Con questo racconto è risultato 3° classificato nella XVII Edizione del Premio Letterario Internazionale Il Club dei Poeti 2013 – Sezione narrativa
Questa la motivazione della Giuria: «Un viaggio ad occhi aperti su una vecchia auto Dyane, imprevedibile “macchina del tempo” capace di condurre in fantastiche avventure, fino a vedere due fanciulli, vissuti nel secolo precedente, seduti su un’altura e impegnati in un innocente bacio: e, poi, il viaggio nel futuro, che permette di rivedere gli stessi fanciulli, ormai anziani, eppur sempre innamorati. Racconto struggente ed emozionante che accompagna fino alla constatazione finale: “il grande amore dura per sempre”». Massimo Barile
Non più fanciulli
Quel pomeriggio lo avevo dedicato a soddisfare uno dei miei tanti capricci: avevo in mente di trasformare in un video-racconto le memorie di quando, da bambino, trascorrevo al podere di campagna dei miei nonni le giornate libere dalla scuola. Per fare questo dovevo trovare le foto adatte alla mia storia rovistando in quel cassetto che non aprivo da anni. Sfogliando i vecchi album di famiglia alla ricerca di testimonianze della mia infanzia, la curiosità si era accentrata sulle foto più vecchie, scattate ancora prima che nascesse mia madre. Vedere le foto ingiallite dove i bisnonni posavano sulla soglia di casa con curiosi vestiti dell’epoca e altre dove venivano ripresi dall’obiettivo al lavoro nei campi, aveva stuzzicato la mia immaginazione, tanto da portarmi a rispolverare quella vecchia “Macchina del Tempo”, che spesso guidava i miei sogni ad occhi aperti. Era dall’ultima fantastica avventura nel medioevo che non avevo più viaggiato con la mente su quell’arnese.
E anche stavolta desideravo che lei, la donna dei miei sogni, condividesse assieme a me questo nuovo sogno: una finestra sul passato dalla quale potevamo affacciarci per curiosare; un’opportunità di fare nostre le emozioni che appartengono ad altre storie di vita.
La partenza fu come sempre difficile: la Dyane 6 modificata faticò ad andare in moto, ma dopo il terzo tentativo il motore di quel vecchio macinino si avviò col suo rumore assordante, pronto a dirigersi verso una nuova meta.
Lei era salita a bordo senza fare troppe domande, mi chiese solo: «Staremo via molto?». Io le risposi: «Solo il tempo di curiosare un pochino nella vita dei nostri avi; tranquilla, stavolta il viaggio sarà breve e arriveremo presto a destinazione».
Poi, ad occhi chiusi, ci tenemmo per mano finché la macchina prese il volo. Ormai eravamo abituati a quel tipo di esperienza e il fatto di perdere completamente l’orientamento non ci preoccupava più.
Al nostro risveglio fummo abbagliati da un fortissimo raggio di sole, tanto accecante da ritardare la nostra ripresa di conoscenza dopo quel senso di ipnosi. Quasi subito realizzammo di trovarci in campagna, favoriti per questo da un gradevole odore di fieno, misto a un deciso olezzo di letame che la leggera brezza estiva faceva giungere alle nostre narici.
Adesso potevamo guardarci attorno: quello che vedevamo era un bambino e una bambina che giocavano assieme sulla vetta di un cocuzzolo di roccia, seduti a terra, a comporre disegni con piccoli frammenti di pietra. Erano due fanciulli di un secolo fa, e potevamo essere anche noi quei due ragazzini. Due contadinelli che al richiamo delle loro mamme smettevano di giocare correndo verso il bosco; ormai era l’ora di cena. E giù di corsa, scansando gli alberi e i rovi, dal sentiero scendevano a casa. Una costruzione rurale ricca di storia, tanto grande da ospitare due intere famiglie di contadini neanche parenti tra loro. Due famiglie che non erano certo ricche ma nemmeno così povere da patire la fame; ogni mattina le donne facevano il pane nel forno, i nonni curavano l’orto facendo a gara a chi coltivava i pomodori più belli e la domenica mangiavano tutti assieme nell’aia. Uno dei nonni aveva un cavallo con il calesse, che per quei tempi era un gran lusso, e lui si stimava molto quando ogni sabato scendeva giù in paese per il mercato. Al podere c’erano galline, faraone e un gallo per ogni pollaio. All’alba i due bambini si svegliavano con un gran baccano e da quel momento iniziava per loro una nuova giornata; dovevano andare nei campi coi papà per rastrellare il fieno, mungere le vacche e accompagnarle al pascolo, ma poi, quando stavano per nascere i vitellini, rimanevano alzati per tutta la notte a vegliare ed era uno spettacolo impagabile. Nel periodo di vendemmia sembrava sempre festa e alla fine i ragazzini si divertivano a pigiare l’uva dentro ai tini. Poi veniva l’autunno e iniziava la scuola. Erano parecchi i chilometri da percorrere a piedi per raggiungere il paese; d’inverno, quando cadeva tanta neve, le mamme fasciavano le scarpe dei figlioli con gli stracci perché non scivolassero. Nel periodo di Natale si disfaceva il maiale e anche quella era un’occasione di festa per tutti.
Ma poi, quei due fanciulli, nei rari momenti di libertà sgattaiolavano via di nascosto per salire al “Grande Sasso” attraverso il bosco; lassù avevano trovato il loro nascondiglio segreto, dove nessuno li avrebbe cercati. Restare su quella roccia a strapiombo era abbastanza pericoloso e questo li affascinava tantissimo; oltre a uno stupendo panorama, da lì riuscivano anche a vedere la loro casa e potevamo sentire le mamme quando li chiamavano per cena. Ci andavano spesso in quel posto, in tutte le stagioni, ma proprio oggi, catturati dalla lente d’ingrandimento della fantastica “Macchina del Tempo”, su quella roccia si erano scambiati un innocente bacio sulle guance. Per loro era solo un gesto affettuoso, un semplice segno di amicizia tra due compagni di gioco.
Ecco, il nostro viaggio nel passato per quel giorno finiva così. Con il ricordo di due fanciulli seduti su un’altura che si scambiano un bacio.
E noi due che ancora una volta ci risvegliamo intontiti, ritrovandoci mano nella mano all’interno di una vecchia auto appena atterrata da un immaginario volo nel nulla. Un viaggio corto ma allo stesso tempo lungo di emozioni, ricco di ricordi tramandati e desideri non goduti.
Adesso, mi piaceva di credere che i bambini di quel sogno fossimo proprio noi due.
Ormai era passato un mese da quell’ultima avventura e non riuscivo a pensare ad altro che ai due fanciulli del sogno che si baciavano sul sasso. Sentivo il bisogno di mettere in moto la mia immaginazione utilizzando ancora quell’auto, ma questa volta la provocazione era arrivata dalla mia compagna di viaggio. Era lei ad avermi messo in testa l’idea di far funzionare la “Macchina del Tempo” all’incontrario: non più esplorando il passato ma cercando di visitare il futuro.
Non l’avevamo mai fatta un’esperienza così, e non sapevamo nemmeno se fosse realizzabile, ma lei disse di aver parlato con il nostro amico Albert, inventore della macchina, che, pur sconsigliando la scelta di viaggiare nel futuro, aveva dato indicazioni tecniche sul da farsi; bastava soltanto, a suo dire, programmare una data futura precisa, digitandola poi sul display del computer di bordo che lui stesso aveva collegato al motore e ai comandi della Dyane 6.
Lei mi convinse e ci trovammo al solito posto per il giorno seguente. Avevamo scelto come data futura il 27 settembre 2040 e dopo la partenza, come sempre molto rumorosa, entrammo nel vorticoso oblio dovuto al trasferimento temporale, ritrovandoci poi al risveglio in aperta campagna. Tutt’attorno le cicale e i grilli intonavano la loro litania monotona e da lontano giungevano i rumori del traffico. Quel posto ci ricordava qualcosa; allora uscimmo subito dall’auto e, più avanti, riconoscemmo il sentiero che dal bosco porta al grande sasso. Prendendola per mano, le dissi: «Dai, è quasi ora di cena e non c’è nessuno in giro, saliamo a baciarci su quel sasso, come abbiamo visto fare a quei due contadinelli».
Eravamo quasi arrivati, quando il vento ci portò l’eco di alcune voci, dapprima indistinte poi sempre più nitide, come se lassù ci fosse già qualcuno. Deviando dal sentiero avevamo raggiunto la base del sasso e ci eravamo nascosti in un anfratto naturale dal quale potevamo curiosare meglio. Le persone che parlavano erano sedute proprio sulla cima di quel cocuzzolo di roccia, dove saremmo voluti salire noi. Erano un uomo e una donna e anche se non potevamo vederli, si comprendeva bene la loro conversazione:«Hai visto che ce l’abbiamo fatta?» diceva lui. «Sì, avevi proprio ragione, anche se è stato faticoso merita davvero, da quassù è tutto un altro mondo. Sembra che il tempo non sia mai trascorso e io mi sento davvero bene. Posso anche dimenticarmi l’ospedale e il brutto momento che ho passato, ormai la gamba è guarita perfettamente e posso tornare a fare tutto come prima», rispondeva lei con un po’ di affanno nella voce. «Sì, tutto, tranne che uscire all’alba per spalare la neve in cortile e cadere sul ghiaccio! Dovresti ricordarti che non sei più giovincella!», le disse lui rimproverandola. «Parli tu, che ormai hai ottant’anni suonati e oggi mi hai portato quassù in cima, come fossimo due ragazzini!» ribadì la donna. «Dai, l’importante è sentirsi giovani dentro, vieni qua amore mio e fatti baciare!» glissò elegantemente lui.
Poi le voci si interruppero. Sentivamo solo il fruscio del vento tra le foglie degli alberi, mentre la luce continuava a calare nell’ombra della sera. L’uomo e la donna non parlavano più, si stavano baciando; ma ormai era tutto chiaro: quegli innamorati eravamo noi due, da vecchi.
Sfruttando l’ultima luce rimasta ritornammo in silenzio alla macchina; un altro ancora dei nostri fantastici viaggi era terminato. E forse questa volta aveva avuto ragione l’amico Albert: programmare la macchina nel futuro per quella data così lontana era stato molto rischioso.
Fortunatamente, invece, quel sogno ad occhi aperti era stato solo una conferma; la dimostrazione che un grande amore può durare per sempre, anche quando non si è più fanciulli.
Stefano Pozzi