Con questo racconto ha vinto il sesto premio all’edizione 2008 del Premio Il Club dei Poeti
«Risvegli»
Il suono della sveglia spense il silenzio della notte.
Iniziava un nuovo giorno: quella ghirlanda di luce proiettata sul muro era come l’incipit di una storia.
Avrebbe voluto dormire ancora un po’.
I pensieri, impacciati, si muovevano lenti sui binari della mente.
Come treni che riprendono la corsa dopo una lunga sosta, avrebbero avuto bisogno di qualche minuto prima di acquistare velocità.
Richiuse gli occhi e passò in rassegna gli impegni previsti per la giornata. Tanti.
Ora i pensieri, non ancora sciolti dal torpore, si accavallavano ai ricordi più recenti.
Scese dal letto e subito il gatto gli si strusciò contro le gambe. Aspettava la sua razione di croccantini e latte.
Si barcamenò tra doccia e caffè, tenendo continuamente d’occhio l’orologio.
Il giornale radio amplificava intanto l’eco dei suoi pensieri: ancora guerra nel Darfur, bambini vittime di pedofilia, ventiduenne morta dopo aggressione in metropolitana.
Quelle parole avevano il peso di macigni che si accatastavano sul fondo della coscienza. Non avrebbe potuto ignorarle.
Come ragni avrebbero ordito i propri fili intrecciandoli alla trama di quel giorno.
Cosa avrebbe raccontato ai suoi ragazzi, cosa si sarebbe potuto inventare per fare in modo che la speranza non li abbandonasse? Non doveva essere facile neanche per loro. Nonostante la giovanissima età, molti dei loro disegni erano già stati imbrattati.
Ma lui, come prof, entrando in classe, doveva essere capace di trasmettere certezze, doveva farsi paladino di un mondo per il quale valesse sempre la pena di lottare.
Lui non poteva cedere.
Si guardò intorno per essere certo di aver preso tutto. Riaprì la cartella: agenda, libri e compiti – corretti la sera prima – erano lì. Accarezzò il gatto e uscì.
Sul pianerottolo la signora Doina aveva già iniziato le pulizie. Brava donna, chissà quanto le mancavano i suoi due bambini lasciati in Romania con la madre.
Presto sarebbe ritornata a prenderli.
Portarli con sé in una città sconosciuta le aveva fatto paura. Con loro sarebbe stato tutto più difficile. Veniva anche lei da Piatra, come Sorin.
Sorin: gli venne in mente la sua confessione del giorno prima. Dall’inizio dell’anno non aveva mai comprato i libri, non perché non gli importasse di studiare, ma per via dei soldi guadagnati dalla mamma che non bastavano. Si era illuso di farcela e come risultato aveva collezionato una sfilza di insufficienze.
Per gli studenti in difficoltà come Sorin era stato attivato un corso di recupero pomeridiano, ma lui non si era mai presentato.
Non c’erano pullman che lo riportassero a casa e lui non aveva il motorino. Aveva, però, superato l’esame per il patentino.
Scese le scale con passo agile. Non prendeva mai l’ascensore. Al primo piano incontrò Mariana che usciva a fare la spesa per la signora Ginevra, inchiodata da mesi su una sedia a rotelle dopo un ictus.
«Buongiorno, professore».
«Buongiorno, Mariana».
Doveva essere una ragazza in gamba.
Da quando era arrivata lei, la signora Ginevra appariva più serena. Mariana la portava fuori per una passeggiata quasi ogni giorno. Le aveva spesso incrociate per strada, tornando da scuola.
Con i figli, invece, la signora si era sempre rifiutata. Sapeva che non avevano tempo e lei non voleva essere di peso.
Con Mariana era diverso, lei era lì per aiutarla e il pensiero la confortava. Finalmente non doveva più sentirsi in colpa.
I tratti somatici di Mariana e la pelle olivastra gli ricordavano Jasmine, la sua allieva.
Potevano avere origini comuni. Quella ragazza era rimasta assente per due mesi. Che fatica convincere i genitori a farla ritornare. Da quando era nata la sorellina, i suoi avevano preferito tenerla a casa per accudire i fratelli più piccoli.
La mamma da sola non ce l’avrebbe fatta. Un disastro.
Il suo vicino di banco Giovanni, invece, non aveva problemi economici, a lui mancava la voglia di studiare. Da quando papa e mamma si erano separati non aveva più interesse per la scuola e a ben poco erano serviti i suoi incoraggiamenti da prof. «Anch’io sono stato abbandonato dalla mia compagna», avrebbe avuto voglia di dirgli un giorno, «Sabrina se ne è andata perché si faceva fatica con il mio stipendio da prof. Adesso lei esce con qualcuno che non ha problemi con le bollette da pagare. Poverina. Io avrei potuto offrirle emozioni che non si comprano, ricchezze che non si vedono. Con me non sarebbe mai rimasta senza qualcosa da leggere, ma a lei il profumo di libri dava la nausea».
Ricordò le sue parole, proferite all’infinito: «Tu e la tua stupida scuola, lavori come un matto per niente».
Non voleva che ai suoi ragazzi capitasse la sventura di Sabrina.
Il suo intento era quello di vederli crescere fiduciosi nella scuola, nella cultura, nell’amore per gli altri, promotori di giustizia, di azione costruttiva, appassionati di pace.
Ma come potevano fidarsi di un mondo di adulti, se erano proprio gli adulti a non fidarsi di se stessi.
Quando sbraitavano contro moglie o marito, quando andavano via sbattendo la porta, quando tradivano, quando abbandonavano, quando litigavano con il vicino di pianerottolo, quando affondavano le ansie in un bicchiere che non era mai l’ultimo, quando invece di ascoltare si chiudevano in impenetrabili silenzi, tutti quegli adulti in cosa stavano dimostrando di credere? «Buona giornata», gli augurò intanto l’edicolante, porgendogli le copie dei soliti quotidiani. Sempre due.
Lui, come prof, non aveva niente di geniale da insegnare, ma custodiva le chiavi di tanti scrigni preziosi, dai quali, aprendoli, ognuno avrebbe potuto prendere i gioielli più adatti a sé.
Lui voleva solo aiutare i suoi ragazzi a vincere le paure, a superare lo steccato della superficialità, a difendersi dalla pigrizia, ma occorreva pazienza per riuscire ad accostare il loro mondo.
Tanta pazienza.
Era una sfida.
Sino a qualche anno prima lui era stato un docente “precario”. Dal latino “precarium” = “ottenuto con preghiere”.
Significato etimologico efficace: in effetti lui pregava di poter insegnare, pregava di poter realizzare una vocazione, perché solo per vocazione sarebbe potuto diventare un prof. Dopo una lunghissima attesa era stato immesso in ruolo. L’etimologia di “ruolo” sarebbe dovuta essere “miracolo ricevuto”.
Adesso non gli restava che sentirsi realizzato con i suoi poco più di mille euro al mese.
...e dal momento che a lui dei soldi non era mai importato un granché, non doveva neanche osare lamentarsi.
Guidava piano, ascoltando musica. «Ama la tua vita/non lasciarla andare/ ora è il momento». * Quelle note risvegliavano il buonumore. Una Mercedes gli suonò e poi lo superò rischiando di speronarlo. In quella manovra lesse un chiaro sintomo di nevrosi da stress.
Giunto nell’area di parcheggio della scuola, rimase per qualche istante a guardare quel sonnolento corteo di ragazzi che si trascinavano sino all’entrata: sguardo basso, schiene curve sotto il peso degli zaini. Pieni di cosa poi: di insoddisfazione forse o di solitudine.
Lui aveva sempre pensato ad un nuovo giorno come all’inizio e alla fine di una storia da gustare intensamente e di cui non lasciarsi mai sfuggire il senso. Ma loro questa storia come la vivevano?
Erano attori o spettatori annoiati?
Si chiese cosa avesse potuto accendere il loro entusiasmo. Uno spazio in TV?
Dai compiti appena corretti risultava che, per molti di loro, apparire sullo schermo di quella scatola nera rappresentava un’esperienza emozionante.
Forse vedendosi, ascoltandosi, avrebbero avuto la possibilità di riappropriarsi di un corpo, di ritrovare un’identità.
Quella voglia di protagonismo poteva essere un espediente per richiamare l’attenzione di chi, senza volerlo, li aveva fatti crescere troppo in fretta oppure li aveva viziati e poi dimenticati. Avevano bisogno che gli adulti si accorgessero di loro, che conoscessero i loro sogni più reconditi. A modo proprio e senza voce, desideravano semplicemente denunciare il loro “mal de vivre”.
Chiedevano di gridare «esisto anch’io!»
Li avrebbe voluti vedere incedere lungo quel viale a testa alta.
Avrebbe voluto fermarli ed invitarli a sollevare lo sguardo verso il cielo, ad osservare le nuvole, la luce.
Lassù, proprio lassù, avrebbero dovuto scrivere ognuno la propria storia, imparando a ricercare la verità e a difenderne la condivisione.
Ascolto, comprensione, scoperta, risveglio, azione.
Ascoltare per comprendere, comprendere per scoprire, scoprire per risvegliarsi, risvegliarsi per agire.
Sforzarsi di conoscere i drammi degli altri era un civile atto di solidarietà che poteva aprire la strada alla conoscenza di sé. Stabilire con gli altri un rapporto empatico era il modo più vigoroso per sentirsi vivi.
Vide per un istante gli occhi dei bambini del radio giornale, sentì le loro vite violentate.
Quel giorno in classe si sarebbe parlato di sogni. Lo avrebbe fatto anche per loro. Sogni violati, realizzati, perseguiti.
Sogni da scrivere con l’inchiostro della speranza, sogni da dipingere con i colori di uno spirito che non teme, che non si ferma e che con coraggio tira fuori la voce e la fa risuonare insieme a quella di ogni bambino, di ogni ragazzo, dal Darfur al Polo Nord.
Diritto di gioco, diritto di sogno. Diritto alla vita.
da “Angoli di cielo”, Tiromancino.
Virginia Rizzo