Incontri nell’anima

di

Teresa Simeone


Teresa Simeone - Incontri nell’anima
Collana "I Salici" - I libri di Narrativa
14x20,5 - pp. 62 - Euro 8,50
ISBN 978-88-6587-6169

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In copertina: “Spazio, materia, luce” di Mario Lanzione tecnica mista su tavola 100×100, 2013


Pubblicazione realizzata con il contributo de IL CLUB degli autori in quanto l’opera è finalista nel concorso letterario Jacques Prévert 2015


Prefazione

Il libro di Teresa Simeone, dal titolo “Incontri nell’anima”, rappresenta, simbolicamente, il fluire della vita stessa attraverso i contatti emotivi con le persone incontrate, capaci di influire sul nostro cammino, tra vicende esistenziali e riflessioni filosofiche, considerazioni d’ordine sociale e politico, accompagnate, in alcune dissertazioni, da vari riferimenti popperiani.
Il mare magnum di illuminazioni intellettuali diventa la substantia narrativa che si miscela con le numerose rappresentazioni costantemente pervase di profonda umanità e portatrici d’una forte visione etica relativamente alle manifestazioni del vivere.
La narrazione prende avvio dal ricordo di una storia che le raccontava il padre, nel periodo della sua infanzia, quando le paure e le fantasie si miscelavano nella mente di una bambina.
La vicenda di “Rolando, il mostro della capanna nel bosco” era la triste storia di un uomo sfortunato, alto e muscoloso, ma con un occhio solo e l’altro devastato dagli effetti di un incendio; colpito da una malformazione all’anca che lo costringeva a camminare lentamente e costretto a vivere esiliato nel bosco a causa del pregiudizio e della paura per la “diversità” che, da parte dell’Autrice, diventano un forte richiamo alla tolleranza, all’accettazione dell’altro e alla necessità di saper guardare oltre le “apparenze” ingannevoli.
Nel flusso memoriale ritorna, poi, alla mente, dopo la delusione per un esame finito male, l’inaspettato incontro con un’anziana signora che le regala un libro di Albert Camus.
È il seme di una nuova fase narrativa che prende in considerazione alcune concezioni filosofiche e riflessioni sociologiche e politiche, che mettono in evidenza le intenzioni di Teresa Simeone, tendenti ad innalzare una sorta di critica all’odierna società.
Ecco allora che “L’homme révolté” di Albert Camus, che l’aveva sempre affascinata, offre una sorta di respiro filosofico alle sue inquietudini e prende in esame alcune considerazioni di Camus: “Non esiste rivolta senza la sensazione di avere in se stessi in qualche modo e da qualche parte ragione… Nel moto della propria rivolta, l’uomo prende coscienza di un valore in cui crede di potersi riassumere”.
Il suo atto d’accusa contro ogni forma di ribellione che dimentichi le ragioni della ribellione assurge a concezione esistenziale che viene fatta propria da Teresa Simeone.
La spinta a combattere le ingiustizie sociali, a difendere i diritti delle persone rende “etica” la ribellione e rappresenta il valore stesso della rivolta.
Quando la “rivoluzione” nega ogni valore tranne la rivoluzione stessa perde l’anima che la caratterizzava, al contrario, la rivolta è il rifiuto dell’oppressione di una dittatura per il principio etico dell’unicità della vita, dalla consapevolezza della comune natura umana.
Nella società odierna l’ideologia pare superata, ma Teresa Simeone si definisce “di sinistra”: eppure sa molto bene anche lei che le categorie politiche hanno perso il loro valore e sono difficilmente inquadrabili e distinguibili soprattutto nell’attuale panorama politico nel quale la sinistra e la destra si miscelano e si compenetrano, fino ad assorbirsi a vicenda.
Purtroppo, al giorno d’oggi, assistiamo ad una costante giostra che vede soggetti di scarse capacità salire e scendere dai famosi cavallini che girano e rigirano, al solo scopo di trovare un posto comodo e… continuare a girare.
Le osservazioni di Teresa Simeone sono filosoficamente complesse e profondamente sentite, riescono a scrutare le antinomie della realtà e le contraddizioni dell’umano vivere: la tensione ad una concezione egualitaria, il grande valore dato ai diritti della persona, il senso di giustizia, l’attenzione alla tolleranza e la sensibilità nei confronti della diversità vengono analizzati nel loro significato più pregnante.
Seguendo tale direzione il processo in divenire condurrà al ricordo dell’incontro con un’amica, che non vedeva da tempo e che era stata uno degli incontri importanti della sua vita. L’amica possedeva una fede granitica in Dio mentre lei aveva iniziato a dubitare di Dio dopo la scoperta della filosofia che aveva aperto un varco nella sua visione esistenziale, diventata una ricerca continua e conducendola a fluttuare nell’oceano di riflessioni in un lento sprofondamento nella realtà quotidiana che si era dimostrata assai diversa dalle lotte ideali riportate nei libri che avevano affascinato, sia lei che l’amica, quando erano ancora giovani universitarie.
Nel tempo narrativo “Il coraggio dell’ateismo”, domina la visione di Nietzsche che si incarna nel sigillo: “Io sono finito, io sono mortale, io sono uomo”. Non esiste Dio, né esistono idoli: v’è solo l’accettazione assoluta dell’umanità e l’Uomo si impone nella sua irripetibile singolarità, al di là del bene e del male.
La disquisizione filosofica sulla concezione nietzschiana accompagna per alcune pagine ed è espressione fedele della tensione di Teresa Simeone a ricercare, filosoficamente, le possibili risposte agli interrogativi che l’Uomo si pone nel suo percorso terreno.
La narrazione ritorna, poi, seguendo il continuo alternarsi tra riflessioni speculative e rappresentazioni del reale, al recupero memoriale con l’affettuoso ricordo d’un compagno di scuola e, infine, all’incontro casuale con una donna disabile, all’interno di una stazione ferroviaria, che diventerà sua grande amica.
Gli incontri che hanno segnato momenti importanti della vita sono conservati nella memoria e sono destinati ad essere estratti dal sedimento del quotidiano vivere come ad assurgere a schegge vitali, che hanno la forza di alimentare nuove prospettive ed aprire orizzonti mentali sempre alimentati dall’entusiasmo d’una donna che dimostra estrema sensibilità nell’affrontare la vita.
Nel succedersi dei giorni del nostro umano vivere v’è quindi la consapevolezza, da parte di Teresa Simeone, che sovente capita di dover fare i conti con le gioie ed i dolori, le illusioni e gli inganni, le fragilità ed i dissidi che diventano motivi di analisi della sensitività, atti salvifici che oltrepassano il modello esistenziale tradizionale e consuetudinario.
Il richiamo di questa domanda profondamente umana, durante il travagliato percorso alla ricerca del proprio Io più profondo, mette in moto la nostra umanità attraverso gli eventi e le sollecitazioni essenziali per il nostro vivere, il nostro modo di guardare le cose intorno a noi, la rivisitazione degli incontri che caratterizzano la vita nell’incontro con l’altro, fondamentale e necessario perché l’essere umano diventi sempre più “se stesso”.
La consapevolezza che il nostro Io emerga dalle apparenti sensazioni e sia alimentato dalla realtà fa deflagrare la domanda di “significato” che nasce dalla vita normale, dalla realtà delle esperienze raccontate e ci eleva al di sopra del mondo materiale.

Massimo Barile


Incontri nell’anima


A mia madre, che ci ha guidato,
con instancabile generosità,
alla scoperta dell’Altro…


ROLANDO, IL MOSTRO DELLA CAPANNA NEL BOSCO

Il cieco fluire della vita spesso si ferma in un incontro: con una fiaba, con un’idea, con un libro, con un’opera d’arte…
Sono proprio alcuni di questi incontri che decidono, a volte, la direzione del nostro cammino…

Ritorno spesso con la mente a un racconto che mi faceva mio padre davanti al focolare in quelle fredde sere invernali, quando nel buio dell’infanzia le nostre paure prendevano corpo e le angosce si caricavano di lugubri e inconfessate fantasie.
Era la storia di un mostro, con un occhio enorme, guizzante e vivacissimo, e l’altro, devastato da un incendio impietoso, senza espressione, che usciva per metà dall’orbita. Il naso adunco si stagliava su una bocca carnosa, piegata in un ghigno che non riusciva a rendere più umano un volto cui la natura aveva negato qualsiasi dolcezza o armonia.
Si muoveva impacciato: una malformazione all’anca, che lo costringeva a passi lenti, enfatizzava il suo incedere artificioso e meccanico, reso ancora più temibile dall’altezza imperiosa e dai muscoli, gonfiati da anni di duro esercizio fisico per la sopravvivenza.
Era Rolando, il mostro della capanna nel bosco.
Molti cavalieri avevano provato a sfidarlo, a portarne la testa al villaggio e a raccoglierne gli onori. Si erano armati di spada e arroganza, ciascuno convinto di essere il prescelto ed erano partiti verso l’avventura che avrebbe dovuto ricoprirli di gloria. Nessuno era mai tornato.
Un giorno, Ivana, una ragazza del villaggio, prese un viottolo che non aveva mai esplorato: amava passeggiare tra faggi e castagni, osservare il verde delle foglie e seguire i sentieri che affondavano nella vegetazione. Senza meta, senza preoccupazione: ogni tanto si fermava e ascoltava.
Trascinata dalla bellezza del luogo, arrivò in una radura: al centro di essa si trovava una capanna, in legno e pietra, all’apparenza povera ma con uno strano fascino. Avvicinandosi, si accorse che le pietre erano scolpite e raffiguravano episodi del Vangelo e su ogni tronco erano finemente intagliate vicende del Corano. Le finestre, basse e larghe, avevano delle ante cesellate con maestria, che rimandavano a visioni orientali, con dipinti nei quali troneggiava Budda, attorniato dai suoi discepoli.
La porta della capanna era un vero inno alla tolleranza religiosa, con immagini che raffiguravano episodi della vita di Gesù, di Mosè, di Zoroastro e iscrizioni che rimandavano all’ebraismo e all’induismo.
Ivana non credeva ai propri occhi: in un bosco dominato dalla natura si ergeva un simile omaggio alla cultura. Come potevano esistere, si chiese, in un luogo in cui c’erano solo piante, animali, ferinità allo stato puro, quella spiritualità, quello strano misticismo? Chi era l’uomo, raffinato e sensibile, che viveva in quella casa?
Non certo il mostro di cui tutti parlavano in paese e che tiravano in ballo quando c’era da calmare qualche bambino troppo capriccioso!
In verità, lei non aveva mai pensato a lui con paura, ma era raro che Ivana avesse paura: aveva imparato a razionalizzare il suo mondo. Se di notte sentiva uno scricchiolìo si alzava e cercava di capire da quale mobile provenisse; se un millepiedi entrava nella sua camera lei lo prendeva piano con le dita e lo metteva fuori dalla finestra; se qualche cane ringhiava, gli faceva annusare la mano, lentamente, e dopo un po’ diventavano amici; se le si avvicinava uno zingaro, non scappava via come le sue compagne, ma si fermava a parlare con lui.
Anche stavolta la sua curiosità ebbe la meglio sulla prudenza.
Bussò alla porta, ma non ebbe risposta. Si accorse con sorpresa che non era chiusa a chiave. Entrò. Un caleidoscopio di colori quasi la tramortì: le pareti, il tavolo, le sedie, i mobili erano dipinti di giallo, di rosso, di verde, di azzurro, di viola nelle diverse sfumature, ma con una tale armonia cromatica da suggerire gioia piuttosto che confusione. Una libreria, i cui colori guizzavano dal celeste al pervinca, girava tutt’intorno alla stanza; Ivana scorse «Orgoglio e pregiudizio», «Il processo», «Anna Karenina», «I promessi sposi», «La montagna incantata»: ogni passo era un salto nel mondo della grande letteratura.
Una porta introduceva in una camera dove c’erano sei letti, tutti ordinati e composti; da qui un’ulteriore apertura immetteva sull’esterno.
Ivana continuò la sua esplorazione: fuori, su panche colorate disposte in cerchio intorno ad un tavolino con bicchieri e bottiglie, all’ombra di una quercia e in un clima di evidente familiarità, alcuni uomini stavano discutendo. Intuì immediatamente chi fosse Rolando, ma chi erano gli altri?
Quando la videro emisero un breve grido di sorpresa: “Chi sei?” chiese Rolando “Come sei arrivata fin qui?”
“Mi chiamo Ivana. Passeggiavo nel bosco.”
Iniziò così la sua magica avventura che la catapultò in quel mondo di libertà e audacia. Venne così a scoprire chi fossero quelle persone e chi fosse realmente Rolando: erano i cavalieri, una volta carichi di pregiudizi e vanità che, conosciuta la mitezza del mostro, ne erano stati conquistati e, deposte armi e boria, avevano deciso di rimanere con lui.
“Gli abitanti del villaggio – le spiegò Rolando – non mi hanno mai permesso di parlare, terrorizzati dal mio aspetto e più non riuscivo a spiegarmi e più forte mi arrivava, con gli insulti, la loro paura.
Ogni passo che facevo appariva minaccioso, ogni sguardo torvo, ogni parola esagerata – Fece un lungo sospiro – Ho deciso così di ritirarmi nel bosco, per poter leggere e pensare. Anche da lontano, però, la diversità inquieta. Sono venuti in tanti a cercarmi; molti sono semplicemente tornati indietro, altri hanno continuato il viaggio. Qualcuno invece è rimasto con me.
Anche tu mi sembri diversa; perché non resti a chiacchierare un po’ con noi?”
Ivana ritornò in paese, ma ogni pomeriggio si recava nel bosco, in quel magico salotto, tra il verde degli alberi e l’azzurro del cielo, con Rolando e i cavalieri, a parlare e ad ascoltare.
Questa fiaba mi affascinava e chiedevo continuamente a mio padre di ripeterla. Bambina, non la capivo fino in fondo, ma ne intuivo la bellezza e il richiamo alla tolleranza, che solo in seguito avrei analizzato.
Col tempo mio padre mi aveva spiegato che il suo era stato l’adattamento fantastico di una storia vera, quella di un ragazzo colpito da una grave forma di emiparesi che aveva dovuto imparare a convivere con gli sguardi, non sempre benevoli, della gente. Amareggiato, aveva infine chiesto di occuparsi della biblioteca del paese, dove avrebbe potuto coltivare in pace i suoi studi e sottrarsi alla morbosità degli altri. Era questa la casa incantata nel bosco. I colori delle stanze erano quelli delle avventure che viveva nei libri e i cavalieri erano i suoi amici speciali, quelli che lo cercavano per parlare di filosofia, di poesia, di politica. Ivana era ogni ragazza che riuscisse a vincere i pregiudizi e ad aprirsi all’altro: Ivana era la ragazza che mio padre avrebbe voluto io diventassi.
Ho provato a essere come lui avrebbe voluto – mi trovai a pensare – e ad ascoltare senza giudicare. Da adolescente, ero dura e saccente, lontana anni-luce dalle sue aspettative; poi, col tempo, mi sono lentamente addolcita. A quarant’anni si è diversi: ci si ritrova in un attimo pieni di rughe e di saggezza. E ci si scopre ad ascoltare i propri pensieri e a ricordare…
Quella volta, nel parco, una mattina d’autunno.
Ero seduta su una panchina, l’ennesimo esame andato male. “Avrei dovuto accettare l’aiuto di zio Vittorio, che conosceva i membri della commissione”, mi ripetevo, ma il mio maledetto orgoglio, quella fede ingenua nella giustizia mi avevano fermato. Perché farmi raccomandare? Perché avrei dovuto acconsentire alla divisione tra candidati di serie A, candidati di serie B e candidati di serie C? E inevitabilmente ero finita tra i candidati di serie Z: gli sconosciuti, gli indifesi, quelli esposti al giudizio degli esaminatori, i nobili “professori”, che, assolti finalmente tutti i doveri clientelari, potevano sfogare la loro boria e bruciare incenso al sacro “fuoco della giustizia”.
“Mi dica, quando è nato Torquato Tasso?” Silenzio irreale.
Non è possibile! – pensavo – Che ottusità!
“La signorina non risponde; beh, diamole un’altra possibilità: mi dice quando è stata pubblicata l’Aminta?”
Ero impietrita, conscia del mio imminente sacrificio.
“Su, via, non mi obietti che questo è nozionismo! Le coordinate spaziotemporali di un’opera sono essenziali per la comprensione corretta del suo contenuto. A proposito, ma lei, con la sua erre alla francese e la sua o alla siciliana pretende di fare la docente? Non crede che dovrebbe seguire prima un corso di dizione?”
Un’ora e trenta era durato questo strazio in cui tutte le mie debolezze, impietosamente, erano state messe a nudo. Guardavo i volti dei commissari che cercavano di compiacere il presidente e che intuivano, dal suo tono, che ero sola, senza le tutele della raccomandazione: potevano infierire, dunque, dimostrando la propria pedante preparazione, involandosi in virtuosistici giochi linguistici, affabulandolo con citazioni dotte e auliche, con domande improponibili, finalizzate unicamente a soddisfare la propria vanità di docenti didatticamente falliti che in quel momento si gonfiavano dell’arbitrio di decidere del destino di un’altra persona. Cosa contava ormai il resto? La poesia raffinata di Tasso, la necessità di capire la maturità di chi avevano di fronte, la preparazione didattica di un futuro insegnante? Tutto questo non aveva alcun valore dinanzi al favore che dovevano al preside di turno o all’avvocato che aveva fatto risparmiare una multa per eccesso di velocità o all’assessore che aveva concesso un’improponibile licenza edilizia.
Non mi ero accorta di un cagnolino che si era avvicinato. Fermo, ai piedi della panchina, annusava i biscotti che avevo tra le mani.
Spezzai un tegolino e gliene diedi la metà.
– Cenere, vieni qui! –
Una signora, con un cappottino di lana beige e una sciarpa marrone, il viso simpatico e l’espressione gentile, si mosse verso di me.
– Mi scusi se il mio cagnolino la sta importunando, non riesco sempre a tenerlo. Sa, l’età… –
– Ma no, non si preoccupi, è così carino. È che io non sono particolarmente allegra oggi. –
– Cattiva giornata?! – mi sorrise come a invitarmi a parlare.
La simpatia bonaria di quel viso rotondo e l’interesse senza morbosità, mi tentavano e mi lasciai andare, come se qualcuno avesse intaccato con uno spillo un bubbone carico di pus e questo si fosse riversato senza più freni. Raccontai tutto, quella vecchietta, semplice e sconosciuta, era l’intero mondo da cui volevo essere consolata, assolta dai miei fallimenti, ripagata per le rinunce, elogiata per la fermezza dei principi. Avevo fiducia, nonostante tutto, che ci fosse qualcuno disposto a capirmi.
Angelica, come disse di chiamarsi, ascoltava in silenzio; la vivacità dello sguardo, che ora si illuminava ora si rabbuiava era un segno della sua attenzione. Quando finii di sfogarmi, mi colpì la sua semplicità: “Non ti curare della mediocrità del mondo. Continua sulla tua strada.” Aprì la borsetta di pelle marrone e ne estrasse un libro: “Tieni, leggilo, sono sicura che ti piacerà!”
“Ma no, non posso accettare, non mi conosce nemmeno e vuole regalarmi qualcosa di così prezioso?”
“È vero, non potrei regalarti niente di più prezioso, ma sono sicura che saprai apprezzarlo. È di un filosofo che amo molto. Mi porse il libro e ne lessi il titolo: «L’homme rèvoltè».
Conoscevo Albert Camus, di cui avevo letto «Lo straniero» e «Il mito di Sisifo»: “Bene, – la ringraziai – lo gusterò stasera, davanti ad una tazza di cioccolata fumante!”
Ci salutammo come se ci conoscessimo da sempre. Mi incamminai verso casa un po’ più leggera. Ripensavo a quella strana donnina e a ciò che a volte si nasconde dietro un aspetto apparentemente ordinario. Mi ero sentita veramente bene!

[continua]


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