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Vladimir Holan


Articolo di Massimo Barile – Rivista Club degli autori n° 167-168-169-170 – Febbraio 2007


Vladimir Holan: «Un Poeta in acrobazia nella continua ronda notturna del cuore»

Avete qualche volta asciugato una lacrima, sentendo il poeta che recitava una poesia e dava voce e calore al fermento del vostro cuore? Questo chiedeva un grande oratore. Le rare volte che ciò è accaduto vi siete trovati davanti all’arte. Ecco l’indefinibile ciceroniano, il divinum quoddam. La parola porta con sè un alone divino, non ha bisogno del consenso generale, non deve assecondare ma formare l’animo: la parola ha sempre pagato col sangue la propria libertà ed ha avuto i suoi martiri. Il silenzio sovente accomuna il pensatore e l’imbecille, solo la parola è misura dell’intelletto. La parola è luce e lascia vivo il ricordo.
La poesia ha un’unica implacabile condizione: deve essere amata. Holan dirà di più: «Nulla è lecito senza amore. Neanche morire è lecito senza amore». Le regole dell’ingaggio sono inevitabili: l’uomo deve portare con sè una grande responsabilità interiore, non ha diritto ad accampare scuse o giustificazioni, deve avere una visione di tutto ciò che lo circonda «senza riguardi», deve “parlare duro, tenere duro”, deve alimentare quel mondo interiore rivolgendolo all’eterno «dove qualsivoglia confine e dimensione sono impensabili, perché infiniti»; destreggiarsi in questo mondo alla ricerca continua dell’“arcana sostanza dell’uomo” e, come a raggiungere una sorta di liberazione, «potrà produrre e presentare un’opera con un incommensurabile imprimatur d’amore o di piena ira».
Tutta la vita di Holan è il monologo di un uomo solitario con la sua visione “dura” della vita, una durezza prima di tutto “verso se stesso”: ed è proprio quella solitudine che fornisce le innumerevoli «connessioni tra il tetro subconscio», l’esistenza poetica e il senso del vivere.
Quel suo trasferimento sull’isola di Kampa al centro di Praga nel 1948 è l’atto cruciale con il quale Holan realizza in concreto ciò che aveva già preannunciato, circa un decennio prima, quando aveva fissato il suo pensiero poetico filosofico: “anelare ad un isolamento necessario”. «Strappai la maestria fogliacea delle parabole variopinte e mi rinchiusi con i semplici cerchi della solitudine che non conosce scuse… Non è che io mi stia ostinatamente racchiudendo ed ermeticamente imbozzolando in me stesso, ma è che anelo a un isolamento assolutamente necessario… E l’isola è isola. Isola dell’accanimento, dell’ossessione… Incrocerò le parole…».
Non v‘è dubbio che il suo isolamento è volontario, per una «sua esigenza interiore»: non uscire quasi più di casa, davanti ai propri occhi il “muro”, e poi la spontanea autoreclusione, la chiusura, la segregazione, le parole carpite al vuoto, il significato primigenio delle parole estratto da una voce intima che pervade la casa della Città Vecchia di Praga, il luogo che gli amici chiamavano Holanesia.
Oltre il fragore della vita, davanti all’inevitabile trionfo della morte, in un ventaglio poetico che nasce a lume d’agonia per cercare di strappare l’ultima lama di luce prima che tutto cada nell’abisso dell’abisso, quasi d’incanto emergono le “parole” come creature della mente d’un poeta: scavate, scrostate, ricercate in una metaforica «grotta delle parole» universale che tutto comprende e tutto incorpora. Ecco il viaggio “stando fermi”, l’avventura nell’enigma dell’esistenza, nelle notti costellate da visioni, e l’uomo rimane volontariamente “solo”, recluso in un’isola che diventa oasi mentale, luogo della mente, oltre la reale percezione delle cose, oltre il quotidiano vivere. Eppure, quasi miracolosamente, il poeta è sempre in “viaggio”, come una nuvola che si muove di continuo.

In una notte come tutte le altre, muovendosi come un sonnambulo, a certificare il “silenzio” del tempo, a volte surreale visionario altre volte tenebroso fino a colmare il vuoto, e poi il sogno d’un luogo dove essere unica presenza attiva e la parola con cui fare i conti, e quell’affermazione «Io sto qui, voi non siete che di passaggio» fa del suo corpo di poeta il fulcro del mondo, tra lirismo e visioni, fino ad immedesimarsi con quel diluvio di appunti, annotazioni fulminee, metafore e impulsi d’un uomo che vive una propria dimensione, al di fuori.
La mano che scrive, mentre le pulsazioni del cuore sibilano che “scappare lontano non serve”, con una poesia che frantuma e scuote le viscere, tra vita e morte, tra stato precario e condizione di uomo deluso, in bilico tra l’irripetibile e l’ispirazione notturna nell’umano vivere d’un poeta immerso nella realtà del tragico come un mago che cerca di svelare l’enigma della parola e avanza nel suo percorso solitario portando con sè la presenza occulta della morte.
Come della sua amarezza «non ha colpa l’assenzio» così «il vento ha smarrito la ragione» ed è forse meglio guardare al passato piuttosto che affidarsi «all’antro dell’oracolo»: in questa vita si fanno i conti con la vanità infinita, la notte più lunga, il futuro «senza sole» con i demoni nell’oscurità a rinnegare i “nostri sensi”.
La visione della sua “isola” diventa “sogno ad occhi aperti” perseguito fino a scrutare l’imo dell’animo e l’ultima parola “da sempre rimandata, fino a renderla inutile”, in fondo non è che il vero motivo d’ogni gesto, d’ogni poesia scritta, mentre finalmente la polvere si alza dai fogli sparsi qua e là per decenni, eppure, nonostante tutto, la vita “contro di noi si rivolge/minacciosamente” e il suo “sguardo oltre l’angolo” vede sempre un mondo provvisorio dove dominano le ombre: «sempre e ovunque si nasconde la rovina/dietro il presentimento della distruzione…».
L’abisso dell’abisso conduce alla constatazione «che poche cose danno pace all’anima/prima che sarà tardi,/con il tempo che affrettando il passo/arretra…/Le spire del serpente del sesso/stringono il midollo spinale a un tal segno/che bluastri si fanno anche i pensieri…/L’albero nel paradiso era solo di un cubito più alto/ma l’intero paradiso era più alto:/una cima senza fondo…».
Da questo abyssus abyssum nascono la veemenza e l’urlo, prendono forma le tracce del gioco della vita che non esita a nascondersi, sgorgano le lacrime davanti alle stelle, torna alla mente la neve sognata da ragazzo: e si sprigiona il funambolismo verbale, l’ammiccante parola e il sofferto sguardo dalla “porta” socchiusa dell’anima, il pensiero occultato tra l’erica e la nebbia in un bosco primordiale dove «qualcosa attinge di nuovo vita nella vita». Il respiro vitale d’un poeta che scrive: «la voce divina/è solo superficie di silenzio/sotto la tirannia del nostro udito…» «la stessa terra afferma/nessuna costruzione arriverà al termine,/mai, mai arriverà,/senza la dimensione trascendente».

La sua poesia comprende e fagocita tutto: il senso della vita, il dolore, l’amore, la transitorietà del nostro vivere, la fatuità di molte cose, l’assunzione delle proprie responsabilità prima di uomo e poi di poeta, il valore della poesia che nasce dall’esilio dell’anima e la parola che si alimenta incessantemente nel dispiegarsi enigmatico della vita quotidiana: ma il poeta Vladimir Holan (conosciuto per la prima volta fuori dai confini del suo Paese grazie alle traduzioni di Angelo Maria Ripellino), considerato qualche tempo fa da Milan Kundera “il più grande poeta ceco di questo secolo”, e sicuramente da annoverare tra i più importanti della poesia europea del Novecento, è il “poeta murato”, prendendo a prestito il titolo dato ad una raccolta di suoi versi dai curatori Vladimir Justl e Giovanni Raboni. E la realtà dei “muri” sarà testimoniata in numerose poesie come a dimostrare la volontà di Holan di combattere per ricercare il segreto della vita e della morte e, come scrive Vladimir Justl «espugnarlo in uno spazio delimitato e circoscritto». Il “muro” come simbolo e come metafora, “una delimitazione dello spazio in cui si svolge il dramma dell’esistenza umana”. Dentro i muri parla Amleto nel frammento Notte con Ofelia, i muri delimitano, «il muro non si persuade a non esistere» mentre il poeta ascolta «dietro la porta delle visioni». «Ecco che cos‘è fedele: il muro che si sgretola,/ma non è da solo in questo,/poiché si sgretola anche con la statua/che in cima reca…»: la realtà è un lento sbriciolarsi, il temporaneo esistere viene reso splendidamente in versi scarnificati, senza concedere nulla all’orpello, anzi, frantumando e dilaniando ciò che sprofonda nel nulla, utilizzando frammenti recuperati da un mondo personale d’un uomo che fa della poesia la parabola della sua vita.
La sua poesia può catapultare nella vertigine, far fluttuare come in una sorta di sospensione esistenziale, avvicinare alla pura astrazione, carpire l’inafferrabile e rendere visibile ciò che è nascosto dietro il muro della vita, dietro il tragico del teatro, in un vortice di parole che diventano reperti esistenziali/sostanza vitale, estratte a piene mani dall’abisso «quando anche l’eternità sprofonda dentro il nulla».

***

La parola è sempre sorvegliata in un continuo stillicidio mentre la vita continua e, come scrive il poeta, «si balla e si beve». Il linguaggio di Holan è difficile, a volte misterioso, altre volte affascinante, sempre implacabile nell’inchiodare l’uomo alle verità essenziali, capace di rivestire la parola di un valore rigenerante e d’un significato liberatorio e, sovente, decifrare alcune poesie tradotte in italiano, rende necessaria una forte capacità di percezione, quasi di fusione con le intenzioni che hanno spinto il poeta a scrivere determinate composizioni. Occorre tuffarsi nel testo per assaporarne ogni movimento, i perentori guizzi, le trame verbali, le frammentazioni, le parole solide come la pietra, le verità senza riguardi ed è fondamentale entrare in contatto con l’essenza più profonda del suo linguaggio dove forse è celato un lacerto di verità che il poeta cerca nella sua libertà solitaria. Solo nel momento in cui si giunge a confrontarsi con la “condizione di uomo” di Vladimir Holan si scopre il senso di una storia drammatica che viene raccontata in frammenti d’armonica disarmonia.
Sulla sua concezione del “senso di scrivere poesia” così scrive Holan nel 1963: «Un poeta riporta alla luce anche ciò che la gente non vede, che è ai loro occhi immerso nella cortina. Ci siamo abituati. L’abitudine uccide tutto. Ho provato a fare del verso libero una nuova espressione. Venuto fuori dalla poesia metrica, poi dallo studio del verso libero, ho perseguito il suo impulso metrico, le sue varianti e mutazioni. Abbandonando sempre più il metro, ho raggiunto il ritmo interno delle immagini, la loro coerenza causale, la loro reciproca dipendenza. Come anelli di una catena. Si trattava a questo punto di un’altra interna armonia, non di un’armonia tonale, per questo ho adottato il termina “armonia atonale”.
Nel perseguire il suo intento e nel riportare alla luce ciò che è nascosto, nella mente del poeta si assiste ad una deflagrazione, un dolore del pensiero, una solitudine che spera di catturare il respiro della verità; la paura se ne va con i suoi segreti, il cuore appare sferzato e l’uomo sembra vivere in un enigma sempre sottoposto al rischio d’amore: può abbandonarsi avendo una speranza ma «senza amore»... «Ma se anche d’amore può essercene troppo. Ma se/a tempo debito ci riprendiamo e mentiamo, senza saperlo./Ma se è la crudeltà dell’amore, poiché esso/ vuole la rovina propria… Ma se gela e tu sei in un golfino/smangiato dalle tarme…» dobbiamo constatare che, in fondo, siamo soli, lontani da noi stessi, «poiché nel ricevuto c’era già anche il rifiutato».
E l’alba si incontra con il tramonto, la cecità con la vista della disperazione, «se te ne andrai a camminare in una tempestosa notte d’inverno… sentirai l’angoscia che attinge all’attesa, attesa di un’angoscia più alta».
Fino a scrivere: «Non vi è scampo. Il destino non ha bisogno di abituarsi nè di disabituarsi, esso condanna. E’ allo stato puro lui…». Ecco l’ennesima e straordinaria presa d’atto: dopo il giudizio universale non ci sarà appello…

La forza dirompente d’un uomo costantemente sull’orlo dell’abisso, d’un poeta caparbiamente isolato per tentare, nel miglior modo possibile, di avvicinarsi al senso autentico delle cose, conduce Vladimir Holan verso la ricerca della verità «anche se dovesse essere l’inferno» anche se dovesse costare l’ultima goccia di sangue, l’ultimo pensiero, o anche l’ultimo suono udito nel vuoto d’una “casa isola” dove cercare, testardamente e dannatamente, di fare luce, nei giorni della propria vita, con la sola poesia, unicamente con una poesia scritta/recitata/ vissuta/amata perché «la poesia dovrebbe liberare. La poesia recitata dovrebbe creare un’atmosfera, se mette i brividi e se ci sono parole dette, che non dette ci avrebbero soffocato… È un problema di tensione interna, di un interesse individuale di colui che legge. Il problema di creare un contatto tra lettore e ascoltatore, uno spazio comune per la principessa poesia».
Ecco allora che quel dialogo del poeta con se stesso in Una notte con Amleto, in una triplice veste nello stesso momento, la voce del poeta, la voce di Amleto e quella di un antico cantore, non è altro che la volontà di contemplare ciò che accade davanti agli occhi dell’Uomo cercando un personale ed originale approccio, un modo nuovo d’intendere, non usuale, non banale. E il poema è lo specchio fedele della vita di Holan, l’impulso dell’anima, la mente e il cuore vibranti.

***

Vladimir Holan è il poeta che un giorno ha affermato con convinzione che gli interessava di più il rovescio degli arazzi, con tutto l’intreccio dei nodi, che non il diritto perché il rovescio rappresenta le possibilità offerte come ricorda Vladimir Justl.
La raccolta In progresso, che raccoglie le poesie dal 1943 al 1948, termina con parole che sembrano provenire da un altro mondo, quasi pronunciate da un uomo poeta-filosofo disperso in un’atemporalità: «Nulla può assolvere il poeta, nemmeno la sua morte./Eppure della sua rischiosa esistenza/restano qui sempre e ancora, ma come se in più/alcuni segni. E in essi/ non c‘è perfezione, invero, anche se fosse il paradiso,/ma veridicità, anche se dovesse essere l’inferno…»
Ma… quando il giorno ne ha abbastanza della sua furia, quando si può dire di «essere agli estremi», quando già si presagisce che il volto nero della morte è vicino al trionfo, è proprio allora che il poeta illumina con la sua parola, scatena il bagno di fuoco, perché solo la parola può offrire frammenti di verità e di eternità: «La neve cominciò a cadere a mezzanotte. Ed è vero/che si sta meglio in cucina/anche se fosse la cucina dell’insonnia./V‘è caldo, ti cuoci qualcosa, bevi del vino/e guardi dalla finestra l’intima eternità». C‘è sempre un momento in cui negli uomini che hanno vissuto della parola che s‘è fatta arte, si insinua il bisogno del silenzio: di quella quiete dopo il fragore della parola, dopo le gioie e i dolori, dopo i trionfi e le cadute. E in quel silenzio, sia esso d’una casa dove si può anche ricercare l’esilio della mente, d’una biblioteca dove leggere un poeta, o magari nell’ovattato silenzio della neve d’un inverno praghese si possono scorgere lampi eterni con cui s’insaporano i giorni della nostra vita. Ma le ali d’un poeta sono grandi ed il suo respiro può essere un boato fragoroso: la sua parola abbatterà il muro.
Sic itur ad astra.

Massimo Barile



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