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Ted Hughes


Articolo di Massimo Barile – Rivista Club degli autori n° 171-172-173-174 – Luglio 2007)


Ted Hughes: Comprendere quell’imprescendibile «desiderio universale della vita»


È sufficiente leggere alcune poesie per rendersi conto che la visione poetica di Ted Hughes, con quel linguaggio crudo che miscela sangue, pietrificazione del dolore, annichilimento e sgomento, trasporta in una regione complessa e la soggettività si agita nelle profondità interiori, alimentata da una impressionante effervescenza, come in preda ad una vertigine immane.
Il lirismo sorge dal fondo dell’essere, il poeta parla della morte sempre incombente per salvare se stesso, le sue parole, che diventano versi artiglianti, non possono essere altro che “poesia della violenza” come, del resto, è pervasa dalla violenza la vita stessa, giorno dopo giorno, tra conflitti d’ogni sorta e spargimenti di sangue, e anche l’umana tensione alla scoperta della verità, o meglio delle verità, non è altro che un continuo e sofferto percorso.
Ecco allora che, in questo continuo dibattersi, la parola del poeta diventa urlo, straziante e dolente, ultimo gesto d’una visione ancestrale dell’esistenza: la mano che fissa su una roccia la propria impronta, la cenere che ricopre la storia, il suono primordiale che recupera liricamente l’eterna lotta per la sopravvivenza. Tutto ciò che Ted Hughes esprime diventa l’esistenza stessa d’un uomo, la sua esperienza nel mondo dell’Uomo, l’atto drammatico che ricongiunge l’Umano alla belva, e li accomuna nell’identico istinto.
Eppure non viene mai meno la consapevolezza che tra l’esperienza e la “parola” v‘è un abisso e Hughes la certifica scrivendo: «La reale sostanza, i fatti materiali… si radicano in noi a molta distanza dal mondo delle parole. È quando ci mettiamo a cercare le parole per una qualche esperienza apparentemente assai semplice che cominciamo ad accorgerci di quale enorme frattura vi sia tra la nostra comprensione di ciò che accade intorno a noi e dentro di noi, e la parola che abbiamo a disposizione per dire qualcosa su di esso».
Avere il coraggio di guardarsi allo specchio è vivisezionare l’immagine tragica che trattiene le macchie di sangue, le ferite e un alone di violenza animale sprigionata da una primitiva energia esplosiva.
Le rivelazioni del mondo e le antinomie dolorose su cui si fonda l’esistenza dell’Uomo, accompagnano l’accertamento dell’insufficienza della natura umana, l’esistenza della bestialità che taglia le ali alla coscienza e il sortilegio demoniaco a cui si è sottoposti. Il pensiero dell’agonia come continua lotta e della morte, come frontiera tra l’essere e il non essere, trasportano in un mondo pericoloso, all’origine della vita, fino a raggiungere la pulsione odiernache annienta l’ultima illusione.
I momenti drammatici e tragici di questa lotta tra vita e morte diventano consapevolezza cosmica e nel loro trionfo quotidiano si continua a vivere. Il dramma della coscienza e la seduzione davanti alla poesia dell’artiglio che come rostro uncina le ragioni profonde dell’esistenza, vengono gettate nell’arena: le parole dell’uomo sono rapite alla luce e alle tenebre e sembrano inghiottire nel più orrido abisso. La verità è l’effetto di un tormento e di una ferita, lo squilibrio tra la purezza e il carattere demoniaco: e quando la coscienza si separa dalla vita, la rivelazione della morte diviene violenta e annienta ogni ingenuità.
V‘è qualcosa di perverso nel soffio animale v‘è qualcosa di distruttore nella rapacità, al di là di ogni forma o visione. L’esperienza di Ted Hughes è autentica «immagino la foresta in questo momento di mezzanotte», qualcosa di vivo «oltre la solitudine dell’orologio», nel profondo buio, un corpo audace, occhi verdi di volpe che si dilatano: e la sua dialettica poetica mira a comprendere il senso profondo della vita, quell’imprescindibile «desiderio universale della vita» e, nello stesso momento, guarda all’agonia come condizione della conservazione d’un animale e della fine di un altro: lo slancio selvaggio, l’incanalamento di tutta l’energia per sfuggire alla coscienza, la vertigine universale del puro istinto: ogni animale sa quando la fine è prossima.
La volontà unica ed autentica di Hughes è porre in una posizione di dominio proprio quel “desiderio universale della vita”, in sintesi, la sola parola d’ordine per l’Uomo e l’animale: ma la sua poesia è contrassegnata da atmosfere cupe e incombenti assai lontane da una poesia conciliante la gioia di vivere e, non a caso, è sempre presente un sotterraneo filo conduttore che riconduce immancabilmente all’amara constatazione che «questa è la vita, è dura, cruda, dolorosa, e sia così... è meglio lottare con i denti quotidianamente per la sopravvivenza piuttosto che morire».
È solo il sangue che pulsa nelle vene che rende l’uomo vivo e concede la volontà di lottare: alimenta le zone dell’istinto, la violenza diventa energia esplosiva e anche la mente del poeta si avventa sulla parola come un falco.
«La poesia è il registro di come le forze dell’Universo cercano di ristabilire un equilibrio turbato dall’errore umano»: la poesia deve allora rivolgersi all’istinto, alle passioni, all’energia primigenia, alle forze della natura ed è questa l’unica possibilità che ha di riuscire a trovare la verità e l’autentica ragione del vivere.
Ad un certo punto si ha quasi l’impressione che un mondo diverso si sovrappone a quello dell’uomo ed è il mondo naturale dove il protagonista è l’Animale e non più l’Uomo: domina la vita istintiva al di fuori della morale e della razionalità come a gettarsi in una discesa nel mondo degli istinti per ritrovare o ricercare le radici della vita. Il poeta fa diventare protagonisti gli animali che vivono in quel suo autonomo mondo fino ad affermare «cominciai a guardare gli animali dal loro punto di vista» ecco allora che l’Animale falco osserva, scruta, parla, padrone del mondo che perentoriamente constata «stringo nella mia zampa la Creazione».
Già nella prima raccolta poetica The Hawk in the rain pubblicata nel 1957, Ted Hughes pone il falco al di sopra dell’uomo perché il falco è «una punta di diamante della volontà» e «senza sforzo sospende in alto il suo occhio immobile» ed è l’Animale che afferma «i miei modi sono quelli di dilaniare teste» e sentenzia «non c‘è sofisma nel mio corpo»; allo stesso modo anche il giaguaro «non c‘è gabbia per lui/più che la sua cella al visionario» è lo specchio fedele dell’animale che, anche se prigioniero, non perde mai la sua libertà. Anche le altre raccolte di poesie che seguiranno vedranno sempre più la presenza degli animali fino a Lupercal pubblicata nel 1960 dove si farà incalzante quella che si può definire una “collezione animalistica poetica” tra cavalli, gatti, lontre, corvi, tordi, lucci. La visione del poeta comunque si sofferma sempre sull’essenza della vita, sull’eterna lotta per sopravvivere in un mondo pericoloso e tragico dove dominano la ferocia e la crudeltà ma questo mondo, nella concezione di Ted Hughes, è quello autentico, e sta all’opposto di quello dell’uomo che ha artificiosamente costruito una “maschera falsa e ipocrita” composta da una impalcatura di strutture e costruzioni mentali per nascondere la violenza: la sentenza è che l’animale accetta la propria verità.

La fantasia di Ted Hughes sprigiona un mare magnum di recuperi che partono dal mondo della Natura, lambiscono la cultura classica e le visioni del Mito, fino a giungere alle concezioni filosofiche e ad una personale rappresentazione della realtà: tra le sue mani, tutto diventa un “dramma alchemico”, misterioso e mostruoso, violento e straziante, tra sangue e carne fatta a brandelli.
Si assiste, inesorabilmente, ad una spaventosa esplosione letteraria di vitalità, capace di rappresentare la vita e la natura, dalla belva feroce all’uccello del paradiso, e gli animali, nello stesso momento dell’espressione poetica, diventano un unico e primordiale simbolo della forza, dell’istinto alla sopravvivenza, della lotta per resistere nell’ambiente più pericoloso e, proprio questa “forza naturale simbolica”, si contrappone, in modo netto ed inequivocabile, alla sterilità dell’uomo moderno, ravvisata e constatata dal poeta.
Una miscela fantastica che rivela una ricchezza visionaria, una continua tensione a rendere palpabile quel sottile confine che divide la realtà, vera e cruda, dalla visione immaginifica e sanguinante d’un mondo naturale: sempre in bilico tra il reale e l’immaginario, rivivono nelle parole di Hughes, animali e meravigliose creature, rappresentazioni di questo mondo tragico e cruento.
«Catturare animali e scrivere poesie hanno qualcosa in comune… sono fasi della stessa febbre… Io considero una poesia una specie di animale»: ecco il mistero della sua poesia, la tremenda metamorfosi che si impossessa della sua visione, la tensione che si fa ansia, la presa d’atto d’una inevitabile necessità di «bruciare i ricordi sull’altare della poesia»: e poi la consapevolezza della propria condizione umana, nel segno della morte e della poesia, il canto doloroso per la donna amata dopo il fatale destino che ha condannato la sua “parola” all’ombra di Sylvia Plath.
Il mistero della morte, la funzione della poesia, l’energia vitale della parola e, come a seguire il filo d’un destino già scritto, un uomo che si dedicherà alla poesia dopo aver fatto il giardiniere, il guardiano di zoo, l’insegnante.

Tutto diventa un tremendo e fremente “campo di battaglia” dove combattere il freddo, il dolore, la crudeltà, l’orrore; in campo aperto sopra la “pietra della terra” e nel profondo buio d’una notte che inghiotte, a guardarsi dalle “ombre” o da “un ruggito”, annusando una ventata d’aria in una caverna, la bava alla bocca e il sangue che “scivola”, gli spiriti aleggiano in un mondo insanguinato tra brandelli di carne e un grido ultraterreno. Ecco davanti ai nostri occhi il “sacrificio” dell’uomo che può vincere tutto e poi tutto perdere e rendere: non rimane che la follia, la terra stessa che nasconde le ossa e gli artigli. Anche del guerriero più forte non restano che le armi e lo sguardo: «lame, dardi, archi allentati… e la bellezza del teschio/avvolta negli stracci del vessillo./Lui stesso è quel vessillo e i suoi stracci./Mentre, ora per ora, il sole/rafforza la sua rivelazione».
La parola viene ferocemente piegata alle esigenze del poeta che la plasma con dirompente energia per cogliere l’autentica essenza della vita e della poesia così come delle verità che nascondono. Il pensiero diventa il pensiero dell’animale, del falco o della volpe o di altri animali a seconda delle necessità, e infine diventa poesia: e l’animale stesso, come in una metamorfosi lirica, si erge a simbolo del linguaggio di immensa violenza come a riversare la grande energia, la forza vitale e la ferocia bestiale nell’esistenza animale.
È la presa d’atto delle “potenze naturali” che “muovono l’universo”, la visione della crisi dell’uomo moderno con la perdita di valori e la mancanza di un’identità.
La spietata osservazione della lotta per la vita, del sangue che sgorga, della morte, della linfa che produce nuova vita e della realtà, cruda e violenta, che la toglie, sono il risultato dell’analisi implacabile a cui tutto viene sottoposto.
Hughes è riuscito a “pensare animale”, a “parlare animale” fino ad immedesimarsi negli stessi istinti, nei movimenti felini, nel momento della caccia, nell’ingaggio della lotta furibonda, nel “pensiero animalesco”: le parole possiedono occhi per guardare e lingua per esprimersi e “un corpo con cui muoversi” e la poesia che nasce diventa un “animale” con cui fare i conti.
Ecco che scrivere una poesia è come “cacciare”, catturare la vita e così scrive Hughes: «tenete gli occhi, le orecchie, il naso, il gusto, il tatto, tutto il vostro essere sulle cose che state trasformando in parole… Continuate così più a lungo che potete, poi voltatevi a guardare quello che avete scritto… ne subirete uno choc: avete catturato uno spirito, una creatura».
Come ad inseguire una rivelazione che gela il sangue, Hughes pare ricercare un rituale che procuri un’esplosione delle forze degli elementi dell’universo: un rito ancestrale che alimenti la forza originaria e brutale, che permetta alla mano dell’uomo-poeta di essere sempre pronta ad affondare la lama nella carne viva, alla sua mente di vagare ai confini d’un mondo che non riconosce la civiltà.
Il desiderio insopprimibile di vivisezionare la realtà, di guardare al mondo animale come “unico” possessore della vita e della morte fa parte della visione di Hughes, e per lui, fortunatamente, gli animali non hanno autocoscienza, nessuna esitazione e nessun rimorso che li ossessiona.
Esistono solo gli occhi predatori, le mandibole che afferrano le ossa, il dolore delle ferite, il fiuto nell’ap-postamento.
Tutta l’energia non può far altro che colare in una espressione immediata, in una creazione che allontana dalla decomposizione, al di là dei confini, affinché la morte non sia il trionfo dell’ultimo istante.
Nella visione di Hughes solo il “vero uomo”, l’artista, sfuggono a questa realtà: solo l’artista porta con sè “l’acciaio della volontà”, solo l’artista domina la parola, proprio come il falco che si getta d’istinto sulla preda. L’artista vive e si muove in una “regione” istintuale dove il piacere è demoniaco: la violenza della sua poesia non è violenza vera ma altresì energia vitale prorompente così forte da andare oltre i limiti d’una virtuale «bocca dello squalo/che ha fame dell’odore del sangue».
Rimane qualcosa di certo oltre la morte? La fase estenuante dell’agonia, il fascino demoniaco del potere di vita o di morte? Nell’ultimo disperato tentativo di allontanarsi dal baratro, l’uomo deve ammettere che non si può evitare la violenza perché la vita è pervasa di violenza: predare ed uccidere per un istinto assoluto della sopravvivenza.
Nell’odore del sangue, nella polvere delle atrocità, nella visione del dilaniamento dell’agnello sacrificale tutto diventa una crudele prova nella imprescindibile volontà di “non morire”. L’astuzia dell’animale serve a questo scopo, e il rifiuto dell’umano vivere così come della morte da parte del poeta, trasportano in una paradossale sensazione della vertiginosa e temuta incombente fine di tutto. Ormai neanche più l’animale, simbolo della vita, conduce alla salvazione e non resta all’uomo che resistere più a lungo possibile.
La matrice di tutte le cose, il fuoco creativo, il falco e l’avvoltoio, la parola dell’adoratore dell’artiglio diventano simbologia: la morte si capisce solo se si comprende la vita e la sua agonia in cui vita e morte si intrecciano, nel momento in cui si smaschera la nullità delle false parole, l’immensa tragedia non è che l’unica possibilità di trovare la risposta.
Impetuoso come un “torrente su un dirupo”, come il fragore dentro “gole oscure”, freddo come lastre di ghiaccio, anticonformista e uomo umile, Ted Hughes ha portato con sè la visione della poesia come di un “dono”: «Il poeta ne è visitato quando meno se lo aspetta e non è sicuro di esserne stato visitato prima che sia trascorso qualche giorno o qualche mese, e forse non sarà mai sicuro, essendo un uomo sensato, che conosce i casi dei poeti più vecchi e i demoni dell’autoinganno e gli inganni di intere generazioni».
Come il giaguaro che «cammina dondolandosi come uno sventratore azteco», come il falco che si scaglia nel vento «in libertà nel nulla».

Massimo Barile



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