io, Dio e gli altri

di

Andrea Ravani


Andrea Ravani - io, Dio e gli altri
Collana "Le Schegge d'Oro" - I libri dei Premi - Poesia
14x20,5 - pp. 38 - Euro 6,80
ISBN 978-88-6587-1157

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In copertina illustrazione dell’autore


Pubblicazione realizzata con il contributo de IL CLUB degli autori in quanto l’autore è finalista nel concorso letterario Jacques Prévert 2011


Prefazione

Nella silloge di poesie, che ha come titolo “io, Dio e gli altri”, lo “sguardo interiore” di Andrea Ravani fissa le presenze e le assenze, la sostanza della vita, la sua drammaticità e la cognizione del dolore nella trasfigurazione lirica che conduce su un piano differente, dove le antinomie e le contaminazioni vengono purificate.
Il tracciato lirico mette in evidenza tale tensione con lo sguardo sincero che scruta il “fragore del tempo” che passa inesorabile e lascia solo un lieve respiro legato a ciò che è stato importante, giocando con le trasparenze e le risonanze rivelatrici.
La sua visione è sovente velata da malinconiche visioni e da un “incerto sognare”, che lascia dietro di sé tracce, intimamente collegate alla memoria, alle lacerazioni e alle dimenticanze come se lo scopo del cammino fosse “anelare” più che coronare un sogno o chissà cosa.
Nello “specchio dei sentimenti” vengono alimentate le vibrazioni e la passione incanalata nella realtà del corpo per sfuggire alla coscienza.
Nella ricerca incessante del continuo vagare, nella rivisitazione delle manifestazioni del vivere, tutto riconduce alla “fonte delle parole” con poesie che diventano l’accertamento di una rinascita “in un mondo al contrario”, oltre alla consapevolezza che le illusioni si “spengono” e, a volte, si avverte la necessità di “ritirarsi nel sogno” quasi a voler preservare la poesia in una dimensione eterea.
Nelle liriche di Andrea Ravani si assiste ad una lenta navigazione nelle emozioni, nelle inquietudini, nel “silenzio stagnante”, sulla linea di confine tra le attese della vita e le angosce, che assediano la mente: fino a scrivere di avvertire la sensazione di “vivere sempre altrove”; e le tempeste dell’inconscio sono l’espressione di un’esistenza dolente che viene rappresentata con la percezione di captare fortemente di “essere solo un trasparente sentire”.
L’animo dell’Uomo è alla ricerca critica di Dio: la voce umana trova, davanti a sé, il canto divino dell’universo ma la vita scorre veloce come sabbia da una clessidra e la percezione di questo divenire incombente si insidia nella mente.
Negli “occhi della memoria”, come essere umano errante, percepisce la vita come “liquido” che scivola via, e la figura del poeta, con la sua voce bruciante che diventa “urlo nel deserto”, tenta di strappare alla polvere del nulla, una parola di verità: e poi, la parola diventa rabbiosa contro un determinato modo di pensare e di vivere che insegue solo il potere e “perde il cuore”.
La vita è sofferta sul proprio corpo, è dolore sul volto, agire vano per cercare di amare ancora, per non annientare l’animo e avere ancora un po’ di energia per innalzare un “grido d’amore”.
Il silenzio scava nelle notti insonni della vita, tutto pare appeso ad un filo sottile, quasi in una perpetua attesa dello svelamento di un ipotetico mistero: un viaggio enigmatico dentro parole sommerse, in spazi sospesi tra la noia ed il ricordo che possa infondere un po’ di gioia, tra il travaglio e il desiderio di una vita diversa.
Le illuminazioni sfumano nelle ombre della vita e la voce è sempre sincera, “humus viscerale” che sale dall’animo e, nell’atto finale della silloge, v’è l’inevitabile rinascita, la rigenerazione della propria visione: “Le parole d’amore/ sono gigli di campo/ che nel vento/ si sposano al tempo/ e nel tempo/ generano il campo”.

Massimo Barile


io, Dio e gli altri


Ancore di vento
mi appendo a stento
sorreggo con la mano
una nuvola lontano.


Dipingo un paesaggio
d’incerto sognare.
Sotto il precipizio della fronte
ergo castelli di denti
e tingo l’orizzonte
con colline assenti.

Distruggo di passaggio
volti bianchi da colorare.
Mi ristoro ad una fonte
di parole dementi
vedo un mastodonte
nello specchio dei sentimenti.


Tristezza del cercare
passo dopo passo
nella mente, tra la gente
io vago cieco e demente.
Lungo l’erto nella foresta
il piede inciampa nel sasso.
Un’illusione che si spegne
quando stanchi ci si arrende.
Di nuovo ci alziamo
sempre soli andiamo
con le mani nel sacco
perché sapere non è ricevere
forse è dare per domani
con la mente, serenamente
con lo sguardo indifferente
perché in fondo noi sappiamo
che il nostro andare
non è altro che anelare
ad una nuova innocenza.


Sono morto, o forse vivo
o nel sogno mi ritiro.
Nella tana del lupo nero
con le unghie scavo ai bordi
trovo vermi, esseri sordi.
Mi cibo di radici
sotto il suolo mi nascondo
in un mondo al contrario, risorgo.


Perdere la vita
è perdere la vista
lo sguardo interiore
che sfiora le cose.

Scrivo cose come parole
e non sono solo dolore.
Traccio tele d’inchiostro
sulla trasparenza del vento.

Perdere la vista
gli occhi ciechi della storia
una strana memoria
inventata per passare il tempo
e nel corpo scontata.

Scrivo cose che non so
ma quando vedo son sincero.
Abbraccio corpi bianchi
lacerati nel fragore del tempo
e per perdite di tempo, scordati.


Un respiro,
il corpo stanco
lo sguardo inquieto
naviga all’indietro.

Se ti alzi,
barcolli un istante
eppur batte il cuore
nel silenzio stagnante.

Fai un passo,
poi un passo ancora
la pausa è di un respiro
e mai hai smesso di contare.

Uno sforzo,
l’attesa della vita
nel vuoto d’ogni cifra
ride perché è già finita.


La voce che vibra nel corpo
è cosa strana, mia non so.
Tace poco, se tace dice
solo allora la pancia è felice.
Il ventre non mente
ma uccide la mente.
Il cervello non sono io
ma senza corpo non sarei mio.
Tu vivi sempre altrove
non è la dimora che ti dispiace
è l’idea stessa della pace
che ti porta lontano dove
il desiderio delle quattro mura
si contorce in una lotta
di polvere e vento
e mai sarai contento.


Insetti che ti strappano la pelle
come vele le mani s’innalzano
nell’illusione del vento d’angoscia.
La tempesta t’affonda
nella miseria del mare inconscio
nel digrignar di denti
un vuoto bianco che non senti.
Ti lacerano la carne serpenti
come il senso di qualcosa
che urla e non riposa.
La pancia nera di nuvole
tuona temporale di fianchi
nella notte un lampo
accende ciò di cui più manchi.


Parto nel nulla e non so se posso
ancora dire di voler morire
poiché nulla è soffrire
la vita si è fatta osso.

Stanco del posto in cui son nato
un luogo di pensiero e parole
un corpo secco, un collo stonato
l’esistenza che duole.

Andare per andare e sparire
non essere altro che luce
o solo un trasparente sentire
mai più lo sguardo truce.

Parto con il mio legno storto
più del dolore decise amore.
Saggezza e rassegnazione
son volto e viso di un morto.


Quanto lontano ti porta il vento
se ti lasci andare, foglia morta?
Lontano, lontano lontano
più di quanto possa indicare con la mano.
Lo sguardo traccia l’orizzonte
ai confini del dire
in prossimità della fonte.
Nel respiro che non s’arresta
vive il desiderio.
Voglio essere serio
mi par di zoppicare
con la mia gamba storta
eppur da dietro la montagna
una luce mi porta
se fossi foglia morta
dentro un lieve vibrare
dove la sera fugge e va oltre.
Parla piano, respira cosa viva
qualcosa c’è, oltre la porta.


[continua]


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