Trilogia della crescita

di

Andrea Listanti


Andrea Listanti - Trilogia della crescita
Collana "I Salici" - I libri di Narrativa
12x17 - pp. 48 - Euro 7,50
ISBN 978-88-6587-8248

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In copertina: «Dialogo segreto» illustrazione di Giovanni Sebastiano Marzi


Pubblicazione realizzata con il contributo de IL CLUB degli autori in quanto l’autore è finalista nel concorso letterario «J. Prévert» 2017


Che cosa significa crescere? Andrea Listanti prova a spiegarlo con tre racconti, tre istantanee che fissano tre diverse fasi della giovinezza: l’adolescenza, con i suoi complicati turbamenti emotivi; i vent’anni, sospesi in un eterno presente, senza ieri né domani; i venticinque anni, dove la spensieratezza sta già cedendo il posto alla gioia malinconica dell’affacciarsi all’età adulta. Sullo sfondo, la Città Eterna con il suo fascino metropolitano decadente, tra lo sfolgorìo del passato e la trascuratezza dei moderni paesaggi urbani.


Trilogia della crescita


Due ragazzi

Arrivammo dunque alla collinetta erbosa. La pioggia del giorno prima l’aveva resa scura e a tratti fangosa, che le scarpe ci affondavano dentro e si sporcavano tutte di marrone. Ma noi ci andavamo lo stesso. Valentino mi precedeva: camminava sull’erba con passi lunghi. Le mie gambe, corte com’erano rispetto alle sue, faticavano a stargli dietro. E io non capivo perché avesse tanta fretta. Ogni tanto mi fermavo a guardarmi intorno, e a farmi investire da un po’ di vento autunnale; lui invece voleva soltanto arrivare in cima alla collinetta, nemmeno gli avessero dato un premio se ci fosse arrivato prima di me. Il vento gli muoveva i boccoli in testa, e sembrava ogni secondo disegnargli il volto come fanno quelli col cavalletto e il carboncino a piazza Navona o da quelle parti. Lui non ci faceva caso: manteneva un’aria imperturbabile, che avrei detto serena.
E camminava. Dalla cima del montarozzo si vedeva l’acquedotto all’orizzonte, e i campi coltivati oltre i quali il sole sarebbe tramontato, verso le cinque e mezza o giù di lì. Sullo sfondo, i monti romani dominavano quella nostra valletta raccolta intorno ad una stazione della metropolitana. In lontananza, con un po’ di fantasia, potevi sentire il rumore dei treni che andavano ad Anagni. Li potevi anche vedere mentre passavano, più che altro se riuscivi a notare che i colori di una fascia di campagna che di solito erano gialli e verdi come tutto il resto diventavano un po’ più scuri per un po’ di tempo. Tutte queste cose Valentino le stava probabilmente già guardando. Io in cima alla collinetta ci dovevo ancora arrivare, eppure non mi andava tanto di raggiungerlo. Non ero mica il suo cane, in fondo, così mi fermai a metà della scalata, in un punto dove l’erba non era nemmeno tanto zuppa. E mi accasciai sulla schiena, perché si faceva fatica a stare in piedi sul pendio. Mi reggevo coi gomiti. Ero abbastanza in alto per poter guardare oltre i bandoni di metallo che circondavano il cantiere nella zona tra la circonvallazione e l’area industriale che si estendeva verso sud. Stando a livello della strada, l’unica cosa che appariva erano gli alti fusti colorati delle gru, per il resto si poteva soltanto immaginare che cosa ci fosse al di là di quelle recinzioni che erano grigie come l’asfalto, ma più lucenti, soprattutto dopo che pioveva, e le gocce d’acqua facevano rimbalzare i raggi del sole da tutte le parti.
Quando ero piccolo e mi mettevo a guardare quel muro che sembrava colorato con la matita pensavo che un giorno qualcuno lo avrebbe abbattuto, e dietro sarebbe apparsa che ne so, una casa, un palazzo. Ma adesso che guardavo il cantiere dall’alto mi rendevo conto che in fondo tutte quelle gru colorate non è che servissero poi a tanto. Erano dodici anni che venivo a sedermi su quella collinetta, e non era successo niente. Non c’era altro che un fosso e un terrapieno. Verso sinistra, superato il marciapiede, c’era un gruppo di abitazioni di gente che non se la doveva passare tanto bene, a giudicare dai panni stesi sotto le finestre socchiuse. Già il fatto che fossero così alti quei palazzi non mi dava l’impressione che dentro ci potessero vivere persone ricche: saranno stati sette-otto piani, ognuno con una lunga fila di finestre attaccate l’una all’altra: dentro ci doveva stare proprio un sacco di gente. E che diamine un ricco avrebbe potuto comprarsela un po’ di solitudine, per come la vedevo io.
Pensavo a questo, ma mica tanto, perché volgevo lo sguardo ancor più a sinistra, fino al limitare dei giardinetti sulla strada. Ciò che mi colpiva maggiormente e ogni volta, per quanto spesso mi soffermassi su quello scorcio, erano i resti di una cabina telefonica messa lì dieci anni prima o una cosa del genere, e distrutta piano piano da qualche zingaro che si trovava a passare. Non ricordavo se ci avessi messo del mio ma non mi avrebbe sorpreso, comunque. Di quella cabina era rimasta in piedi soltanto l’anima di ferro: tutta quella plastica rossa con sopra la scritta Telecom non esisteva più. I vetri avevano cominciato a spargersi sull’asfalto a piccoli pezzi da quando avevano cominciato a sfondarla, la maggior parte li avevano portati via, eppure qualche frammento rimaneva ancora, per chiunque si fosse preso la briga di andarlo a cercare là intorno. Poco lontano, nella direzione dell’orizzonte e poi un poco a destra, esclusa alla vista, c’era casa mia.
– Andrè! – La voce di Valentino irruppe tra il soffiare del vento e il rombo di qualche macchina per la strada, che per noi erano suoni così consueti e ripetitivi da essere essi stessi silenzio. Non risposi. Davamo ancora le spalle l’uno all’altro.
– Ndo stai? Perché te sei fermato? – disse lui mentre si voltava. Ancora non mi giravo. La voglia di rimanere in quella posizione superava il desiderio di guardarlo.
– Sto a guardà da sta parte. – Non mi veniva in mente nient’altro da dire.
– E guarda, guarda! – mi fece lui, e pareva deluso. Mi guardava dall’alto, io non lo potevo vedere però lo immaginavo. E stavolta avrei voluto girarmi, per quella nota di tristezza che avevo colto nella sua voce. Girai appena appena il collo, rimanendo con i gomiti nella stessa posizione. Vedevo solo una parte di lui, quella che partiva dal piede sinistro e percorreva il fianco fino alla massa scura dei capelli che copriva l’orecchio, l’altra no perché gli occhi non ci arrivavano. Immaginavo anche quella.
– Aho! – gli gridai, poi distolsi un attimo lo sguardo. – Te sei fatto ’na corsa pe’ arrivà in cima…
– Sei te che nun me sei venuto appresso. Io t’ho pure aspettato. – rispose lui di scatto, come se se lo fosse preparato da prima. Non mi andava giù questa cosa. Lo sapeva che andavo più lento e si era messo a correre. Il vento continuava a fischiarmi nelle orecchie ma ormai ero diventato indifferente. Valentino non mi guardava più, io gli guardavo la schiena e aspettavo che si girasse. Invece rimaneva fermo.
– Daje Valentì… girate! – gli feci. Cominciavo a stufarmi di stare da solo dalla parte scoscesa della collinetta.
– Sto a guardà da ’sta parte. – mi disse lui. Mannaggia a quando faceva così! Sembrava che se li andasse a cercare, i cazzotti. Ed era fortunato che io non ne sapevo niente di come si picchiano le persone, perché altrimenti le avrebbe prese più di una volta, sulla collinetta. Mi ero rivoltato completamente e adesso ero sdraiato a pancia in giù. I jeans finivano di tingersi di verde e la felpa si inzuppava sempre di più. Anche i gomiti cominciavano a farmi male a forza di spingerli contro il terreno per stare in equilibrio. Feci per alzarmi. In quel momento Valentino si voltò e incrociammo lo sguardo. Altro che cazzotti, gli avrei dato, a quel ragazzo che mi faceva venire il mal di stomaco a forza di starlo a guardare. Non c’era niente di violento nella mia testa eppure era tutto così sbagliato e io non sapevo il perché.
– Me parì ‘n quadro, Valentì, così cor cielo de dietro. – Il cielo faceva da sfondo alla sua figura, e a me era venuto in mente un quadro che avevo visto in un libro di scuola, la settimana prima o quell’altra ancora, forse perché lo guardavo dal basso verso l’alto.
– E come te sembra ’sto quadro? – disse.
– Me pare fatto bene. – dissi io. Lui mi fece un sorriso. Certe volte mi sorrideva e a me sembrava come di starlo a corteggiare. Sorridevo anch’io. Spostai tutto il peso sul palmo della mano sinistra e mi tirai su, in piedi, facendo ricadere i fili d’erba che mi si erano posati addosso. Mi strofinavo i gomiti e cadevano fili d’erba anche da lì, oltre a qualche granello di terra. Infine sfregai le mani l’una contro l’altra e mi tirai su i pantaloni che nel frattempo mi erano calati sulle gambe. Adesso mi guardava con quei suoi occhi grandi che l’erba aveva tinto di verde: rimediavano alla luce del sole che tramontava. E quello sguardo faceva tendere il mio corpo al suo. Odiavo dovermi ritrarre col fiato chiuso nel torace, ogni volta mi sentivo spinto da quella strana forza. Mai avevo mosso più di un passo incontro a lui e mai guardandolo in faccia. Solo da un lato, quando proprio non ce la facevo più a restare solo con i miei pensieri, e magari l’aria era un po’ più eccitata del solito, con paura e vergogna, gli posavo le mani addosso. Cercavo un lembo di pelle nuda, e desideravo che oltre alle mie mani ci fossero le labbra. Ma quelli erano pensieri che avrei dovuto cacciare via per sempre invece di stare lì a rodermi.
– Che fai me guardi? – gli dissi, perché non sopportavo che il silenzio tra di noi durasse troppo a lungo.
– Perché? Non posso? – rispose lui, e continuava a fissarmi, e io non sapevo se lo facesse apposta o no. Eppure era chiaro che non lo faceva apposta, e che quella passione era soltanto nella mia testa. Ma forse questo non mi andava di pensarlo. E invece di smettere continuavo, e lo sognavo ancora e ancora. E se anche dentro di lui ci fosse stato quel desiderio proibito? E se non ero l’unico a volere il mio amico invece di una ragazzina che parlava a vanvera e che non aveva niente di bello? Pensieri che non duravano più di un istante, ma continuamente tornavano a ronzarmi intorno come zanzare. Mi faceva quasi ridere che ci potessi sperare davvero. Eppure alla collinetta ci andavamo sempre in due, io e lui, e nemmeno lui avrebbe voluto andarci insieme a qualcun altro che non fossi io. E poi mi guardava sempre… allora forse anche lui provava la stessa cosa! Forse non ero così diverso dagli altri, e magari lo stesso coraggio che mancava a me mancava a lui! Ma no… no… aveva già girato la testa. Un ragazzo non lo ama, un altro ragazzo.
Capitava di trovare qualche rana o qualche lucertola sul pendio opposto della collinetta, e allora ci mettevamo a pensare da dove potessero sbucare, e tante altre cose strane che ci venivano in mente senza un motivo. Le tiravamo fuori dalla bocca così come ci passavano per la testa.
– Ma è vero che una rana se la fai fumare poi esplode?
– E che ne so, prova! – E continuavamo a dirci cose senza senso, oppure a non dirci proprio niente, e guardare davanti a noi. E a qualcosa quel silenzio che non sopportavo doveva pur servire, sennò era inutile che venivamo, alla collinetta, se tanto poi non dovevamo dirci niente. Da troppo tempo ormai ci sedevamo sull’erba e ci rimanevamo le ore senza che a nessuno venisse in mente di fare qualcosa di diverso, e io avevo sempre più paura che niente sarebbe successo e tutto si sarebbe esaurito nell’andare e venire dalla collinetta senza stare troppo a pensarci sopra. Io qualcosa gli dovevo dire a Valentino, prima che la collinetta diventasse nera e indistinguibile nella notte ancora una volta. Il sole stava per tramontare. Cercai lo sguardo di Valentino con il mio, ma lui era pensoso e non guardava nella mia direzione, e aveva una faccia seria e cupa che avresti potuto dirgli qualsiasi cosa e non sarebbe cambiata. Allora il sole sarebbe tramontato anche oggi, e saremmo tornati indietro e non sarebbe cambiato niente. L’avrei bruciata tutta quella collina, per la rabbia. Per la solitudine che mi veniva al pensiero che io ero fatto in un modo e che lui era diverso da me, e che di questa cosa, in fondo, a lui non gliene poteva fregare di meno. Restavano pochi minuti di luce e io non ci volevo tornare giù per la collinetta fino all’asfalto che portava verso casa.
Poi, a un tratto, Valentino si alzò in piedi e mi squadrò dall’alto.
– Che ci veniamo a fare tutte le volte, Andrè, su ’sto montarozzo?
Era la prima volta che lo sentivo pronunciare una frase che parlasse di me e di lui insieme. Lo guardai. Rimasi in silenzio per qualche secondo, senza sapere bene come rispondere. Ma qualcosa dovevo pur dirla, in fondo, e non è che ci fosse tanto tempo per pensare.
– Non lo so, Valentì.
Speravo che continuasse a parlare, invece stava zitto. Altre volte aveva cominciato a parlare e poi si era fermato di botto, ma quella volta non riuscivo a sopportare che lo facesse. Volevo che andasse in fondo a quel discorso che mi aveva fatto tornare a sperare. Continuavo a guardarlo e a immaginare il motivo di quella sua frase sputata fuori così all’improvviso. Se non voleva dirmi niente avrebbe aspettato che la luce scomparisse del tutto per andarsene invece di mettersi a parlare. Quindi era meglio che si decidesse a finire. Parla! Che cerchi di dirmi? Anche tu hai paura del tempo che sta passando e ti sei fatto coraggio soltanto all’ultimo momento? Questo gli dicevano i miei occhi, e chissà se lui capiva. Tutti quei pomeriggi insieme, io e lui! A non voler parlare! Ma quel giorno era diverso, me lo sentivo che era diverso. Il sangue mi premeva contro le guance e aspettavo che succedesse qualcosa. Quattro, cinque, sei secondi, con la bocca quasi aperta, come quella dei cani. Ma lui non aspettava niente. Parlò.
– Che c’è? Me devi dì qualcosa?
Sì, dovevo. Poteva anche farsi buio, e le rane potevano ricoprire la collinetta e noi passarci la notte in mezzo alle rane, ma non potevo tornarmene indietro senza avergli detto che io ci venivo soltanto per lui, in quel posto. Questo dovevo dirgli, se lui non aveva il coraggio di dirmi la stessa cosa. Erano soltanto poche parole Santa Madonna! E gliele avrei dette adesso perché tanto come andava andava quella sera non ci tornavo a casa come se niente fosse. Feci per parlare.

[continua]

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