Una luce dal cielo

di

Stefano Tonelli


Stefano Tonelli - Una luce dal cielo
Collana "Le Schegge d'Oro" - I libri dei Premi - Poesia
14x20,5 - pp. 112 - Euro 10,20
ISBN 978-88-6587-4752

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In copertina: fotografia dell’Autore


Pubblicazione realizzata con il contributo de Il Club degli autori per il conseguimento dei seguenti riconoscimenti:
3° class. nel concorso letterario “F. Erbognone – O. Nipoti” 2008
3° class. nel concorso letterario “Città di Melegnano” 2009
2° class. nel concorso letterario “Il Club dei poeti” 2011


NEL SEGNO DEL TEMPO

Prefazione di Benedetto Di Pietro

La raccolta Una luce dal cielo del poeta Stefano Tonelli è divisa, in buona sostanza, in tre momenti principali ognuno dei quali è posto sotto il segno di una deità della mitologia classica: Venere, Crono e Giove.
Venere, nel suo parallelismo con l’Afrodite greca, qui è presa a simbolo dell’amore e della bellezza ideale. L’amore, se è vero, è incommensurabile e diventa perfino paura d’amare, paura di perderlo, perché l’amore è un sentimento totalizzante che non lascia spazio alla mediocrità. Nelle liriche Quattro Inni ad Afrodite il poeta sostiene che l’uomo è un essere spirituale rinchiuso dentro un corpo materiale e subisce gli attacchi continui di Afrodite. È il senso stesso della vita: siamo destinati “all’eternità di Dio in cielo”, e quindi dovremmo essere al di sopra delle cose terrene, ma nello stesso tempo siamo vittime degli attacchi di Eros che ci fa perdere il contatto con la spiritualità. Se non esistesse l’amore, la vita non avrebbe senso perché per Tonelli «Non c’è passato né futuro / per chi non ama e per chi non conosce, / e non c’è neppure presente» (Non c’è tempo), lo stesso concetto lo afferma in “Sitio” «Il corpo ha fame di cibo, / la mente di sapienza / l’anima d’amore»; alla sovrapposizione delle due affermazioni, resterebbe escluso il corpo che si nutre di materia e sarebbe relegato alla vita vegetativa, perché privo della parte affettiva e contemplativa, così l’uomo diverrebbe solo un essere destinato alla vita bruta, come un animale qualsiasi.
Crono, il Tempo che gli antichi hanno voluto figlio di Urano (cielo) e di Gaia (terra), è un elemento di congiungimento tra le cose spirituali e quelle materiali. È proprio il tempo che governa gli interessi dell’uomo e fa sì che con la maturità si spostino dalle cose di questo mondo verso quelle dello spirito. Questo avviene sempre e in genere a dettare la svolta è l’età anagraficamente matura che porta con sé tale comportamento. Difficilmente un giovane è portato ad interessarsi delle cose dello spirito, a meno che non si dedichi a studi specifici. Difficile sì, ma non impossibile e succede quando gli interessi dell’intelletto si rivolgono con una pratica quotidiana alla filosofia e alla teologia. Il risultato è scontato, e non può essere diversamente a meno che non si deleghi qualche dogma a supporto: poche certezze e una lunga serie di domande senza risposte. Va anche detto che chi intraprende questo percorso, difficilmente si arrenderà lasciando cadere i suoi interrogativi. Anzi mano a mano che si convincerà di avere trovato il bandolo della matassa, intensificherà le sue speculazioni verso la ricerca. Questo continuo inoltrarsi diventerà sempre più insicuro e paradossalmente il percorso sarà rivolto indietro, riscoprendo il pensiero dei filosofi greci e oltre, verso gli approdi delle filosofie orientali.
Ma tutto ciò, nel pensiero filosofico che Tonelli mette nelle sue poesie, può essere considerato solo una speculazione intellettuale? Oppure la sua poesia diventa veicolo di messaggi con i quali il poeta intende sollecitare il lettore a considerare i suoi versi un codice per l’apertura di uno scrigno entro il quale ha riposto le sue poche certezze? Sicuramente la poesia di Tonelli ci dice molte cose che vanno dal livello personale a quello universale e diventano capisaldi di idee che possono essere accettate senza remore perché applicabili all’esistenza di ognuno. Così la sua poesia diventa espressione di categorie universali. Il discorso si avvale dello scorrere dei mesi dell’anno e del comportamento della natura. Ma non mancano i riferimenti al comportamento dell’uomo e ai danni ad esso imputabili. A chiudere questa sezione è la lirica “Alfa e Omega”, il cui titolo è un simbolo cristologico che racchiude in sé l’inizio e la fine di tutte le cose e che Tonelli usa con significato ciclico del fluire del tempo.
Nella terzo momento della raccolta il poeta presenta una visione paritetica di Dio-creatore e Uomo-creatore, in comunanza di creatività poetica. Il monologo procede, in una visione di panteismo naturalistico, con una serie di accuse verso Dio, quale distratto perenne che si disinteressa dei mali del mondo, e verso l’uomo ugualmente distratto perché non discerne la presenza dell’eterno che è in sé e che si trova proprio in ciò che egli non sa discernere: i sogni, le speranze, l’amore, i suoni e la luce che egli non vede, ma sente e nota essere veri.
Per Tonelli, Dio è fuori dal tempo e dalla storia, è il Dio immutabile ed eterno di Parmenide. Ma lo troviamo anche nel panta rei di Eraclito, nel divenire. Due visioni contrapposte dunque e non può essere diversamente perché la poesia di Tonelli, oltre ad avere funzione liberatoria nel senso freudiano, ha anche uno scopo dialettico e vuole portare il lettore in un campo, forse elitario, in cui cercare significanti fuori dai normali significati e ritmi del linguaggio poetico, che pure è indiscutibilmente alto. E l’uomo? L’uomo in qualche maniera è la vittima perché si perde nella ricerca e colui che ha il privilegio di credere e vedere la luce che emana da Dio, non fa proseliti perché non sarà creduto e sarà ritenuto un folle. Ci troviamo di fronte al vecchio adagio popolare “chi pensa all’eternità, o impazzisce o santo si fa”.
A dimostrazione dell’imperturbabilità di Dio, il poeta porta esempi concreti di fatti dolorosi successi in tempi a noi vicini, ma anche di comportamenti deviati di coloro che amministrano la cosa pubblica, e che ci obbligano a rifugiarci nel mondo della fantasia. Per Tonelli, unica posizione possibile per sopravvivere è quella dell’estraniamento: ha visto ma non ha sentito nulla; non sa se si nasconde in lui qualche sentimento di compassione e spera di non saperlo mai. In questa condizione l’uomo è impotente e subisce gli eventi delittuosi dei quali Dio è a conoscenza; ma il credente sa che non deve porsi questa domanda e che la speculazione filosofica sull’argomento offre la scappatoia elaborata da Sant’Agostino per cui l’uomo agisce in maniera autonoma perché dotato di libero arbitrio.
Il poeta esterna il suo percorso di fronte al dolore del mondo per il quale si doleva da bambino e parla con Dio chiedendogli «non dirmi soltanto / che tutto è bene perché è così / che il dolore è il miglior carburante», permettimi piuttosto di trovare «qualche allusione terrestre / di Buono di Bello e di Giusto» (Dolore) che si trova nella mia anima. Ma c’è anche l’illusione di un bilancio della vita vissuta: da giovane non avrebbe mai pensato di dovere scrutare nelle vite degli altri e trarne qualche spunto da mettere a confronto con le scelte effettuate in «dimensioni parallele (…) Non avrei mai immaginato / che la mia scelta finale / sarebbe stata un vicolo cieco,…» (Sogni di giovinezza).
Lo scarto generazionale dei tormenti dell’adolescente porta ad interessi diversi e alla conseguente rimozione, perché da adulto il poeta ha raggiunto una certa quiete e si preoccupa solo dei suoi “inchiostrati pensieri”. Il voler interpretare tutto con la ragione diventa un tormento, diventa la pena di Sisifo, e ogni volta che sembra avere raggiunto la conclusione, precipita al punto di partenza. Il dubbio s’affaccia: vivere è un dovere, ma non si sa se sia meglio credere in Dio o non credere; «L’essere è e non può che essere…» questo assioma parmenideo è un tormento esistenziale che porta l’uomo a vivere sempre nel dubbio «ogni volta risveglio per la stessa salita» (Il dovere di vivere).
L’atteggiamento di Tonelli nei confronti del mondo è di l’illusione che passa da individuale ad universale. Il mondo poetico del bambino viene tradito dalla realtà «L’inizio di una lunga / estate che prometteva / giochi di mare e di vita. (…) Scoprii che i fiori non promettono / e che le promesse non mantengono, / e che le attese deludono (… ) Avere saputo prima che le ghirlande di fiori / sarebbero diventate catene di piombo (…) Ma com’era bello quando / glicini e gelsomini carezzavano / i miei sogni di bambino» (Maggio – I fiori). Ma nonostante tutto vale la pena soffrire piuttosto che avere l’impenetrabile e imperturbabile volto di una sfinge «che si stupisce / quanto passa veloce il tempo» (A & W).

Il poeta si pone domande e fa porre domande al lettore. Sono poesie che marcano il territorio con una serie di domande, quasi ad avvisare il lettore affinché si predisponga ad accettare il dialogo, filosofico, teologico, comunque esistenziale. Senza il possesso di tali codici la poesia di Tonelli potrebbe essere intesa solo parzialmente, limitandosi solo all’aspetto formale, che è ineccepibile nella sua struttura, ma si perderebbe la parte sostanziale che è quella di scrutare l’universo e che, parafrasando Antoine de Saint-Exupery, non è mai più lo stesso ogni volta che una pecora mangia un fiore.
Di fronte alla tempesta di domande e risposte impossibili, il poeta si eleva sopra ogni cosa e si trova di fronte al Creatore che certamente non può essere identificato col male e col dolore del mondo. Lo fa nella lirica “Musica e poesia” e lo invoca affinché lo faccia palpitare ancora per il pessimismo di Leopardi, per le note sublimi di Mozart, per l’eroismo dei versi di Omero, per l’emozione della musica di Bellini. Il cuore del poeta vibra di riflesso, per la bellezza dell’arte in un mondo di sasso, in cui l’apatia regna sovrana.
Il poeta conclude con la bella lirica in cui Dio scrive un libro, per glorificare la sua esistenza, con la storia delle nostre vite. Noi siamo le parole, la terra è la penna e l’universo il quaderno. Anche il poeta scrive il libro della sua vita: la penna è il dolore, il foglio è la sua anima e le parole sono lacrime e pensieri, «Lo scrivo perché / penso che incidere / sull’anima le lacrime e i pensieri / faccia meno male che morire / giorno per giorno» (Il libro di Dio). Questo libro il poeta lo scrive perché non accetta di finire nel libro che Dio al quale l’uomo non ha accesso, ma vuole esser lui a scriverlo per non essere omologato. In buona sostanza, è questa la ragione stessa della Poesia e dell’Arte: il poeta fissa le proprie pene sulla carta in funzione liberatoria, ma anche per lasciare un segno del suo passaggio sulla terra.
Non sfuggirà al lettore che, al di là di tutto il turbinio di richiami filosofici e teologici, emerge a caratteri cubitali la parola “amore”. È la stessa con la quale Tonelli inizia questa raccolta e che la pervade con moto circolare fino alla fine. Ed è la stessa usata dal sommo Poeta nell’ultimo verso della Divina Commedia: «L’amor che move il sole e l’altre stelle» (Dante, Paradiso XXXIII), l’essenza stessa di Dio.
A conclusione di questi ridotti pensieri, mi piace riprendere alcuni versi della lirica “Dopamina” «laddove la vita si scolora e si sveste / dall’inquieto magma che sostanzia / e turba il pensiero minerale e umano, / per tornare alla stessa sostanza del Padre / negli interspazi di un mistero carnoso, ma strano»; sono versi che voglio associare a quanto scritto da uno dei massimi scrittori della nostra epoca: «L’uomo è un mistero. Un mistero che bisogna risolvere, e se trascorrerai tutta la vita cercando di risolverlo, non dire che hai perso tempo; io studio questo mistero perché voglio essere un uomo» (F. Dostoevskij, Lettere sulla creatività).


Un’anima fra negazione,
ricerca e speranza d’amore
di Manuela Pompas

Da giovane, immemore di olocausti passati, gridavo contro il Dio sconosciuto che permette il dolore, la disperazione, il degrado, la sopraffazione, la miseria dell’anima. Oggi preferisco credere che il dolore, di qualunque tipo, sia uno strumento funzionale ad un progetto evolutivo: chi soffre, quando trova il coraggio per combattere, cerca soluzioni per la salute, sul piano personale e qualche volta medico e scientifico, alla ricerca profonda di Sé e di un significato esistenziale. Questa ricerca diventa un cammino, un processo di trasformazione, che permette di uscire dalla sofferenza, che lascia il posto a conoscenza, maturità e anche gioia.
Invece questo cammino per Stefano Tonelli ha portato sì trasformazione e maturità, ma sempre in una sorda disperazione, che si avverte in tutte le sue poesie, un dolore senza attese, anche se a volte frammisto alla dolcezza di illusioni e sogni, che nutre per poi vederli infranti; un dolore a volte gridato, a volte nascosto, accompagnato da una ribellione amara, quella di chi si è arreso definitivamente alla solitudine, preferita ad un’umanità vuota, aliena, che parla altri linguaggi e non fa niente per capire, escludendolo. Ma forse si tratta di un’autoesclusione, per proteggersi da delusioni che non sopporterebbe (“me ne sto sequestrato ed escluso/dalla vita che vedo passare vana / mentre mi canta dentro amore”). Un atteggiamento di rinuncia e di angoscia che nasce anche, come suggerisce lui stesso, in un tempo lontano quando, aggrappato alle sbarre dell’asilo, “aspettava solo quando tornano le mamme”, tuffata l’anima nel vortice di una dolorosa sindrome abbandonica.
Il primo gruppo di poesie sono dedicate “alla ricerca dell’amore”. Ecco che si cantano gli amori segreti, le passioni, i sensi, le febbri che nascono dalle aspirazioni della carne e dell’anima, per poi ripiombare nel pessimismo alimentato dall’Amore negato, ma anche temuto e per questo tenuto lontano (“ho il terrore nel cuore e la paura d’amare”), che getta l’anima negli abissi che tagliano il fiato e la luce.
Questo è l’autoritratto con cui si dipinge il nostro artista, sempre lacerato da forze contrarie, il bene e il male, il corpo e lo spirito, come uomo di altri secoli, “volto (parafrasando un suo verso) all’eternità di Dio in cielo e schiavo dei languori amorosi in terra allo stesso tempo”. E se le immagini, gli aggettivi, le raffigurazioni, le metafore che egli crea ci fanno sognare la dolcezza, il languore, la bellezza, la passione, poi brutalmente si viene poi risvegliati a una realtà amara, crudele, senza scampo, in cui “il cuore pesa come un sasso”. Un cuore che lui sente chiuso, cui nega persino di sentire e, a maggior ragione, di amare (e di essere amato).
Il doppio intermezzo “temporale” interviene fra le due grandi sezioni di poesie della raccolta: “il tempo calante” cui fa specchio un analogo “tempo crescente”, nel ciclico discendere nella valle dell’oscurità autunnale e nelle tenebre invernali, per ascendere poi alle fragranze di un anno che si apre. Questa sezione di poesie “circolari” descrivono i toni, gli umori, di una città autunnale e poi invernale, dove il paesaggio grigio, quasi senza luce, (“nubi di piombo, pioggia di ghiaccio”) riflettono le tenebre profonde di chi soffre la vita, anche nell’allungarsi delle ore di luce nella stagione primaverile ed estiva. Poesie non prive di immagini felici, centrate, a volte quasi musicali, o dipinte sulla tela della pagina, quasi fotografiche, che poi s’infrangono nel vuoto dell’anima. Confortata però da un unico vero amico, il suo cane, e dal piacere e dalla necessità della scrittura (“senza la poesia quanto sarebbe spenta e vuota, triste e inutile la vita mia”), e anche – finalmente verrebbe da dire – da quello stesso io con cui ha imparato a convivere.
Infine ecco altre pagine dedicate a Dio, l’“Origine e il Fine di Tutto”, scritte da un uomo che crede, che sa, che ha una visione ultraterrena, spirituale, ma che non sa trovare, o meglio, vivere la speranza. Non vuole essere consolato, vuole la soluzione che non c’è. “Non dirmi soltanto/che tutto è bene perché è così, / che il dolore è il miglior carburante / per i poveri testardi che vivono/un sonno più duro della morte, / e che comunque siamo / nel migliori dei mondi possibili”, protesta, ancora lucido, sconsolato e sottilmente ironico. “Non avrei mai immaginato / che la mia scelta finale / sarebbe stata un vicolo cieco, / una buia sala di cinema / per anime sole”.
Ho scritto in altre prefazioni che nei suoi versi riecheggiano le voci dei grandi classici antichi e moderni, tra cui Pascoli, Carducci e ovviamente Leopardi, quest’ultimo oggi più che mai. Eppure, nel pessimismo lucido e sconsolato di Stefano, che grida le sue ferite, le sue delusioni, il suo scoramento, io intravvedo un barlume di speranza, anche se lui non ne sente il conforto. Anche se il suo corpo e la sua anima gridano la disperazione, tra le righe dei suoi scritti si può leggere anche la supplica al destino di donargli ciò che non ha mai avuto qui sulla Terra, un amore realizzato e non solo ambìto, momenti di pace e, forse, qualcosa che si avvicina ad una vita normale, fino a qui negata, fatta di musica, di amicizie, di amori, di studi, di risposte esistenziali. Come se a livello inconscio fosse nascosta una certezza ancora sorda e cieca ma non per questo meno presente, che al di là delle passioni e delle frustrazioni della vita ci sia la salvezza di un disegno qui e ora imperscrutabile ma immanente nella vita quotidiana e nel progetto esistenziale di ognuno. Stefano potrebbe fare proprie le parole di Madre Teresa di Calcutta, rivelate nel libro di Renato Farina (Madre Teresa: La notte della Fede, edizioni Piemme 2009): “C’è tanta contraddizione nella mia anima: un profondo anelito a Dio e insieme il sentimento di essere respinta da Lui; è un sentimento così profondo da far male, una sofferenza continua. In questi momenti mi ritrovo arida, senza fede, senza amore, senza zelo… il cielo non significa niente per me, mi appare un luogo vuoto”. Anche qui un vero e proprio strazio dell’anima, cui la piccola “matita di Dio” (così si definiva lei) si era adattata, che aveva accettato e – colmo dei paradossi – aveva imparato ad amare “come una piccolissima parte dell’oscurità e della sofferenza in cui Gesù visse sulla terra”.

Insomma, una situazione apertamente e apparentemente (?) contraddittoria in cui si sente la speranza ma non il conforto, per un’anima che nega l’amore ma che nel contempo lo cerca, vi anela, vi spera, profondamente “assetata d’amore e d’assoluto”. Fede, Amore, Assoluto sono concetti che in un’ottica intensamente spirituale come quella di Stefano, coincidono laddove l’Uomo è destinato a concludere le sue ripetute esperienze terrene e a ricongiungersi a Dio, dissolte le scorie e i residui delle proprie angosce al calor bianco della Sua luce.


Manuela Pompas, giornalista e scrittrice, è stata per oltre trent’anni redattrice di Gioia, dove si è occupata prevalentemente di psicologia, parapsicologia e medicina olistica. Il suo fine, nello scrivere, è sempre stato quello di trovare le chiavi per conoscersi, scoprire il mondo interiore e trovare la via del benessere, per vivere meglio e connettersi con le dimensioni dello spirito. È autrice di numerosi libri di successo, come “Siamo tutti sensitivi”, “I poteri della mente”, “La terapia R”, “Medianità”, “L’aldilà esiste”, “Reincarnazione, una vita, un destino”. “Stress, malattia dell’anima” e di un CD, “Autoguarigione”. Di recente ha edito un magazine online, con l’intenzione di offrire uno strumento “per conoscersi e ritrovare la via del Sé”.


Una luce dal cielo


Alla ricerca dell’amore

Vedo la mia vita passare vana
mentre mi canta dentro amore.

Ma non vedo né famiglia né amici
e non andrò più avanti del facile
affetto di un cane per natura fedele,
forse perché ho il terrore nel cuore
nel corpo e nell’anima ferita e smarrita.

Con gioia mi dò agli abbracci d’amanti,
il desiderio dei sensi mi pulsa
nelle vene e si tuffa nell’anima,
le fiamme d’inferno mi lambiscono
e io mi godo l’estasi del paradiso,
ma dell’amore non ho che l’odore.

Un’incredula disperazione mi urla
dentro e io non so cosa fare:
non conoscere la pura gioia
del dare, del donarsi
con generosa insania
con giocondo ardore
con ebbra catarsi…

Mi hanno detto che la mia è vera
fame d’amore e hanno ragione,
ma io ho il terrore nel cuore
e la paura d’amare.

E me ne sto sequestrato ed escluso
dalla vita che vedo passare vana
mentre mi canta dentro amore.


Nube d’oro

Nube d’oro e di gelsomino
gemme verdi di scura bottiglia:
baciai i tuoi capelli e interrogai
i tuoi occhi che mi dissero dei tuoi passati
amori e del presente.

E capii che per il mio
non c’era spazio
né allora né poi.

Mi ritirai e m’eclissai
dolente e rassegnato e conscio
che vivere d’amore
è impresa per pochi temerari
o fortunati eletti.


Un bacio…

È la parola “amore”
scritta sulla pelle
e professata dalle labbra

lo schiocco di un’anima
fiorita sulla bocca che si sfarina
in coriandoli di sorrisi

una scaltra e gustosa astuzia
della natura per fermare un discorso
di parole diventate superflue

una torcia di sensuali
languori in segreto inizio
di malizie e sottintesi

la freccia di reciproci
sguardi immersi e persi
l’uno nell’altro

una frusta per capire
di non aver mai prima
veramente vissuto

un coltello che taglia
la sottile linea tesa
tra amicizia e amore

una saetta di passione
che ruba un lampo d’eternità
al tempo che fugge

un carnoso delirio
di un’estasi infinita
in un mondo di vani simulacri

il respiro di Dio che trapassa
su lingue di ghiaccio infuocato
da un’anima all’altra.


Eclissi d’amore

Quando tu sei con me
nulla m’importa
delle angosce infantili,
della mia giovinezza
mal vissuta, del mio
abbandònico complesso,
o della triste vita che faccio.

Quando mi perdo
nel tuo abbraccio
sei il mio intero universo
senza un prima e un poi,
e senza neppure un adesso.

Immerso nell’apnea dei tuoi
baci che avido contraccambio
non mi distrae più
il giogo dello spaziotempo,
e l’unico orologio sono
i nostri cuori che battono
all’unisono in un amplesso
di carni e di anime,
l’unica terra le nostre membra
che guizzano squarciando
i lacci dell’io e del tu.

E il mondo non è più lo stesso,
anzi, non è più.


In braccio a Eros

Ho sognato Eros
visitare il mio letto
e nella penombra
abbiamo danzato
un ballo segreto
al suono del flauto di Pan.

Mi stringeva al suo petto
sussurrando alla mia bocca
il suo alito pregno di vita e d’amore,
e io facevo della sua pelle
una seconda pelle
e finalmente incorporavo
la sua essenza.

Ma mi sono svegliato
in tempo prima di vederlo.
L’anima mi ha salvato:
lei sa bene che il dio ricusa
essere scrutato in volto.


Immunità negata

Ho visto Dio
dispensare dolore
a piene mani nella sua creazione.

Nel sasso e nelle rocce
sollecitate da intime oscure
viscerali forze della terra, ove dorme
sonni duri e freddi dal cuore sfregiato.

Negli alberi e nei fiori,
commessi all’arsura
di un sole senza nubi e senza pioggia,
o a tempeste rabbiose di vento,
su petali di sogni senza memoria.

Nel gatto e nel topo
nella zecca e nel cane,
appena desti e già sottomessi
alla legge del più forte,
alla catena alimentare
che divora il divorante
e succhia il sangue all’ospitante.

Nell’uomo,
con l’avvelenato dono della coscienza,
del libero arbitrio e dell’intelligenza,
minime schegge della illimitata
essenza divina impastate
nel fango del corpo.

In Dio stesso,
se è vero che tutto è in tutto,
e tout se tient in questa
immensa grammatica universale,
sistema coerente di funzioni
ove il primo motore immobile,
il Creatore parla per sé stesso e per noi
verbi di pura essenza e dolorosa esistenza.


Lo spaziotempo

Ciò che è in alto è anche in basso
ciò che è in piccolo è anche in grande
e nella goccia dell’istante abita
l’oceano dell’eternità.

Nulla è temporaneo – non come tutti
credono – e tutto è eterno, ove s’intona
un suono che sembra prosciugato
da apparenti buchi neri.

In realtà pulsa fuori dai secoli,
esorbitata dal tempo una melodia
che non si può misurare, come un litro
non può contenere un metro.

Stretto è il rigore dello spaziotempo
ma lo spiraglio si varca più spesso
che non pensiamo:
nei sogni,
nelle speranze, nell’amore,
in palpiti di suoni e luci divine
che non vediamo ma sentiamo
essere più vere del vero.


Da bambino

Da bambino mi dolevo
per l’albero abbattuto,
per i fiori languenti di sole
e marci di pioggia nei cimiteri,
per il frutto caduto e lasciato a terra
per il cane battuto, per la vecchia
che arranca sul colle, e per tutto il dolore
degli adulti, e per quello che inchiostra
di pece nera e appiccicosa
tutto ciò che sfiora.

Ma dopo essere stato anch’io
fiore frutto cane adulto e vecchio,
non c’è stato più spazio per altro dolore
che i miei inchiostrati e impeciati pensieri.


Al di là

Al di là del giorno e della notte
del bene e del male
della vita e della morte

ho affidato il mio cuore
e la mia mente

a una regione inaccessibile
alle speranze più umane
incredibile alle fantasie più remote
e impossibile ai sogni più osceni

laddove tace il bagliore
di gioie mediocri e il cemento
di tristi e stanchi pensieri

e l’esistenza non pesa
o perlomeno scolora alla coscienza
in incoscienza senza un ieri
un’ora un poi un forse,
un’ipotesi di sciagura
un vizio di forma e di sostanza.

Un limbo con alte mura ove
nulla trascorre sotto il maglio
di sorte alcuna, e saggiamente
non presenzia o s’infutura
con immutabile coerenza.


Un segno

Dammi un segno, mio Signore,
laddove l’animo esausto
si stinge dell’arcobaleno
delle molte vite sprecate

per eclissarsi in un’oscena
sopravvivenza che sa di morte
racchiusa in cemento armato.

Mio Signore, dammi un segno
che appaghi lo spirito che langue
della tua lacrima carnosa,
bramosa di luci serene e chiare

per chi appena desto ti anela
nell’errare di ritorte strade,
e come un bimbo in Te riposa
al termine delle giornate amare.


La visione dell’Essenza

Se potessimo appena intuire
l’intima essenza di questo mondo
per un attimo esorbitando dall’io,
vedremmo la luce anche laddove il buio
divora ogni colore, l’eternità
nel lampo dell’attimo e lo sfarfallio
di cellule e atomi in ciò che appare
all’occhio umano cieco e muto

terremmo in pugno
la materia e lo scorrere
dei secoli e lo spazio
dell’universo.

E negli interstizi
vedremmo Dio
esistere e bearsi
nella sua iridescenza,
della sua scienza coscienza
e conoscenza

e lui vedrebbe noi
ributtati subito dopo
nel fango del tempo
divorati dal buio della materia
e della nostra incoscienza.


Tre urli

Aspettare un bene o temere un male
che potrebbero mai rivelarsi
in una dubbia epifania
col destino che gioca
sopra una scacchiera
cieca o smemorata
all’alba di un muto sentiero:
se va bene, il passo è dolce utopia
se va male è nera follia.

§§§

Doversi dire che tutto va bene
o che comunque potrebbe andare
peggio, o che altri volgono al pessimo
stilla fiele sul cuore mai troppo muto
e sparge sale sulle ferite mai troppo infette
in un’arsura di abitudini testarde e ottuse,
che non riesce a ridurre il cuore alla sua natura:
un muscolo cavo che sospinge
il sangue al sale delle ferite.

§§§

Un urlo afono e sgomento
e lacrime asciutte
sfigurano un volto di pietra,
stele per un’esistenza troppo attesa
e troppo sospetta per essere vissuta,
mentre mani senza tempo
scrivono un epitaffio
con parole che rifiutano
di farsi umane.


L’incantesimo dell’Io

Se le porte della percezione fossero spalancate, ogni
cosa apparirebbe all’uomo come realmente è: infinita.
William Blake

Un orgasmo o uno starnuto
bastano a rompere la gabbia spazio
temporale e a forzare per un istante
le mura dell’Io che ostinato di annida
nelle radici dell’uomo

e dilatare quel grumo
di cellule egotiche
a misura dell’Universo.

Un lampo di espansione cosmica,
di celeste ebbrezza, in cui l’Io
balza nel solco di Dio

minimo assaggio terreno
prima dello squarcio finale,
dell’abbandono totale

quando il tuo e il mio sarà disperso
in uno spasmo felicemente dissoluto,
annullato in serena infinita dolcezza.


Coordinate

Il tempo non è lineare ma curvilineo
e le rette parallele sono destinate ad incontrarsi.

Non ci può essere bene senza male
come il buio vive ai margini della luce.

L’odio è amore col segno meno davanti
in mezzo all’immenso mare dell’indifferenza.

Ci possiamo dimenticare del passato
ma il passato non si dimentica di noi.

La vita ci presenta sempre i suoi (e nostri) conti,
e si riceve sempre quello che si dà (prima o poi).

Questo mondo è solo un’illusione e un giorno
la Creazione tornerà più ricca a se stessa.

Tutto ciò qualcuno lo intuisce forse in olimpica
serenità, con divino stupore, con temeraria intuizione.

Ma senza intelligente pietà e viva compassione
che sprofondino dalla mente alle viscere

intridendo ogni singola cellula dell’anima
e del corpo, tutte queste Sante Verità

sono accurati progetti per castelli di carta
illuminati dalla fredda luce della luna,

passaporti per vite nella nebbia e nelle sabbie immobili,
cristalline speculazioni di anime già morte o non ancora nate.


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