Liber

di

Andrea Violi


Andrea Violi - Liber
Collana "Le Schegge d'Oro" - I libri dei Premi - Poesia
14x20,5 - pp. 48 - Euro 5,68
ISBN 88-8356-048-5

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Prefazione

Quest’ultima fatica di Andrea Violi, giovane e talentoso poeta emiliano, prosegue un discorso, ironico, ricco di sfumature, pieno di verve e sottintesi, iniziato con le due raccolte precedenti e in particolare con l’ultima in ordine cronologico, “Indiscrezioni”.
A differenza di quelle, però, “Liber” non è articolata in sezioni; e, quasi a rendere ancora più evidente che il flusso di parole e immagini scorre libero, appunto, da costrizioni di qualsivoglia genere, sono aboliti persino i titoli delle singole poesie. Violi, del resto, ha sempre mostrato parecchia insofferenza per il rispetto delle norme della metrica tradizionale: per lui, a quanto sembra, il verso rappresenta l’unità minima (spesso costituita da un solo vocabolo), il mattoncino di una costruzione che procede per accostamenti successivi di oggetti e situazioni; le architetture di parole – crediamo non dispiacerà all’autore il paragone – disegnano sulla pagina sottili colonne di parole in guisa di guglie gotiche, il che contrasta singolarmente con il peso specifico delle parole stesse: che sono spesso riferite a oggetti concreti, misurabili, presenti nella vita quotidiana di ciascuno di noi.
Partire dagli oggetti, dalla realtà sensibile, è l’imperativo categorico di Violi, che presta i suoi sensi a tutte le sollecitazioni possibili: colori, profumi, morbidezze e rugosità, suoni irrompono da ogni lirica con l’immediatezza della fotografia (ricordiamo per inciso che l’autore si occupa anche di cinema, e tra le sue pubblicazioni se ne conta anche una dal titolo “Cento film da salvare”), con l’ineguagliabile freschezza della vita. Basta leggere qualche passo qua e là per trovare degli esempi: “umide le piume / serrate le finestre / vuote le verande / colme le credenze; scompare la pianura / sotto le lenzuola bianche / fresche di bucato; rapide / rapide / scattanti / rapide / di schiuma / e spruzzi / e colpi di pagaia; il marciapiede si srotola / tra luci gialle a raggi, come stelle / e un rumore di tacchi alti / sostiene e confonde la conversazione”.
Questo in prima battuta. Perché subito dopo scopriamo che gli oggetti, grazie a un costante ricorso alla metafora e alla similitudine, rivelano un’inconsueta umanità, e la loro esistenza non prescinde mai da quella dell’uomo. L’uomo, il centro ideale attorno a cui ruotano le liriche. E non deve trarre in inganno il fatto che spesso l’autore usi il pronome personale o declini i verbi alla prima persona plurale: il dato autobiografico è in realtà un’occasione per allargare l’angolo visuale di 360 gradi, includendovi tutta l’umanità. Lo prova, tra l’altro, il fatto che il riferimento al sé si aggancia a situazioni che si pongono esattamente sul confine tra la realtà e il sogno. Molte liriche sono infatti costruite come storie o comunque come spunti per soluzioni di tipo narrativo (anticipiamo al lettore, ancora una volta per inciso, che l’autore sta lavorando a una prima raccolta di racconti): ne troviamo un esempio nella XVII poesia, dove tra “amabili gruppetti che fanno la riverenza” vediamo apparire all’improvviso una figura solitaria e nobile, la cui “fervida solitudine” attira la curiosità dell’autore. Il sentimento inquietante del mistero – chi è questo personaggio ? una proiezione della fantasia, un simbolo, un uomo vero? – si coagula negli ultimi versi in cui lo stupefatto autore osserva l’ombra dello sconosciuto affiancarsi alla sua e proseguire il cammino “lungo le vetrine”. Possiamo ravvisare in quest’abbozzo di trama una sorta di racconto del mistero, alla maniera di Buzzati, in nuce; risolta in poesia, la situazione assume i contorni di una fotografia esistenziale nella quale è possibile ravvisare l’inquietudine, e anche la frustrazione, dell’uomo moderno smarrito tra una folla di sconosciuti in cui non gli è difficile, tuttavia, riconoscere le sue stesse debolezze e ipocrisie (così efficacemente sintetizzate nell’immagine della riverenza, con la sua valenza sia di gesto stereotipato sia di cantilena mandata a memoria da bambino e sempre ripetuta senza averne mai compreso il significato); uomo moderno che è però in grado, ancora, di riconoscere la nobiltà di chi cerca “la via più breve e sgombra”, senza attardarsi in riverenze inutili.
Quel che emerge da questa e da altre liriche è una grande consapevolezza di sé, nutrita dell’ironia a cui già si è fatto riferimento; consapevolezza, soprattutto, del sentimento del contrario: l’uomo ha in sé tutto e il contrario di tutto, può essere bianco come d’inverno la pernice e nero come le armi (XVI), i suoi difetti sono perfetti e ammirevoli e mai banali sono le sciocchezze (XIX). Vivere questo dualismo con tutte le sue implicazioni resta l’unica condizione possibile; l’unica strada, forse proprio quella più breve e sgombra, per fare la riverenza – e magari unirla a una giocosa strizzata d’occhi – senza credere che sia l’unico gesto possibile.

Olivia Trioschi


Liber


I

Squadre
sparse
di gocce
si lasciano andare
in tuffo
verso steli sottili.
Intirizziti
giovani insetti
indaffarati
trascinano
minuti laboriosi
e confusi
vivono.
L’ultima propaggine
di ramo
corruga la fronte
per solitudine,
umide le piume,
serrate le finestre,
vuote le verande,
colme le credenze.
Il cappotto della notte
rovescia catini d’acqua
sui granelli di vita
e sui comignoli,
e mi corrisponde.
Balenano
splendidi visi
ad occhi chiusi
e coperte rimboccate,
e una lieve mano
accarezza
un sogno.


II

Scompare la pianura
sotto le lenzuola bianche,
fresche di bucato,
e uno sterminato campo
diventa un’isola
a quest’ora della sera.
Soli,
è una notte disperata
e ignota,
umida e lenta,
improvvisamente.
Tutto e nulla
minacciano,
dissolti i confini
la mente
sente le distanze
sottrarsi,
illusioni e speranze
unanimi
si disperdono
nel turbinio
sempre immobile,
apparso repentino,
deciso a non lasciarmi più.
Nella clessidra
rumori infernali
mentre controllo le scarpe
in cui ha termine
il mondo visibile,
mi seggo
e capisco.
Allora può
risalire
ed evanescente
svanire.


III

Due lupi,
bianco il primo,
dagli occhi azzurri,
nero il secondo,
occhi gialli,
prosperano
nel mio recinto
in alternate
sequenze di vita.
Si nutrono
di minime essenze,
di attese
e ripensamenti,
affilano
le acuminate zanne
sul ceppo
del mio albero,
si scorticano,
mi lambiscono,
si accaniscono.
Rovesciano
sulla neve
risorse infinite
e infiniti strazi,
subissano
il mio sistema solare
di orbite irregolari,
canali interstellari,
echi di guerre
da guerreggiare
e balzi ringhiosi
da sperimentare.
Lacerano
e ricompongono
neuroni
per loro attitudine,
rabbiosi.
Riscaldano
di respiri affannati
le ore
di apparente
tregua.
Simbolo,
stemma
della mia stessa
franca
lucida
operosa
nevrosi
si stagliano
nell’orizzonte
più puro
a vegliare
sulle mie conquiste
ed i miei dubbi.
Combatteranno,
si stroncheranno,
ne usciranno
rigenerati.


IV

Orione splende
in una notte lucida
come l’elsa di una spada
e tagliente
come la sua lama,
tra mille
possibili scenari
di certo il meno adatto
a un dépliant.
L’universo
si giova
di miliardi
di creature:
a me
ne basterebbe
una.


V

Vorrei avere
un soldino
per ogni pensiero
che non rivelerai
a nessuno.
Mi piacerebbe
regalarti sempre
un’altra occasione,
pulire tutti
i tuoi ricordi
senza strofinacci
ma con una
orchidea
immortale.
Sarebbe bello
nasconderti
la noia
e il rimpianto,
poter spianare
le strade
che percorrerai,
catturare
gli insetti
che ti vorranno
infastidire,
costruire
un calendario
di giorni
che val la pena
di ricordare,
destinare
solo a te
i doni del mondo,
se ce ne sono.
Meriteresti
di camminare
in inverno
senza incontrare
fango,
di accarezzare
la vita
senza pungerti
le dita,
di salire in ascensore
e ridere
e ringraziare il cielo
e continuare a correre.
Tutto questo
non ti posso
assicurare,
soltanto perché
anch’io sono
tra le onde,
come te,
e cerco di
non affogare.
Ma stai sicura che,
se potessi,
lo farei.


VI

Il parco
immerso
nella giornata triste
e pensierosa,
gravata
da un sudicio strato
di avvilente foschia,
rimane
pur sempre
maestoso,
più vecchio forse,
ricurvo
su sé stesso,
ma celeste
di vita limpida
ed austera,
e sicuro
di un rigore
vittoriano,
semplice e sorprendente.
Beato l’occhio
che lo incontra,
persino
nel mattino
sbagliato.
Come in un carme del Settecento
si sospira
allontanandosi,
e ci si sforza
di trattenere
una cellula
del profumo
che aleggia
nelle aiuole
per i secoli
a venire.


VII

Amore mio
del martedì,
io non t’inganno,
lo vedi,
non sei la sola,
ma, se credi,
possiamo passeggiare
per brevi tratti
dall’albergo alla spiaggia
e viceversa.
Se saprai
conquistare altre giornate,
nuovi appuntamenti,
ansie, tormenti,
occhi chiusi
e labbra aperte,
offuscare
ogni altra fisionomia,
e se dopo
una tale fatica
e applicazione
mi vorrai ancora,
a quel punto
deporrò le armi
e conterò le ore
dei feriali,
dei festivi,
di ogni ricorrenza,
del tempo astrale
e di quello interiore
assieme a te.


VIII

Lungo i detriti
delle serate stanche
la colomba veleggia
e ride,
e descrive
cerchi immensi
di immenso benessere,
interrotta tuttavia
dal fatuo risuonare
di spari
a squarciare
le piume.
Raccolta
in un sacco di iuta
la vita
non è
neppure
granché.


IX

Sorridi
e illumina il mondo,
luna,
senza reticenze;
vista così,
di profilo,
somigli tanto
a un altro dono
della vita,
come te
apparentemente
a portata di mano,
in realtà lontano,
appassionatamente
sfuggente.
Ipnotica
scendi
e difendi
la tua fama,
avvolgi
in un tenue
velo di bambagia
le sue labbra,
perché formino
la parola sì.
Fai del tuo meglio,
dopo tutto, vedi,
io canto per te
trent’anni dopo
aver saputo
che sei un Sahara
infreddolito,
per questo
non è il caso
di tirarsi indietro
se ti chiedo
uno slancio,
un sussulto
di generosità.
Se puoi governare
i passi, i pensieri
degli essere umani
per piccoli istanti
distratti e notturni,
ritrova il tuo orgoglio
e fissa i miei occhi
nei suoi.


X

Quintessenza
è
sul mio comò
un petalo gualcito,
sbiadito
dalle stagioni bianche,
trofeo umile
di vanità regolata,
appeso alla pagina centoventisei
come Tarzan
ad una liana.
Aggrappato
al suo profumo perduto
si mantiene
un cortometraggio
interpretato
per più di vent’anni
da una sola attrice.


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