Ancore di vento
mi appendo a stento
sorreggo con la mano
una nuvola lontano.
Dipingo un paesaggio
d’incerto sognare.
Sotto il precipizio della fronte
ergo castelli di denti
e tingo l’orizzonte
con colline assenti.
Distruggo di passaggio
volti bianchi da colorare.
Mi ristoro ad una fonte
di parole dementi
vedo un mastodonte
nello specchio dei sentimenti.
Tristezza del cercare
passo dopo passo
nella mente, tra la gente
io vago cieco e demente.
Lungo l’erto nella foresta
il piede inciampa nel sasso.
Un’illusione che si spegne
quando stanchi ci si arrende.
Di nuovo ci alziamo
sempre soli andiamo
con le mani nel sacco
perché sapere non è ricevere
forse è dare per domani
con la mente, serenamente
con lo sguardo indifferente
perché in fondo noi sappiamo
che il nostro andare
non è altro che anelare
ad una nuova innocenza.
Sono morto, o forse vivo
o nel sogno mi ritiro.
Nella tana del lupo nero
con le unghie scavo ai bordi
trovo vermi, esseri sordi.
Mi cibo di radici
sotto il suolo mi nascondo
in un mondo al contrario, risorgo.
Perdere la vita
è perdere la vista
lo sguardo interiore
che sfiora le cose.
Scrivo cose come parole
e non sono solo dolore.
Traccio tele d’inchiostro
sulla trasparenza del vento.
Perdere la vista
gli occhi ciechi della storia
una strana memoria
inventata per passare il tempo
e nel corpo scontata.
Scrivo cose che non so
ma quando vedo son sincero.
Abbraccio corpi bianchi
lacerati nel fragore del tempo
e per perdite di tempo, scordati.
Un respiro,
il corpo stanco
lo sguardo inquieto
naviga all’indietro.
Se ti alzi,
barcolli un istante
eppur batte il cuore
nel silenzio stagnante.
Fai un passo,
poi un passo ancora
la pausa è di un respiro
e mai hai smesso di contare.
Uno sforzo,
l’attesa della vita
nel vuoto d’ogni cifra
ride perché è già finita.
La voce che vibra nel corpo
è cosa strana, mia non so.
Tace poco, se tace dice
solo allora la pancia è felice.
Il ventre non mente
ma uccide la mente.
Il cervello non sono io
ma senza corpo non sarei mio.
Tu vivi sempre altrove
non è la dimora che ti dispiace
è l’idea stessa della pace
che ti porta lontano dove
il desiderio delle quattro mura
si contorce in una lotta
di polvere e vento
e mai sarai contento.
Insetti che ti strappano la pelle
come vele le mani s’innalzano
nell’illusione del vento d’angoscia.
La tempesta t’affonda
nella miseria del mare inconscio
nel digrignar di denti
un vuoto bianco che non senti.
Ti lacerano la carne serpenti
come il senso di qualcosa
che urla e non riposa.
La pancia nera di nuvole
tuona temporale di fianchi
nella notte un lampo
accende ciò di cui più manchi.
Parto nel nulla e non so se posso
ancora dire di voler morire
poiché nulla è soffrire
la vita si è fatta osso.
Stanco del posto in cui son nato
un luogo di pensiero e parole
un corpo secco, un collo stonato
l’esistenza che duole.
Andare per andare e sparire
non essere altro che luce
o solo un trasparente sentire
mai più lo sguardo truce.
Parto con il mio legno storto
più del dolore decise amore.
Saggezza e rassegnazione
son volto e viso di un morto.
Quanto lontano ti porta il vento
se ti lasci andare, foglia morta?
Lontano, lontano lontano
più di quanto possa indicare con la mano.
Lo sguardo traccia l’orizzonte
ai confini del dire
in prossimità della fonte.
Nel respiro che non s’arresta
vive il desiderio.
Voglio essere serio
mi par di zoppicare
con la mia gamba storta
eppur da dietro la montagna
una luce mi porta
se fossi foglia morta
dentro un lieve vibrare
dove la sera fugge e va oltre.
Parla piano, respira cosa viva
qualcosa c’è, oltre la porta.
[continua]