Opere di

Susanna Cecovini

Con questo racconto è risultata 4^ classificata – Sezione narrativa alla V edizione Premio di Scrittura creativa Lella Razza 2009


Donna, purtroppo

A terra, sedeva.
La schiena abbandonata pesantemente allo stipite della porta le doleva, ma il cervello scartava quegli impulsi nervosi, impegnato ad elaborare fitti ricordi.
La gamba sinistra era stretta al torace, quasi a voler nascondere il piccolo corpo sfinito. Le mani intrecciate sul ginocchio, tanto strette da comprimere le dita fino a farle sbiancare; i gomiti chiusi ai fianchi, i muscoli dell’avambraccio gonfi di una forza sconosciuta.
La gamba destra era distesa, allungata quasi con sforzo, quasi a volerla allontanare dal corpo; le belle calze ricamate erano malamente lacerate e la cinghietta della scarpa nuova, quella acquistata con i risparmi del mese, brutalmente strappata.
Qualche goccia rossastra si stava già asciugando, scurendosi sui lievi disegni celesti della morbida gonna colorata.
Il volto era girato altrove; per metà nascosto da ciocche di capelli disordinatamente scesi dalla coda castana e bionda, così lunga e allegra. Dietro a quelle, il viso. Occhi senza sguardo, accesi dalla rabbia, ma pietrificati dalla paura, fissavano il vuoto e lasciavano percepire i filmati accelerati che si svolgevano nella mente sconvolta.
Occhi scuri, profondi, inondati da lacrime incessanti, che scorrevano sulle guance, sul naso e giù, sulle labbra tremanti, per ricadere su quel che rimaneva della camicetta bianca.

«Sono state le tue mani ad armare le sue». Come stiletti, queste parole le pungevano in testa e nel cuore. Più e più volte riversando la rabbia ed il dolore a sua madre, aveva ricevuto un conforto travestito da rimprovero e, ricacciando le lacrime in gola, si era spinta a credere alla piccolezza dell’accaduto.
Troppe volte. Episodi che si accavallavano e confondevano nei ricordi. Vestiti strappati, vetri infranti, lacrime oramai asciutte, parole d’offesa, aliti di birra, lividi sopra ai lividi e tante, tante spiegazioni ricche di parole di pentimento.

Senza girare la testa, spostò lo sguardo sulla gamba destra. Le doleva. Un taglio profondo correva sopra il ginocchio e lei si ritrovò a pensare alla cicatrice che sarebbe stata, a quanto si sarebbe vista. Poi, vide il sangue. Le piccole gocce sulla gonna ed i rivoli che, dal ginocchio, si riversavano sulla piastrella blu.
Ancora una volta la mente si perse dietro ad inconcepibili pensieri: molto bello quel colore viola intenso!
Scappava, come sempre. La sua mente si difendeva, scovava trucchi e si ingegnava per porre, mattone su mattone, un nuovo pavimento sopra il quale ricominciare a costruire nuove giornate.
Una forte fitta al ventre la fece ritornare a quella stanza; non spostò un muscolo, ma gli occhi risalirono il fiumiciattolo di sangue e rimisero a fuoco la ferita. Era piuttosto brutta, probabilmente un vetro aveva lacerato la gamba nella caduta ed il movimento aveva provocato la slabbratura del taglio.
Un vetro di una finestra? Le finestre erano lontane. Bicchieri? Cos’era andato rotto? Lo sguardo mutò espressione, si posò sul tavolino alla sua sinistra. Era sfondato. Il vetro in frantumi era tutto attorno a lei, sotto di lei. Da cambiare; magari con un piano in legno o forse marmo bianco, sarebbe stato bene nel salotto un po’ troppo cupo.

Ancora il suo corpo la richiamò con un’altra fitta; così forte, che questa volta dovette rannicchiarsi. Si strinse per qualche secondo, poi, con estrema difficoltà si alzò e, appoggiandosi ai muri con la mano stretta a pugno, raggiunse il bagno. Lì, lentamente, si spogliò e, con il viso terrorizzato tenuto quasi di profilo, si avvicinò allo specchio.
La dolce linea della guancia sinistra era segnata da due tagli poco profondi che si fermavano bruschi all’altezza delle labbra; alcuni capelli erano appiccicati alla fronte da un miscuglio di sudore e sangue e la fronte mostrava rughe irregolari che non erano mai state parte della sua figura.
Tentò di ruotare il viso, ma, d’istinto, chiuse gli occhi che si riempirono ancor più di pianto. Le gambe le cedettero e, tenendosi al bordo del lavandino si piegò in avanti, quasi a toccare con il naso lo specchio.
Strinse allora le mani più forte al lavandino, aprì gli occhi e si vide. Improvviso, dopo qualche secondo, un senso di rilassamento e completezza si impossessò di lei: aveva visto tutto ciò che temeva di dover guardare. Il viso allora si rilassò, schiudendo le labbra e rilasciando alcuni segni ai lati degli occhi.
Un viso distrutto; sporco e livido. Ogni centimetro era scavato da un graffio o colorato da un livido.
Il dolore lasciò il posto alla luce della triste verità che le martellava in testa. Questa volta aveva provato a resistergli ed ecco il risultato.
I pensieri, fino ad allora vorticosamente intrecciati dalla paura, si separarono, ognuno prendendo la propria direzione. Le domande lasciarono il posto alle drastiche soluzioni di una persona già in fuga, mentre la rabbia le fece stringere i denti lucenti di quella bella donna che, purtroppo, lei era stata.
Con un po’ di cotone imbevuto d’acqua, si pulì dolcemente il naso e le guance, mentre una mano apriva, quasi di sua iniziativa, l’armadietto alla destra ed afferrava le forbici.
Gettato il cotone nella tazza, la mano libera afferrò una prima ciocca e, gli occhi sempre fissi nel loro stesso riflesso, l’altra mano iniziò il suo lavoro.
Continuò così, senza spostare lo sguardo, mentre ogni cosa ritrovava il suo spazio nella mente e le varie sensazioni mutavano visibilmente i lineamenti, dall’angoscia alla chiarezza.
Ricordò, sopra a tutte, la volta in cui dovette dormire in un ricovero per poveri, tanto si era trovata stordita e confusa dopo essere fuggita da casa. Mille volte aveva davvero capito che nessuna volta sarebbe stata l’ultima, ma, poi, tutto pareva tornare come prima e la vita procedeva serena per qualche mese.
L’ultima fitta la costrinse a sedere. Sentì caldo, mentre il ventre si contraeva. Sentì dolore, poi lo svuotamento.
Ripensò un’ultima volta ai progetti che aveva fatto, ai desideri che aveva visto quasi realizzati e la assalì la paura di dover azzerare ogni cosa.
Poi, più nulla.

D’improvviso, il rumore di alcuni passi la riportò alla realtà per l’ultima volta. Una piccola mano le si posò sulla spalla.
Si guardarono e lacrime parlarono alle lacrime, in un silenzio di domande inespresse. Occhi bassi che cercavano sprazzi di coraggio, poi le prime parole.
«Adesso andiamocene, mamma».


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