Con questo racconto è risultato 7° classificato – Sezione narrativa alla XVII edizione Premio Letterario Internazionale Marguerite Yourcenar 2009
Io Paolo
Amo questa spiaggia. È piccola,
tranquilla, nascosta agli uomini e riparata dagli umori imprevedibili del mare. Qui le onde ci arrivano già domate della loro grinta selvaggia. Quando s’infilano dentro questa minuscola baia, ormai sono docili come bestiole da cortile e si lasciano accarezzare dal vento. Nelle albe di primavera riflettono i primi bagliori d’oriente, abbellendosi con le sfumature del colore dell’ambra.
Lì sopra Lindos, con le sue case dipinte a calce bianca sembra godere dei piaceri di un silenzio eterno. Solo il rumore degli zoccoli degli asini che risalgono i viottoli ripidi testimoniano che la città ha vita dentro le viscere. Dall’alto della roccia guarda verso le coste dell’Asia Minore, le si possono vedere in lontananza durante lunghi pomeriggi estivi, ma sembra non voler disturbare chi si ferma a riposare in questa baia solitaria.
Mi dà soddisfazione camminare a piedi scalzi sulla sabbia così fine e chiara, fino laggiù, dove si vedono le rocce che profumano di mare, anche se negli ultimi anni ho avuto ben poche occasioni per abbandonarmi a questo piacere sottile, che lenisce le fatiche del corpo e i malumori dell’anima. E pensare che ci sono arrivato da naufrago, una delle tante volte in cui ho rischiato la vita; una delle poche, forse l’unica, che non è stato per mano degli uomini. Ora ci torno appena ne ho la possibilità. Appena sento il bisogno di fermarmi per lasciare che il mio corpo, che ormai non ha più la forza di seguirmi, mi raggiunga. Ormai sono vecchio, gli anni spesso dilatano la distanza fra il corpo e la mente. Allora torno qui a rinfrescare l’anima con la brezza che si alza la mattina presto. E ci vengo da solo.
Qui non ci ho portato Tito, né Timoteo, né il più caro degli amici che ho a Corinto. E neppure Barnaba. Nemmeno quand’eravamo agli inizi dei nostri viaggi e la giovane età ci permetteva di spostarci da un angolo all’altro del Mediterraneo, senza avvertire il dolore e la fatica.
Questa baia è diventata il mio piccolo segreto. Ho calpestato il suolo di quasi tutte le nazioni; i miei sandali conoscono la polvere di tutte le strade del mondo, e su quelle strade ho lasciato tutto; di ciò che possedevo non mi è rimasto più nulla. Allora custodisco con una gelosia morbosa questo segreto, che alla mia veneranda età ha tanto il sapore di un capriccio infantile.
Oramai, come il mercante che attraversato il deserto comincia a scorgere la sagoma di Gerusalemme in fondo all’orizzonte, io comincio ad intravedere il profilo della morte. Allora penso che sarebbe bello poter morire qui, lontano da tutti, dal mondo, dagli amici e dai nemici, senza che nessuno molesti gli ultimi istanti della mia esistenza, nel silenzio dolce e profumato di una sera di primavera.
Ma credo che non sarà così. Prima o poi i romani mi arresteranno di nuovo e questa volta, non c’è dubbio, sarà l’ultima. Non posso più sperare negli amici laggiù. Sarebbe impossibile che riescano ancora una volta ad evitarmi la condanna. Ma soprattutto non ho più la forza, e forse nemmeno la voglia, di continuare a lottare. Sono vecchio e stanco, e abbastanza saggio per capire che il momento di lasciare la vita è molto più vicino di quanto gli altri possano pensare. L’unica incognita è come si risolverà la questione.
Probabilmente sarà la mano decisa del boia a sbrigare la faccenda. Oppure la spettacolarità della lapidazione. Oppure sarò messo in croce, come Lui. Ne ho parlato con Pietro di questa eventualità, l’ultima volta che ci siamo visti, dopo la riconciliazione di Antiochia. Lui ne è certo, è convinto di finire su una croce.
Tuttavia credo che l’unica certezza è che né io, né lui finiremo in pasto alle bestie dentro l’anfiteatro Flavio. I romani sono persone di buon gusto, non si perdono a vedere due vecchi come noi finire uccisi in pochi istanti, senza avere nemmeno il tempo di scommettere una manciata di denari sulla durata della nostra agonia. Non è una grande consolazione, quindi la prendo come un umano sollievo.
Magari la morte mi coglierà di sorpresa nelle carceri, spento dagli stenti e dalla malattia. Ancora prima di subire il processo, per il quale, comunque, nutro ormai una repulsione simile a quella che si prova per gli insetti noiosi. Il dovermi nuovamente difendere mi provoca il medesimo fastidio di una zanzara notturna. Mi molesta anche soltanto il pensiero di doverlo fare. Di come andrà a finire, francamente non m’importa poi molto.
Non ho certo avuto una vita monotona e tranquilla. L’ho quasi tutta trascorsa a fuggire la morte. Dapprima, nel pieno dell’esuberanza della gioventù, la sfidavo per incoscienza o per noia. Poi, quando ho compreso la missione che mi sono trovato per le mani, la sfuggivo per evitare che mi impedisse di portarla a termine.
Ho sempre corso rischi, spesso spinto più da dall’impeto che dalla ragione, cercando di guardare la morte in faccia per riuscire a scansarla. Adesso che l’inevitabile si avvicina, non ho voglia di pensare a come incontrarla, ma mi è rimasto il piccolo capriccio di sperare di morire qui, per non pensare agli amici che piangono, forse anche per non soffrire troppo. Ma si tratta solo di un capriccio, non ci perdo il sonno.
Questa baia. L’unico posto al mondo che ho conosciuto senza che fossi stato io a decidere di andarci, quello che più mi riconcilia con me stesso. Potrebbe sembrare strano, e forse lo è anche. Comunque sia, è diventato l’asilo del mio corpo e della mia anima, ormai fiacchi e provati da una vita sempre al limite.
Questa baia. Magari un giorno sarà ricordata come il luogo dove ho fatto naufragio. Magari qualcuno la chiamerà la baia di Paolo, quello di Tarso.
Per adesso rimane la mia intima confidente, lo specchio delle mie confessioni, il luogo dove mi sono trovato faccia a faccia con me stesso, con le mie virtù, con i miei difetti.
L’incoscienza, per esempio. Me la sono portata con me lungo tutto il percorso accidentato della vita. L’ho addosso come un neo, come un tumore congenito, come un membro inseparabile del mio corpo. Ma più ci penso, più mi viene difficile definire se sia un’imperfezione o una virtù.
L’incoscienza della gioventù, dettata dall’impeto e dall’esuberanza, mi ha portato ad affrontare pericoli che potevano sembrare insormontabili. Quella senile, generata dalla demenza e dalla stanchezza, mi ha portato a non fuggire davanti a nulla, nemmeno ai dubbi più intimi durante le notti insonni.
Ero certamente incosciente quando perseguitavo i cristiani di Gerusalemme. Ero incosciente quando scommettevo denari sull’agonia di Stefano, mentre guardavo divertito che lo lapidavano, appena fuori dalla città. E credevo fosse lui l’incosciente a lasciarsi prendere a sassate con quella dignità, così convinto che Dio fosse lì con lui.
Fui altrettanto incosciente in tribunale a Corinto. Me la sarei potuta cavare anche solo facendo ricorso ad un po’ di diplomazia, lo sapevo, invece decisi di lasciarmi portare davanti al giudice. Per potermi togliere dai pasticci, fui costretto ad adottare un difesa al limite della decenza. Fu una difesa fin troppo azzardata, che non solo ebbe la virtù di scagionarmi dalle infamie che mi erano addebitate, ma procurò a Sostene, il mio accusatore, un linciaggio che lo costrinse a lunghe settimane di degenza nel letto del suo medico persiano.
E l’incoscienza mi procurò anche il guaio di Listra. Avevo predicato a lungo in quella città tumultuosa. Avrei potuto prendermi una pausa in qualche altro luogo. Invece volli continuare, con più veemenza, nonostante avessi saputo di un gruppo di facinorosi che volevano tendermi un agguato. Mi sentivo forte e invincibile, sicuro di poter domare il mondo intero e tutto quello che ci accadeva sopra. Mi lapidarono dietro un muro e scampai soltanto perché fui abile a farmi credere morto.
Ma anche la paura mi ha sempre camminato a fianco. Non mi ha mai lasciato un solo momento nella mia vita. In ogni città in cui sono stato ho avuto paura, ogni piccola o grande azione che ho compiuto è stata in qualche modo alimentata dalla paura. La paura mi ha sempre fatto comprendere di essere vivo, la paura mi ha sempre sbattuto oltre i pericoli.
Ritengo che la paura sia una delle virtù più fertili che l’uomo abbia avuto in dote da Dio, a patto che costui sia abbastanza coraggioso per poterla addomesticare. Compatisco coloro che affermano di non avere paura di niente e di nessuno. Da far mio, in tutti questi anni su e giù per il mondo, ne ho masticata tanta. Per combatterla ho compiuto azioni estreme, che anch’io stesso fatico a credere, affinché queste stesse potessero esorcizzarla. In qualche modo la paura è stata l’energia che ha dato movimento alle mie membra.
Ho avuto paura quel pomeriggio afoso, mentre mi dirigevo verso Damasco, agitato come una belva, per scovare i cristiani nascosti in quella città. Il cielo era limpido, faceva caldo sulla strada polverosa. Non c’era nessuno. Il mio cavallo correva deciso, bello come il vento. Ero giovane e sicuro di me.
Quella luce incredibilmente bianca, improvvisa, accecante, mi fece cadere a terra. Rimbalzai tre volte nella polvere. Il cavallo era scappato e i miei occhi, accecati, vedevano solo una palla nera, dai contorni bianchi, come quando si guarda a lungo il sole. Così rimasero per tre giorni. E la Sua voce mi parlava, quand’ero in ginocchio per terra, sbalordito dallo spavento e dal dolore agli occhi.
Ma la paura mi diede la forza di rispondere alla voce serena che mi chiedeva conto del mio accanimento contro i Suoi seguaci. Non potevo vedere nulla, soltanto i bordi del Suo profilo, che non avevo mai conosciuto. Mi voltavo agitato di qua e di là, a seconda di dove mi pareva arrivassero quelle parole decise, agitando a due mani la spada.
Sventolavo nel vuoto la lama, alla cieca, cercando di scacciare da me quello che speravo fosse solo un incubo. Tre giorni dopo fu Anania a curarmi dalla cecità e ad assicurami che non si era trattato di un incubo, bensì di una benedizione. Tremavo per la paura e per combatterla lo sfidai con una scommessa. Gli avrei portato un numero di seguaci dieci volte quello dei cristiani che avevo arrestato, frustato, schernito e mandato a morte. E ora che siamo prossimi alla fine, questi sono almeno cento, mille volte tanti.
Anche a Efeso ho avuto paura. Bella Efeso. Se al mondo esiste una città che può competere con Roma per l’affluenza di genti delle razze e delle culture più distanti, questa è Efeso. Se al mondo esiste una città aperta, moderna, maestosa e bella quanto Roma, senza dubbio è proprio Efeso.
Ho parlato in mezzo a quella gente abituata ad incontrare le idee di tutto il mondo e ad ascoltare. Ho predicato nelle piazze rumorose, sulle strade dove si facevano affari e su quelle dove si comprava l’amore dalle prostitute, alle terme, nel teatro, uno dei più belli del mondo, e sulle rive tranquille del Caistro. Molta gente mi ha ascoltato e creduto, così tanta che ho scatenato la sommossa degli orefici. A loro dire avevo causato il crollo delle vendite dei preziosi simulacri della dea Artemide. E della cosa ancora me ne vanto.
Me ne dovetti andare di nascosto, con i favori di una notte di tempesta, come il più
detestabile dei criminali, fino a che si fossero calmate le acque. Ebbi paura.
Ebbi paura anche quando decisi di ritornarci, da incosciente, e per sconfiggere la paura ci rimasi tre anni.
Ho trascorso tutta la vita ostaggio dell’incoscienza e braccato dalla paura, ed ora sono qui, seduto sulla sabbia umida, ad ascoltare il mare. I colori decisi di quest’angolo di Mediterraneo, i suoi odori delicati, i suoi brusii appena percettibili non hanno pari.
Ora sono qui, a dispetto dell’incoscienza e della paura, perfettamente cosciente che la morte mi è prossima e per niente intimorito da essa. Ma sarebbe bello che adesso Lui tornasse a saldare il debito della scommessa. Magari senza quel colpo di teatro, come sulla via per Damasco, non ce ne sarebbe più bisogno.
Magari qui, adesso, su questa spiaggia.