Andrea Violi - Partiture
Collana "I Gigli" - I libri di Poesia 15x21 - pp. 48 - Euro 7,30 ISBN 88-8356-082-5 Clicca qui per acquistare questo libro Questa raccolta è stata segnalata nel concorso “Jacques Prevért” 1997 Prefazione Opportunamente datate – dal momento che si tratta di liriche precedenti quelle inserite in “Indiscrezioni”, penultimo volume in versi di Andrea Violi – queste poesie ci vengono incontro, nelle prime pagine, con il fascino lieve di certe liriche giapponesi, o di certi pensieri delicati e leggeri che a tutti capita di pensare, ma non a tutti capita di dare voce. Come chiamare, infatti, quei tremiti sottili, quelle increspature, quegli sfarfallii che a volte avvertiamo in noi e intorno a noi, mutevoli e cangianti colore come ali di farfalla che risplendono, un attimo, tra un guizzo di sole e una pioggia argentina? Andrea Violi, che ritroviamo con il piacere che si riserva ai vecchi amici e l’emozione che accompagna le letture importanti, ci prova. Del resto, è un poeta che ha già scritto parecchio, ed è in quella fase felice in cui ci si può permettere di andare dietro non più e non solo a ciò che urge, che preme per passare dall’alchimia testa-cuore alla penna e poi alla pagina, ma anche di accarezzare quegli sfarfallii, di inseguirli, di blandirli, di tenerli un momento tra le mani, prima che volino via. Lo dimostra l’edizione di queste poesie, cronologicamente non recentissime ma felicemente recuperate ora, a distanza di qualche anno, e portate al lettore con il consueto garbo e la consueta abilità di verseggiatore. Da un punto di vista formale ritroviamo qui alcune costanti della poesia di Violi, cui dedichiamo un breve accenno rivolto soprattutto al lettore che lo incontra per la prima volta: il verso libero, l’amore per la parola pura, cesellata sulla pagina a formare da sola il verso, la predilezione per periodi paratattici, ordinati, puliti, che traggono la loro forza dai singoli vocaboli e dall’uso, moderato ma attento, di figure retoriche (come metafore e ossimori); la carica simbolica di certe composizioni, leggibili solo in cifra – perché, ricordiamolo, la realtà fenomenica è per Violi qualcosa che non vale solo per sé ma soprattutto per ciò che significa per l’uomo. Caratteristiche, queste, che quasi inevitabilmente hanno condotto l’autore agli esiti qui raccolti, a queste “Partiture” ricche di sfumature e percorse da una melodia di fondo semplicemente tenera e struggente. Come quella di “Purezza”, lirica d’apertura, sottile preludio musicale in cui il candore del giglio, appena offuscato dall’improvviso (come fosse “scappato” dalla penna) irrompere dell’aggettivo “infranto”, riverbera in più direzioni grazie alla subitanea immagine dei petali, che ne moltiplicano la bianca trasparenza nel tempo passato ma anche in quello presente, in virtù della capacità – benedetta – di ricordare; quei petali leggeri sembrano trasformarsi, nella poesia successiva, nei fiocchi di neve che danzano in un’aria pulita, confondendo contorni e confini che delimitano (opprimono?) gli spazi dell’uomo, togliendo agli oggetti quello “spessore vivo e muto che rimpicciolisce lo spazio”. In questo silenzio ovattato, dove “il mondo svanisce / sotto una / coperta, / per riapparire / dentro di noi”, l’uomo recupera la pace e la consapevolezza di una solitudine che non va respinta come un dolore ma accolta come un dono, perché “preoccupa / e consola, istante / dopo / istante”. Ancora un’immagine di solitudine campeggia in “Dopo la prova”, anzi giganteggia: svetta il legno di rovere, mentre quella piccola, trasparente goccia lo solca tutto, sino alla fine, sino alle radici. È una lirica brevissima, eppure la sua ruvida bellezza lascia il segno. Ed è come uno stacco, perché subito dopo incontriamo “Tempesta”, formalmente e contenutisticamente molto diversa. Alla concentrazione subentra la concitazione, all’impalpabilità il plastico vigore di versi impetuosi, impastati di acqua salmastra, percorsi da grida, illuminati dal rapido squarcio del fulmine: un quadro denso di suggestioni romantiche, che ricorda certi paesaggi eroici in cui l’uomo fronteggia l’infuriare della natura, e soccombe senza essere vinto. Poi un altro stacco, forse un dono per una fanciulla, forse una speranza per il futuro: pochi versi gentili come una carezza, quasi a ritemprarsi dopo la “Tempesta”; e ancora, subito dopo, una poesia semplice e diretta, anch’essa un augurio, ma non più solo per se stesso, bensì per tutti, per tutta la piccola umanità che si muove “a piccoli passi” ma può arrivare, forse (con una scala a pioli che ci ricorda per similitudine la modalità con cui sono costruite le poesie di Violi – parole come pioli), “alle nebulose / più ricche / e ospitali”. Il ritmo del viaggio, proseguendo nella lettura, si fa più serrato. Non usiamo a caso questo termine di paragone: ritorna insistente, infatti, e ne abbiamo avuto un primo “assaggio” con la “Tempesta”, l’immagine dell’attraversamento dei mari, declinata con varie modulazioni (si vedano, ad esempio, “Crociera” e “Miraggio”), come attesa di qualcosa che sta per giungere o ricordo incancellabile di un’emozione autentica, di una scoperta che conserva in sé il suo senso ultimo: qualcosa di non concluso, dunque, e che non potrà terminare mai; il sentimento di una provvisorietà che spinge a cercare sempre un po’ più in là, a non lasciarsi sedurre dai “guanciali di seta profumata” di un presente che talvolta si presenta anche con fattezze seducenti, ma che non impedisce alla caduta di essere dolorosa; a cercare “di poter essere / qualcosa / di più”, come si legge nella chiusa di “Poeta?”, dove l’ironia del punto di domanda non toglie nulla, e semmai aggiunge, al grido, quasi un’invocazione, che s’innalza al centro della lirica: “Ah!/ Saper essere / vivi, / saper dividere / con il tempo / l’attesa / valutare / il peso del mondo / e / delle sue creature / a ogni respiro / a ogni battito / quieto e potente”. La poesia come strumento di conoscenza, come modo per essere qualcosa di più, è anche al centro di “Il soffio del vero artista”, in cui l’immagine del viaggio viene rappresa nel gesto perentorio del sasso gettato al di là del grande lago e al contempo nel maestoso volo dell’airone “color della cenere / dal cervello gonfio e costretto / ma con / grandi ali”; e il viaggio si prolunga all’infinito nella poesia posta in chiusura della raccolta, con l’incitamento a proseguire sempre, fino alla stella d’Oriente. “Si risvegli – scrive il poeta – quel senso / di franco / agonismo”... Un invito a mettersi in gioco, ma non per vincere trofei: per conquistare il sentimento della propria umanità, fatta di candore e di viaggi, ma anche della consapevolezza che, in realtà, la partita non è mai finita. Olivia Trioschi Partiture
Esiste
Il suono
Come
A intervalli regolari Poi nulla.
Se solo
Milord,
Ballano
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