si era imbattuta nuovamente nelle settimane seguenti al loro incontro, mentre faceva commissioni al rientro dal lavoro. Le aveva rivolto un cenno di saluto a gran voce, da distante, e le era andato incontro per salutarla, come se si conoscessero da sempre. Di fatto, non si erano neanche presentati. “Ué, chi si vede!!” Edoardo non aveva mollato Carol finché non ebbe scoperto dove lavorava, dove viveva e se era contenta del corso di pittura. Gianni, ovviamente, gli aveva raccontato tutto. Congedarsi da Edoardo e dalle sue domande in modo asciutto sarebbe stato possibile, ma avrebbe richiesto una freddezza che Carol davvero non possedeva. Certo, quei due erano tipi strani, ma anche molto simpatici, ed era chiaro che erano mossi soltanto dal piacere di fare quattro chiacchiere: risultavano quasi irresistibili. Carol non vide nulla di male nel trattenersi a fare confidenza con quel signore simpatico; il suo ragazzo, invece, fu di tutt’altro avviso: la sottopose ad un interrogatorio e ad una lista di consigli su come trattare gli sconosciuti. “Ma insomma, che c’è di male se mi fermo a parlare con Edoardo? Prima di tutto, è amico del mio maestro di pittura, quindi non è un perfetto sconosciuto, poi è sposato e sa che io vivo con te. In fondo sono venuta a vivere qui a Milano per starti vicino. Dovresti essere contento che faccio amicizia con gente nuova. Non posso mica frequentare solo amici tuoi.” Già, ma lui era geloso. Quel suo tesoro se lo voleva tenere ben stretto e qualche volta se lo sentiva sfuggire di mano. Che quel tipo volesse fare amicizia con lei, lo capiva, ma temeva l’esistenza di intenti nascosti che lei non era proprio bravissima a vedere. Dal canto suo, Carol pensava che Davide, essendo nato e cresciuto praticamente nello stesso posto (fatta eccezione per il trasferimento all’altro capo della città, evento che però non aveva cambiato in alcun modo le sue abitudini, perlomeno fino all’inizio della loro convivenza), non capisse che trasferirsi in un’altra città o, peggio ancora, in un’altra nazione, non è come andarci per un periodo in vacanza o per lavoro, quando sai che, comunque vada, alla fine torni a casa tua. Trasferirsi significa recidere molti legami ed accettare di entrare in una fase di transizione fra passato e futuro, in un presente in cui ci si può spesso sentire smarriti o sospesi. Implica perdere i propri punti di riferimento, piccoli e grandi: la faccia del panettiere di fiducia, il benzinaio simpatico, la farmacista scrupolosa, gli amici con cui si sono condivisi sogni e burrasche oppure semplici conoscenti con cui si scambiano quattro chiacchiere di tanto in tanto, ma che contribuiscono a dare un senso di appartenenza. Viene meno l’invisibile rete di relazioni che avvolge e delimita l’esistenza e che, proprio come la rete tesa a proteggere gli acrobati, evita brusche cadute: chi resta nel luogo in cui è nato e cresciuto ce l’ha incorporata, mentre chi si trasferisce se la deve ricostruire da zero. O quasi, visto che certi rapporti sfidano e vincono tempo e distanza, giacché sembrano poggiare su ponti mobili resistentissimi che è possibile attivare con una telefonata per sentirsi e condividere una gioia, concedersi uno sfogo o chiedere sostegno. Di rapporti simili Carol ne aveva tanti, a cominciare dal fratello Steve, il suo principale alleato, ma anche se i contatti con quelle persone potevano illuminare le sue giornate, erano pur sempre fugaci, preziosi ma volatili minuti rubati alla dimensione spazio-temporale, mentre lei aveva bisogno di arricchire il proprio quotidiano di interlocutori saldi e sinceri che vivessero a portata di mano. “E poi suona il banjo… ha detto che fa blue grass; magari qualche volta possiamo andare a sentirlo suonare.” Rifugiarsi nel suo orgoglio gli permetteva di eludere la battaglia. Avrebbe voluto renderla felice e basta, invece era così complicato. Davanti a lei si sentiva disarmato. Stava scoprendo che amare qualcuno è lasciarlo entrare dentro di sé e permettergli di vedere ciò che magari non piace neanche a se stessi. Non aveva mai dato a nessuna donna la possibilità di entrare così profondamente nella sua vita e attraverso questo rapporto stava sondando fondali inesplorati in cui talvolta avanzava incerto. Stava scoprendo che l’amore abbatte barriere, ma anche mezze verità e compromessi perché parla una lingua tutta sua che non ti insegnano a scuola. Magari! Spesso Carol proprio non la capiva; misuravano il mondo con parametri diversi ed era così sensibile davanti a tutto! Lei non si sapeva schermare e lui non sapeva come difenderla. Era consapevole di avere fatto alcuni passi falsi nel tentativo di aiutarla ad irrobustirsi, soprattutto nei primi mesi della loro convivenza. Il suo intento era sempre stato costruttivo, ma gli strumenti che aveva a disposizione andavano raffinati e nel frattempo lei ne usciva come un passerotto con le piume arruffate dalle intemperie e con la sensazione che lui le stesse dicendo che non era la situazione ad essere difficile, ma lei ad essere sbagliata. Davide aveva un ricordo nitido della prima volta che aveva visto Carol. Era stato durante una riunione di lavoro in cui lei fungeva da interprete. Si era unito agli altri ad incontro avviato, ma non era per questo che non capiva niente: era stato come folgorato da quella ragazza in un tailleur verde acqua che trasferiva le affermazioni da una lingua all’altra con grande naturalezza, dal suo portamento elegante e dai suoi occhi. Così, quando gli venne chiesta la propria opinione sul progetto in discussione, lui rimase a bocca aperta e biascicò una risposta che non convinse nessuno. Trovava in lei una grazia delicata; le disse che era così tanta da mettere in ombra chiunque le stesse vicino, esagerando, ma gli innamorati fanno così. Non era l’unico a sentire il peso della costruzione intrapresa: talvolta Carol la percepiva come un macigno sulle sue esili spalle e la sua tensione interiore non sfuggì a Gianni ed Edoardo. I due amici si vedevano spesso, tra un caffè al bar e due chiacchiere in negozio, e di Carol parlarono più volte. Pur non conoscendolo di persona, convenivano sul fatto che probabilmente il suo ragazzo le stava troppo addosso, ma era una questione che Carol doveva valutare da sola. “Te capì, nanò? Gli uomini sono egoisti e gli danno fastidio le donne che hanno successo perché li fanno sentire inferiori. È come dire che l’uomo delle caverne torna a casa dalla caccia e scopre che la propria moglie sta cucinando un alce che ha preso da sola. Il maschio fa un colpo. Si sente minacciato nella sua virilità. È così… Vivere insieme non è mica facile, sai. All’inizio c’è il corteggiamento, l’attesa di rivedersi… ma poi, quando vivi insieme, sai che anche lei si siede sul water come te e allora finisce la poesia. E lo stesso vale anche per voi donne.” Le lezioni di pittura erano arricchite da conversazioni sulla vita condotte principalmente da Gianni; Carol si limitava ad ascoltare e a fare brevi commenti: non avevano ancora una confidenza tale da indurla ad aprirgli il cuore, anche se lui ci aveva già letto dentro. Ormai Carol era molto antipatica agli altri partecipanti del corso per il trattamento spudoratamente privilegiato che il maestro le riservava: parlava con lei buona parte della serata, riservando agli altri qualche scampolo della sua attenzione. E, in cuor suo, Carol sapeva di andare a lezione per stare con Gianni: in lui aveva trovato un prezioso mattone della sua nuova casa in trasferta. [continua] Contatore visite dal 27-11-2012: 5331. |
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