Pensiero, Verità e Realtà (tra realismo e idealismo)

di

Vittorio Varese


Vittorio Varese - Pensiero, Verità e Realtà (tra realismo e idealismo)
Collana "Koiné" - I libri di Religione, Filosofia, Sociologia, Psicologia, Esoterismo
15x21 - pp. 164 - Euro 11,80
ISBN 978-88-6587-0754

Clicca qui per acquistare questo libro

Vai alla pagina degli eventi relativi a questo Autore

In copertina fotografia dell’autore


La conoscenza e le “cose conosciute”: questi i termini di una controversia non ancora sopita che risale agli esordi dell’indagine filosofica e che ha prodotto un ampio raggio di prospettazioni con gli esiti più impensabili: dalla “materializzazione” del pensiero nelle cose alla totale risoluzione delle cose nel pensiero come oggetto di quest’ultimo.
Dunque: pensiero e realtà come termini di un giudizio legato da una condizione: quella di “verità” del discorso.
Di qui un primo problema: il pensiero è irriducibile ai suoi oggetti oppure rappresenta esso medesimo una oggettività comparabile con le “cose”?…


PREFAZIONE

La conoscenza e le “cose conosciute”: questi i termini di una controversia non ancora sopita che risale agli esordi dell’indagine filosofica e che ha prodotto un ampio raggio di prospettazioni con gli esiti più impensabili: dalla “materializzazione” del pensiero nelle cose alla totale risoluzione delle cose nel pensiero come oggetto di quest’ultimo.
Dunque: pensiero e realtà come termini di un giudizio legato da una condizione: quella di “verità” del discorso.
Di qui un primo problema: il pensiero è irriducibile ai suoi oggetti oppure rappresenta esso medesimo una oggettività comparabile con le “cose”?
Le soluzioni prevalentemente affacciatesi nella cultura filosofica contemporanea, particolarmente nell’ambito europeo, mi sembrano ancora legate alla prospettiva kantiana: il pensiero come attività non riducibile ai suoi oggetti e conseguente necessità di ammettere, oltre all’attività pensante, un mondo di “cose in sé stesse”; postulazione che scaturirebbe dalla stessa esistenza di “fenomeni” ovvero di oggetti quali appaiono alla conoscenza e che concretano una “apparenza” dalla quale il discorso è rinviato a “qualcos’altro”.
Com’è noto le conclusioni suddette sono state vivacemente impugnate dalla filosofia idealistica secondo la quale dalla inapplicabilità delle forme della sensibilità e delle categorie o concetti puri dell’intelletto al di fuori dell’esperienza scaturirebbe l’inutilità di questo concetto di “cose in sé stesse” e la totale risoluzione dell’oggetto di conoscenza nell’attività del soggetto.
La scienza contemporanea (e in particolare la psicologia), dal canto suo, considera gli oggetti esterni rispetto alla sensibilità come impliciti già nel processo di stimolazione dei nostri apparati sensoriali con la conseguenza che la loro postulazione deve ritenersi necessaria per l’intelligibilità e il controllo dell’esperienza e tanto basterebbe per considerare chiusa la controversia così sul piano teorico come su quello pratico.
Le tesi svolte in questo libro vogliono essere una soluzione intermedia tra realismo e idealismo; vale a dire una concezione della “realtà per l’uomo” come dimensione propria del pensiero e dell’azione che si concreta in un “mondo” riducibile all’esperienza e alla conoscenza ad essa superposta e acquisita, secondo una prospettiva sincronica, ed evolventesi con le medesime, da un punto di vista diacronico, mediante espansione del dominio dell’uomo sull’essere ovvero sullo “altro da noi” (secondo una idea primitiva che mi sembra oggi imprescindibile).
Dunque: 1) non riducibilità dell’essere totale alla realtà così definita perché su di questa incombe la continua comparsa di nuovi apporti di esperienza anche casuali e soprattutto non riducibili alle facoltà del soggetto di conoscenza; 2) il mondo come “spazio dei casi” in dominio progressivo del pensiero e dell’azione mediante concetti provvisori ed evolutivi e non costanti e astorici come quelli delle filosofie tradizionali.
In questo modo viene a cadere la capziosa argomentazione di provenienza idealistica: intrascendibilità del pensiero come orizzonte e limite della realtà; invece la non riducibilità dell’esperienza alle facoltà del soggetto mi sembra la migliore risposta al suddetto discorso aprioristico a parte la innegabile (a meno di chiudere gli occhi e gli orecchi) componente psicofisica del pensiero medesimo.
Come si vede la controversia è di natura prevalentemente sistematica, se non tassonomica, e riducibile alle rispettive definizioni dei termini di esperienza, realtà, mondo e di essere.
In termini di effettività, pertanto, ciò che dipende dal pensiero non è l’esperienza immediata o fenomenica ma la costruzione logica dell’esperienza medesima; la quale costruzione però non si riduce a una riproduzione fotografica del fenomeno ma rappresenta una oggettività cioè una proiezione del pensiero medesimo sul fenomeno e quindi una realtà di secondo livello superposta ai casi dell’esperienza immediata ovvero al corso fenomenico.
D’altra parte – contro il realismo materialistico che ancora affetta la manualistica delle scienze particolari – va osservato che i referenti delle proposizioni empiriche cioè gli oggetti della conoscenza sono innegabilmente costruiti dal soggetto mediante giudizi che non riproducono una realtà distinta dal pensiero ma che sono indubbiamente creativi e conformativi di una “realtà di secondo livello” nei confronti della realtà di primo livello rappresentata dai casi di esperienza (quest’ultimo come l’insieme delle impressioni del senso esterno come di quello interno: Hume). Questo punto di vista, come è noto, risale all’inizio dell’epoca moderna e rappresenta tuttora l’apporto valido (la c.d. rivoluzione copernicana) della filosofia di Kant ancorché piuttosto travisato da questo medesimo filosofo sotto l’enfasi di una influenza determinante dei giudici sintetici a priori nei confronti dell’oggetto (il fenomeno? o il costrutto logico-razionale?), il quale dovrebbe conformarsi alle leggi che il soggetto impone alla natura; laddove le espressioni caratterizzanti delle scienze empiriche (e quindi i concetti osservativi) in tanto sono validi in quanto ricevono risposte positive dai fenomeni e gli stessi concetti puri dell’intelletto (le “categorie”) non hanno (per lo meno in un breve periodo) potere conformativo nei confronti dell’esperienza ma in tanto possono essere usati in quanto quest’ultima lo consenta (con particolare riguardo al concetto di causa messo in crisi dalle scoperte della fisica subatomica e da una parte della psicologia dell’inconscio: Jung).
Le cose, invece, stanno più modestamente nei termini seguenti: nella formulazione e sistematizzazione delle leggi scientifiche il soggetto di conoscenza include precisamente quei dati empirici (o di esperienza) corrispondenti alle ipotesi iniziali mediante le quali viene strutturato il “campo” del problema e definiti gli “oggetti” di conoscenza scientifica; in questo carattere soggettivo dei “referenti” od oggetti della conoscenza rispetto al dato fenomenico ed immediato consiste la soggettivazione del “mondo di esperienza” (così il campo del movimento viene diversamente impostato in Aristotele e in Galileo mentre molte osservazioni rimangono invariate) e non in un preteso potere del soggetto di conformare o addirittura di imporre leggi all’esperienza medesima quale si manifesta quest’ultima nelle espressioni caratterizzanti (predicative) dei giudizi empirici e dei corrispondenti concetti osservativi sempre legati agli esiti “in facto” sui quali la conoscenza non influisce (a ben vedere tutto si riduce alla sistematica delle definizioni rispettivamente di fenomeno, esperienza e mondo reale).
Pertanto: a) la conoscenza e l’azione mettono capo alla costituzione di una vera e propria “realtà” cioè di una oggettività che si superpone e si confronta continuamente con l’esperienza determinando il sorgere di veri e propri “mondi reali” in quanto la validità “de praesenti” delle produzioni non può essere affermata in modo assoluto e astorico ma ha sempre riferimento alle posizioni culturali pregresse di cui vogliono essere il superamento e in questo consiste la loro verità; b) in ogni caso la “realtà di secondo livello” così acquisita al pensiero e all’azione si risolve sempre, all’uscita dalla medesima, in una “realtà per l’uomo” come emerge dal superamento di posizioni che “pro tempore” apparivano come necessarie e definitive; mentre al di là di questa zona-luce prodotta dal pensiero e dall’azione sulle “cose” si estende il fondo oscuro dell’essere che però non si riduce a una mera idea regolativa ma rappresenta il referente del continuo affacciarsi nell’esperienza di nuovi casi che non sono prodotti o dominati dal soggetto mediante un processo intrinseco al medesimo (come invece l’opposizione Io-non Io di Fichte o la serie triadica di Hegel) ma soltanto razionalizzati “a posteriori”.
In conclusione: la non riducibilità dell’esperienza, sempre risorgente, alle facoltà del soggetto – che non sono soltanto di pensiero ma anche di sensibilità e di azione – richiede l’accesso, oltre la realtà per l’uomo, a una sfera dell’essere che l’attività del soggetto ripropone e sposta sempre al di là delle oggettivazioni provvisorie mediante la proiezione in successivi spazi logici o “mondi reali” delle produzioni acquisite, peraltro non riducibili a una dialettica meramente interna.


Pensiero, Verità e Realtà (tra realismo e idealismo)


PARTE I

PENSIERO, SENSIBILITÀ E LINGUAGGIO

I-1. Introduzione

Che cosa sia il pensiero in senso assoluto indipendentemente cioè dalle diverse attività nelle quali si manifesta e dalle diverse discipline delle quali forma l’oggetto è sicuramente una domanda inutile: le definizioni che se ne possono dare presentano in genere un carattere circolare e si determinano reciprocamente tra coscienza, affettività, mente e intelligenza.
In questa prospettiva si sono avute anche recentemente disquisizioni inutili sullo pseudo problema se possa “esistere qualcosa fuori del pensiero” o se il pensiero per sua natura comprenda e includa in sé medesimo qualsiasi oggettività: pseudo problema1 perché le soluzioni proposte – nel senso della risoluzione nel pensiero di qualsiasi realtà – presuppongono come acquisita una certa connotazione preliminare di che cosa sia il pensiero ed attribuiscono valore esclusivo a quelle che sono soltanto alcune partizioni dell’esperienza coscienziale come le diverse produzioni culturali dell’uomo; nelle quali effettivamente, ma anche ovviamente, il pensiero rappresenta l’orizzonte del discorso.
Per contro in una concezione “computazionale” dell’attività pensante (come quella dei programmi logici e informatici), risalente a Hobbes e recentemente approfondita dall’orientamento cognitivistico in psicologia, viene meno questa difficoltà di principio a porre in relazione gli “stati mentali” con le cose ad esse corrispondenti (Marraffa, 2003, cap. I).
Quello che invece qui interessa, ponendoci da un punto di vista universale ovvero di chiusura delle nostre conoscenze quale sembra essere anche oggi quello filosofico (consapevolezza critica nei confronti della totalità delle nostre capacità di conoscenza e di azione) è individuare i problemi che pone questa manifestazione caratteristica della specie umana (se poi sia anche esclusiva è cosa che vedremo in questo stesso capitolo).
In sintesi: se il pensiero sia materiale quale esplicazione e produzione del sistema nervoso oppure qualcosa di non riducibile alla materia e in questa seconda ipotesi se appartenga a una “sostanza” o entità distinta dagli organi di cui si serve (qui cade il paragone tra lo strumento musicale e il suonatore: Pirandello, Il fu Mattia Pascal); oppure se rappresenti qualcosa come una energia di specie probabilmente ancora non ben conosciuta e capace di reagire sull’organo principale costituito dal cervello; poi, quale rapporto intercorra tra il pensiero e le attività centrali e periferiche della sensibilità mediante le quali il soggetto entra in contatto con l’altro da sé medesimo; infine quale sia il destino (oltre i limiti dell’esistenza) di questa complessa manifestazione dell’uomo che indiscutibilmente ha determinato il suo modo di essere nel corso dell’evoluzione e altresì gran parte del “modo di essere per l’uomo” della realtà intorno a lui medesimo.
Ma innanzitutto ci si può domandare quale sia l’ambito del “pensiero”: se comprenda soltanto l’attività razionale e più ampiamente quelle esplicazioni che chiamiamo tradizionalmente “attività dello spirito” ovvero con un linguaggio più progredito “manipolazione di contenuti simbolici”, come sembrano presupporre non pochi filosofi (particolarmente idealisti) e alcuni psicologi, oppure se si estenda a tutti gli stati e i corsi della coscienza umana e quindi comprenda anche le manifestazioni della sensibilità, della memoria, dell’apprendimento e dei momenti affettivi fino alle tendenze e alle pulsioni che si producono sotto il livello della coscienza secondo l’impostazione generalmente accolta dagli psicologi nelle loro trattazioni e nella prassi terapeutica; al riguardo è stato osservato che non c’è attività della mente che sia indipendente dagli stati affettivi, dai condizionamenti sociali e financo dalle pulsioni irrazionali (Vygotskji, 2007, cap. I; Baroni, 2000, cap.V2).
Pertanto se si tiene conto dell’unità interfunzionale della coscienza nella quale confluiscono momenti sensibili, affettivi, mnestici e intellettivi si rileva improduttiva, come quella che separa una parte dal tutto (Vygotskji, ibidem), la considerazione del pensiero su base esclusivamente intellettuale e culturale (quale si rinviene presso i filosofi idealisti e particolarmente negli scritti di Croce e Gentile) secondo una “angolazione” che conferisce un valore e una posizione di assoluta realtà alle categorie culturali dello spirito.
Quali che siano le risposte che si ritenga di dare o di respingere per queste domande l’importante è riconoscere che non si tratta di problemi privi di consistenza ovvero di “domande insensate” in quanto la loro soluzione si è rivelata non indifferente per il corso delle manifestazioni di conoscenza e di azione della nostra specie e pertanto le condizioni di validità per le risposte alle domande suddette hanno formato tutt’uno con le vicende, i successi e gli scacchi dell’uomo da quanto ha avuto inizio la sua storia.
I-2. La “base organismica” dell’attività pensante

Un primo problema da esaminare è quello del rapporto tra il pensiero e il sistema nervoso nel funzionamento del quale esso si inserisce attivamente e dal quale è indiscutibilmente condizionato come dimostrano gli effetti delle lesioni e delle malattie cerebrali non soltanto sulle specifiche capacità di sensazione e percezione, di memoria e di intelligenza ma anche nei confronti della personalità del soggetto in entrambe le dimensioni dell’unità e della continuità o identità.
Il modello generalmente accettato nella cultura media e nella produzione filosofica che su quella si fonda è infatti quello del cervello come un organo del pensiero che instaura rapporti con l’ambiente di vita, di operazione e di affettività mediante le “vie sensoriali”; infatti esperimenti condotti con soggetti che abbiano recuperato la vista hanno dimostrato la non corrispondenza immediata tra le forme sperimentate al tatto durante la cecità e quelle oggetto di visione; il che sembra escludere ogni idea di “presa diretta della realtà” con l’organo della vista (privilegiato per la specie umana) e risolvere la stessa percezione visiva nelle produzioni di “significati” decodificati dal cervello secondo l’esperienza acquisita mediante le diverse vie sensoriali (Peirce, Helmholtz).
Tuttavia l’opinione oggi corrente, abbandonata l’idea classica e medioevale prolungatasi fino all’età moderna (Cartesio, Leibniz e Wolf) di una sostanza spirituale separata dalla”res” costituita dalla corteccia cerebrale (nella quale indiscutibilmente si radicano le manifestazioni più elevate dell’attività pensante) ammette una certa plasticità o modificabilità del sistema nervoso nei confronti delle manifestazioni della sensibilità, dell’affettività e dell’intelligenza; questa modificabilità del cervello ovvero questo “ritorno” dell’attività sulla materia può oggi essere considerato come qualcosa di più di una ipotesi in quanto rappresenta il presupposto del successo delle attività terapeutiche nei confronti di un ampio raggio di patologie (malattie neuropsichiche e psicosomatiche).
Ricerche più avanzate anche se più problematiche hanno convalidato l’ipotesi di una influenza dell’attività psichica sulle stesse connessioni neuronali o sinapsi (Boncinelli, 2000, cap. III).
Infine sulla frontiera tra linguaggio descrittivo e linguaggio espressivo, tra indagine scientifica e creazione letteraria è stata prospettata un po’ nebulosamente anche l’ipotesi di un nesso sincronico e simpatetico (echi della magia rinascimentale) tra gli episodi del mondo interiore e quelli del mondo fisico, vale a dire di un collegamento tra le due sfere non causale ma neppure interamente casuale in quanto riportabile a una “unità di significato o di “senso” (direzione) e “valore” tra fenomeni psichici ed eventi fisici3”; tesi che sembra trovare una certa conferma in recenti fenomeni di patologia sociale che includono una trasmissibilità intersoggettiva del1’informazione anche a distanze “impossibili” e al disotto delle soglie della sensibilità.


I-3. Il pensiero e la sensibilità

Questo ordine di problemi corrisponde nella filosofia di oggi alla vecchia controversia se nel soggetto esistano idee innate (e quale sia il loro valore di conoscenza) oppure se ogni contenuto mentale sia riducibile ai dati dell’informazione sensibile (e trovi in questa la fonte della sua validità); controversia che ha visto agli inizi dell’epoca moderna schierati su posizioni opposte razionalisti e empiristi e che è stata composta dalla critica kantiana nel senso della preesistenza all’esperienza di “forme della sensibilità” (spazio e tempo) e di “categorie dell’intelletto” (qualità, quantità, relazione, modalità) mediante le quali i contenuti della sensibilità (le “intuizioni” vale a dire le presenze immediate nella coscienza di idee sensibili e di impressioni interiori) vengono collegate in un “mondo di esperienza”; infine, sempre secondo Kant, nel senso della presenza nel soggetto anche di idee generali e regolative della ragione mediante le quali i fenomeni che costituiscono il “mondo di esperienza” vengono ridotti all’unità di certe dimensioni universali dotate di assoluta oggettività e realtà (sempre “a parte subjecti”): anima, universo e Dio.
La sistemazione kantiana ha trovato accoglimento nella scienza psicologica nata nel secolo successivo (curioso notare: contro le previsioni dello stesso Kant) e particolarmente con Wundt che ha proposto una progressione tra sensazione, percezione e appercezione mentale sostanzialmente accolta nella prevalente trattatistica di oggi; successivamente queste posizioni sono state perfezionate da gestaltisti e cognitivisti pur concedendo una importanza più decisiva al carattere formativo ed evolutivo dei fattori di sintesi (strutture della percezione e del pensiero): si ritiene cioè che esistano fin dalla nascita (ma non siano insensibili all’evoluzione della specie umana e delle culture) disposizioni ad organizzare e a sviluppare le idee provenienti dalla sensibilità secondo certe strutture mentali d’altronde non universali né immutabili.
Non è stata conservata, invece, l’idea non chiaramente enunciata ma presente in Kant (e successivamente sviluppata, dagli idealisti), di una “conformazione del mondo di esperienza” da parte delle strutture della sensibilità e di quelle mentali; idea che nelle intenzioni di questi filosofi dovrebbe servire a giustificare 1’universalità e la necessità delle leggi fisiche (assumendosi la definitività di queste allo stato della scienza tra i secoli XVIII e XIX) con particolare riguardo alla categoria della causalità che attribuirebbe carattere deterministico al corso dei fenomeni; laddove, come oggi generalmente si riconosce, è la categoria suddetta che perde significato se il corso non è deterministico vale a dire se è ipotizzabile (contro il principio o legge di causalità) una deviazione (dalle uniformità convalidate nell’esperienza) senza l’intervento perturbatore di uno specifico fattore, con la conseguente risoluzione della categoria causale nella determinazione statistica.
Infatti questa concezione di un potere conformativo del soggetto – nei confronti della fattualità in un mondo valido incondizionatamente come “reale”: quello della scienza fisico-matematica – (la rivoluzione copernicana di Kant) si è dimostrata eccedente la realtà di esperienza e contrastante con i progressi compiuti successivamente dalle diverse scienze compresa quella psicologica.


I-4. Il pensiero e il linguaggio

È indiscutibile che il pensiero umano permette di determinare connessioni anticipate tra gli eventi prima del loro verificarsi e anche in vista della stessa possibilità del loro verificarsi; ciò è avvenuto mediante la costituzione (non originaria ma acquisita lentamente) del “mondo dei segni” e più precisamente dei “segni bilateralmente intenzionali” valevoli cioè interattivamente per il soggetto che produce e per il soggetto che li riceve; i quali “segni intenzionali” riguardati come comprensivi del significato sul quale convergono le pretese e le attese delle parti prendono il nome di “simboli” e considerati nella loro sistematicità e produttività per una comunità di soggetti ne costituiscono il linguaggio.
Queste constatazioni (oggi divenute acquisite) hanno indotto non pochi filosofi e scienziati (in particolare Wittgenstein ma con idee risalenti a Hobbes, poi i comportamentisti in psicologia) a identificare pensiero e linguaggio anche nelle manifestazioni più interiori di entrambi: il pensiero compiuto e produttivo si identificherebbe con l’unità elementare del linguaggio (rispetto ai valori di “vero/falso”) costituita dalla proposizione; tutto ciò in dissenso e opposizione dalla concezione classica (pervenuta fino a Kant) di un pensiero già costituito (il “giudizio”) che viene trasmesso o comunicato per mezzo del linguaggio considerato come manifestazione verbale o scritta corrispondente a un pensiero già perfezionato.
L’assunzione suddetta di una parte della filosofia linguistica per quanto legata alla preponderanza del pensiero proposizionale per le comunicazioni sociali nell’ambito di culture tecnologicamente sviluppate, non sembra meritevole di accoglimento; infatti è di comune esperienza l’esistenza di un pensiero non articolato in simboli come avviene quando pensiamo “verbalmente” (cioè con parole non pronunciate foneticamente) a un oggetto o argomento che però ne presuppone un altro non esplicitato in parole cioè presente alla coscienza ma non svolto in simboli verbali: per es. se diciamo mentalmente “questo non è il caso di un affare precedente” il quale ultimo fornisce la materia al pensiero attuale senza però consistere in riproduzioni mentali di immagini sensibili e in particolari fonetiche.
Inoltre quest’ultimo piano si può assumere come sicuro che l’insight – con il quale, secondo i promotori e i continuatori della Gestalt,vengono avviati a soluzione i problemi – emerge nella coscienza secondo processi non proposizionali non ancora completamente chiariti (le associazioni e le disposizioni di idee a formarne delle altre vi hanno una parte preponderante: il”contesto della scoperta”) che soltanto in un momento successivo e convalidativo vengono tradotti in catene proposizionali (il “contesto della giustificazione”).
Infine da un punto di vista storico-culturale l’autonomia del pensiero dai mezzi linguistici sembra confermata dalla capacità dei matematici e degli scienziati sperimentali antichi di eseguire calcoli complessi anche con un algoritmo matematico inadeguato (partic. Ipparco e Archimede).
D’altra parte la psicolinguistica contemporanea non accetta neppure la concezione di un pensiero separato dal linguaggio vale a dire inteso come attività preformata che sarebbe “manifestata” o “esternata” da quest’ultimo; si tratta, invece, di una “unità interfunzionale” nella quale il linguaggio integra e unifica l’attività dell’intelligenza dirigendola verso la soluzione dei problemi mediante la formazione di concetti che sono sintesi di simboli e di significati (Vygotskji, cap. I e V): il linguaggio (particolarmente quello verbale) accresce la “potenza” del pensiero in quanto trasferisce la sua produttività dagli oggetti concreti di esperienza, transeunte e provvisoria, a simboli plurivalenti e a rapporti collegati funzionalmente a problemi mediante la corrispondenza tra le operazioni sui simboli e quelle sulle cose.
Sembra quindi preferibile l’opinione che riconosce al pensiero una certa autonomia dal linguaggio o meglio una determinazione interattiva tra queste due funzioni con prevalenza della prima che utilizza e supera le codificazioni linguistiche in vista di nuove espressioni ed espansioni; in questo senso può riconoscersi validità alla intuizione di Gentile circa una eccedenza dell’attività pensante nei confronti del contenuto pensato e tradotto in un linguaggio di livello inferiore.
Infatti è indubbio che a partire dal “periodo storico” dell’evoluzione umana (convenzionalmente datato dal manifestarsi di forme di scrittura) il linguaggio si inserisce in tutte le attività e relazioni con l’ambiente e che i suoi significati, individuando le “cose del mondo” nei referenti dei segni, concorrono a formare il mondo medesimo (come esattamente intravisto da Peirce, non esattamente inteso da Mazzone, 2005, cap. I-2) che è poi il “nostro mondo” (come vedremo nella terza parte di questo scritto); da questa realtà (di secondo livello nei confronti dell’esperienza immediata), che è una costruzione umana, i simboli ritornano sullo stesso livello del “vissuto” e in particolare della percezione visiva, tattile, e uditiva traducendo in fatti e cose i rendimenti percettivi; ciò perché per effetto del linguaggio si modificano quegli “schemi anticipatori” che concorrono a formare gli oggetti della percezione e la stessa realtà “materiale” (Neisser, 1993, cap. IV).
Invece le “grida” degli animali corrispondono in via generale alla manifestazione di stati emotivi e non all’indicazione di un fatto o di una cosa (ma la demarcazione non è così netta: v. esempi in Mazzone, cap. III-3); non si rinviene cioè l’oggettivazione delle idee e dei sentimenti per mezzo dei simboli vale a dire dei significati dei “segni” facenti riferimento a fatti, cose e situazioni, anche soltanto possibili e future, sebbene sussista anche per gli animali una trasmissione e comunicazione di stati mentali (ma con riferimento a esperienze immediate).
Il linguaggio, invece, comincia ad esistere quando i segni (fonetici o gestuali) sono usati in funzione anticipatoria di fatti circostanze e situazioni future e/o possibili e concorre a creare un piano di realtà successivo a quello delle percezioni e delle azioni presenti.
In conclusione: pensiero e linguaggio sono due funzioni distinte interagenti nell’organismo fisiopsichico dell’uomo; il pensiero supera il linguaggio e si avvale di esso (Guillaume, 1972, cap, XVIII).
Una questione più particolare ma legata a quella che abbiamo appena illustrato è quella se il pensiero razionale o concettuale sia dipendente dalle immagini sensibili (visive, fonetiche, tattili) oppure se possa svolgersi mediante un algoritmo di pure trasformazioni mentali senza doverle connettere a quelle: la psicologia contemporanea e la scienza linguistica propendono per la seconda tesi in quanto la pratica delle indagini razionali ha dimostrato la possibilità di una manipolazione di contenuti simbolici senza riferimento diretto ai dati sensibili (si prenda ad es. un testo di logica simbolica o di matematica astratta); questo risultato però è possibile entro un terreno o “sfondo” di contenuti mentali acquisiti e non controversi vale a dire mediante presupposizione di un “contesto sensibile di riferimento” sul quale sia rinvenibile un generale accordo (e qui ritorna l’autonomia del pensiero dal linguaggio della quale abbiamo già detto) mentre ai margini di questo “mondo o universo del discorso”, convalidato allo stato dello sviluppo culturale, riprenderebbe vigore la necessità di collegare i processi mentali, che modificano l’oggettività acquisita, ai dati sensibili aventi carattere di novità (Guillaume cap. XIX).


1 Vedi per questa problematica le considerazioni svolte da Severino in ordine all’idealismo e alla fenomenologia: La filosofia contemporanea, Milano, ed. BUR. 2000 (parte XIV e XVII)

2 Si noti che in difformità da questo assunto, esattissimo sul piano reale, BARONI propone di limitare il “pensiero”, sul piano della sistematica di questo concetto, alle capacità di simbolizzazione e concettualizzazione (Sintesi, cap. IV, par. 5). Per le ragioni accennate nel testo mi sembra preferibile la concezione e la sistematica interfunzionale dei rapporti tra sensibilità, intelligenza e affettività (svolta da Vygotskji, loc. cit.) pur senza negare che rispetto a particolari problemi (come la formazione dei concetti e i processi dell’intelligenza in generale) può essere conveniente adottare la nozione più ristretta.

3 Vedi Jung, La sincronicità, Torino, ed. Bollati Boringhieri, 1980, cap. III.


Se sei interessato a leggere l'intera Opera e desideri acquistarla clicca qui

Torna alla homepage dell'Autore

Il Club degli Autori - Concorsi Letterari - Montedit - Consigli Editoriali - Il Club dei Poeti
Chi siamo
La Rivista
La voce degli Autori
Tutti i nostri Autori
Per iscriversi
ClubNews
Il notiziario gratuito
Ultimi inserimenti
Homepage
Per pubblicare
il tuo 
Libro
nel cassetto
Per Acquistare
questo libro
Il Catalogo
Montedit
Pubblicizzare
il tuo Libro
su queste pagine