Opera 6^ classificata al Premio Club Poeti 2006
Il negozio di stoffe
Come ogni pomeriggio uscimmo a passeggio per Corso Vannucci.
Il selciato impervio, lustro per l’annoso andirivieni dei passanti, aveva cominciato a imbrigliare la gaia e un po’ svagata andatura che la mia migliore amica ed io, appena adolescenti, indossavamo per l’appuntamento consueto come un abito da festa. Era un pomeriggio di una stagione di mezzo, quando la tramontana allenta il morso contro le allegorie della Fontana Maggiore. Ma il tempo, che tutto corrode, non aveva risparmiato le antiche formelle color opale i cui personaggi costituivano una coordinata inequivocabile: “ci vediamo davanti ad Adamo ed Eva” oppure “ davanti al leone”. (Non sapevamo ancora che poi, da adulte, non ci saremmo più riviste, per quella inesplicabile legge della vita in base alla quale le cose accadono semplicemente perché devono accadere).
Il grande negozio di tessuti recava sull’insegna un cognome piccolissimo, di due lettere, e l’anziana proprietaria, piccola signora dal sorriso grande, era destinataria compiaciuta di visite frequenti quanto fugaci da parte nostra, frequenti per la consolidata amicizia che la legava alla famiglia della mia amica e per la simpatia che suscitava in noi, fugaci perché a quattordici anni la “vasca” per il corso esercita (o quantomeno, esercitava) un magnetismo impari, non rapportabile a niente altro, figurarsi a un negozio di stoffe, per quanto solenne e di tono potesse essere.
Eppure, quell’ambiente ovattato, sontuoso di penombre e colori come la navata di una chiesa, era non solo gradito riparo dal freddo o dal caldo delle stagioni, ma insolito richiamo dell’effimero ammantato di austerità. In fin dei conti da quei rigidi rotoli di stoffe disposti in monotone successioni sugli scaffali e all’occorrenza sviscerati con noncurante ingordigia sul bancone, potevano ricavarsi i capricci più raffinati e le ultime ghiottonerie della moda. A dispetto del pret-a-porter ormai inesorabilmente in auge, molte famiglie conservavano l’abitudine (non ancora vezzo) di rivolgersi a una brava sarta, chissà perché quasi sempre priva di cognome, di modo che le varie signore Olga, Isolina, Adalgisa, punteggiavano i pomeriggi di molte madri di famiglia a salvaguardia del risparmio e dell’eleganza (per non parlare poi delle modiste che realizzavano su commissione cappellini a capriccio delle, ahimé, ultime clienti).
Così, alla sosta tra il lessico variopinto dei millerighe, shantu, raso, fiocco di cotone, fresco lana, batista, organza, ero ormai felicemente assuefatta, proprio come ai bozzetti, tele e dipinti all’olio, acquerello, sanguigno, carboncino, guazzo, tempera, pastello, nero di china che, con mio sempre inalterato stupore, si materializzavano tra le mani di mia madre.
Anche quel giorno la benevola signora dal minuscolo cognome ci accolse con il sorriso di sempre, quasi fanciullesco nello sguardo corvino, eppure qualcosa in lei era cambiato, qualcosa che la desolazione del tempo che passa non basta a spiegare. Affaticata dalla consueta incursione per le vie del centro, mi lasciai cadere su di uno sgabello davanti al bancone, vagando con gli occhi sulle fantasie floreali che lo invadevano quasi per intero e non so se per l’insistenza dello sguardo o per l’effetto degli acidi e degli amidi impiegati nei tessuti, presi a battere le palpebre nel tentativo di proteggermi anche dalla luce artificiale che, amplificata da quella naturale di rimbalzo sugli specchi, cominciava a frastagliare in una lanugine accecante i contorni delle cose.
Fu allora che la voce della donna ruppe il silenzio, rivolta ad una sua amica seduta in disparte, della cui presenza non mi ero accorta.
“Come ti dicevo, è una settimana che non riesco a chiudere occhio. Beate voi, freghine, alla vostra età si dorme come ghiri, accada quel che accada, e non si dà ascolto alle fandonie dei vecchi. Già, sì, roba da vecchi…, sarà, però non riesco a togliermi dalla testa quello che la mia vicina raccontava di una sua amica che cominciò a non poter più dormire la notte per via di questi scricchiolii; si sa, quando il legno è stagionato non dovrebbe più muoversi e la mia camera da letto è bell’e stagionata più di me, eppure i mobili è come se mi parlassero, da una settimana sola però. È questo che mi fa impressione, perché la mia vicina diceva che alla sua amica cominciarono a parlare il legno o i tarli, vallo un po’ a sapere, e che questo è un brutto segno del destino che ti vuole mettere sull’avviso, che devi cominciare a prepararti a sloggiare, intendo dire… Fatto sta che la sua amica dopo qualche giorno non c’era più, morta intendo dire. Così, senza niente, all’improvviso. Questa storia degli scricchiolii la ripetevano anche i contadini giù in campagna, ma io non ci avevo piú ripensato. Fino ad ora”.
L’interlocutrice sospirò guardandosi la punta delle scarpe e scuotendo la testa come si fa quando le parole sono ingombranti in situazioni spiacevoli. Poi commentò con voce indecisa che la vita è strana o qualcosa del genere e che comunque di superstizioni bislacche è sempre stato pieno il mondo. Ciò non di meno, la piccola signora aveva perso il grande sorriso e pareva ancora più piccola sotto il peso di tutti quei chilometri di stoffe che veleggiavano dagli scaffali. Ebbi la buffa sensazione che stesse anche lei per srotolarsi alla luce invadente che continuava a pizzicarmi gli occhi impedendomi di vedere con chiarezza.
Anche la mia amica era rimasta interdetta, ma era troppo felice per qualcosa che le era successo e l’unica cosa che seppe fare per rompere il vuoto che si era creato fu scoppiare in una delle sue fragorose risate che la rendevano così irresistibile.
Ce ne andammo, rifocillate dalla pausa. Di nuovo a capofitto nella vita. L’aria era davvero tiepida e l’ombra del Palazzo dei Priori era fogliame di pietra sospeso a mezz’aria su un nugolo di passanti concitati e felici. E tutto mi sembrava felice, tutto aveva un senso immediato e concreto, tutto pareva così lontano dalla vita come ce la raccontavano gli altri.
Tendaggi e tappezzerie pregiate avvolgevano le tenebre. Un sentore di legno evocava botteghe di restauro, ma più buono, misto a fragranze cipriate. Stampe alle pareti, un tappeto orientale disteso sul fulvo pavimento in cotto, soprammobili in Limoges e una pendola a sfiorare il tempo rimasto. Un armadio in massello a due corpi sovrapposti troneggiava di fronte al comò annidato nella nicchia a fianco del letto e, sul soffitto, una fuga di travi denunciava l’età del signorile appartamento.
Il respiro regolare, sfiorato dalle lenzuola di Panama, turgide d’amido, s’intrecciava al ticchettio della pendola in una melodia sommessa e cadenzata alla quale d’un tratto si unì uno scricchiolio simile a quello prodotto da un tarlo. Poi un altro e poi un altro ancora: sempre più nitido, sempre più pertinace fino a diventare a poco a poco duro trapestio, raspare di legno su legno, di tenebra su tenebra. Né il canto del grillo né il fruscio del vento placavano l’insidia di quel brusio scoppiettante che fendeva il buio fino a lacerarlo nell’intermittenza regolare dei secondi. E uno sciamare di vita passò tra le vecchie foto color seppia e gli indumenti riposti con meticolosa devozione tra le doghe di ciliegio dei cassetti, dove la giovinezza di ieri ha lo stesso profumo degli anni di oggi.
Poi, la notte finì al latrare sfocato di un cane e in punta di piedi, ospite gentile, senza fatica e senza rimpianti, lei s’avviò là dove la cornice d’alba la chiamava, lontano dalle care cose delle indimenticate mura.
Tornammo, trascorsi due o tre giorni, spensierate come al solito. Ma il cartello “Chiuso per lutto” ci impedì di rivedere la titolare del negozio di tessuti.
Non volli mai più entrare lì dentro, non ricordo neanche più cosa abbiano poi allestito nei locali di quel vecchio esercizio commerciale di Perugia che era appartenuto a lei. L’ingranaggio ineludibile della vita mi avrebbe in seguito distolta dalla mia città, da quella che era stata l’amica del cuore e dall’età più perfetta che abbia mai vissuto, ma non dal ricordo che nulla uccide, neppure la cortina del tempo. E oggi, che di tempo ne è trascorso tanto, con certezza mi è dato sapere che la benevola signora dal minuscolo cognome in realtà morì così come muoiono tutti, da sempre e ovunque. Sotto lo sguardo di Dio.
da: Angela Ambrosini, “Semi di senape. Racconti dal vero”, L’Autore Libri, Firenze 2007
Opera segnalata al Premio Nazionale di Narrativa Gialla Inedita “Delitto d’Autore”, III Edizione 2006
Matrjoska
Sembrava una giornata come le altre. Il solito andirivieni di volti noti e meno noti: familiari, colleghi, amici. La comparsa di un nuovo venuto nella cerchia delle amicizie aveva dato ulteriore pimento agli ardori di Alicia, è vero, ma nulla di più, tutto procedeva come sempre. Del resto, da lei c’era da aspettarselo, con quell’aria da mantide, esagerata dal trucco raffinatissimo (ma come faceva, Santo Cielo, tutte le mattine a levigarsi in modo così impeccabile, non una sbavatura, non un capello fuori posto, l’abito griffato per ogni occasione, anche per starsene in cucina, sicuro, ammesso che esistesse una cucina in quella dimora inverosimile, altro che Hollywood). Poi c’era lei, la madre. A lei sì che piaceva pescare nel torbido, sempre da ridire su tutti, sempre pronta a sbirciare, a condurre abili interrogatori per indagare nella vita del prossimo. A volte parlava pure da sola e spiegava per filo e per segno i suoi piani segreti per vendicarsi di questo e di quello, per stornare i sospetti su quell’altro e via dicendo. Come se nessuno la stesse mai a sentire! Figurarsi! In quella casa entravano e uscivano tutti. Un vero porto di mare. Era possibile avere accesso a qualsiasi angolo di qualsiasi stanza e loro lì, imperterriti a coltivarsi un’esistenza sontuosa e assurda, senza intimità, senza spazi vuoti, senza neanche quei buoni odori di cucina che pure servono a rinfrancarti l’animo nei giorni opachi della vita. Chi non si nutre di sola mondanità sa bene che anche un buon tegame di ribollita coi suoi mille odori che a rivoli invadono la cucina può servire a tirarti su di morale in certi momenti. L‘è proprio strulla la gente se pensa di poter vivere sempre in vetrina! (Pensava, seduta dal suo osservatorio). Prima o poi il freddo arriva per tutti, belli miei!
Bene. Una giornata come le altre, dunque. Sembrava. Certo, come le altre di quel vivere. Gaio, ma improbabile. Eppure qualcosa stava cambiando. Uno sguardo diverso, un gesto non più misurato e da bravi damerini, impalati com’erano in quelli che potevano sembrare abitucci e che invece valevano fior di quattrini. Qualcosa che lei (seduta alla sua postazione) non capiva bene; di alta finanza non se ne intendeva punto, che volete, una casalinga attempata e male in arnese che ne può capire di certe cose. Però, lo sguardo, sì, lo si capisce subito. Specie se accompagnato da un gesticolare esagitato e minaccioso, da un tono di voce alterato da un odio meschino che quanto più è meschino tanto più si fa velenoso e infallibile nell’attuazione dei progetti malsani. Insomma, adesso si esagerava proprio. Sobbalzò sulla sedia quando le grida cominciarono a fendere l’aria calda del tinello da dove spiava comodamente il tutto, da giorni e giorni, non vista e non udita, ospite impicciona, sì, ma garbata al tempo stesso. La paura le arrochì la voce e le affievolì i sensi ma non l’udito: lo sparo, quello sì, l’aveva sentito bene. E lui, Fernando, lui s’era accasciato con una smorfia di sofferenza nel suo stesso sangue, su quel bel tappeto che da lì, dall’apertura del solito vetro, lei non poteva scorgere in tutta la sua ampiezza. Madonna Santa, era proprio morto. E davanti a sé lei poteva vedere l’assassino: bello e fiero come un dio. I soldi sono la rovina dell’anima. Ma lei lo conosceva quel volto, l’aveva già visto, ne era sicura, ma non ricordava dove. Forse a casa di un parente o al matrimonio di qualcuno, chissà. Non ricordava, ma lei, la testimone dell’omicidio, l’omicida l’aveva già visto, ne era più che certa. E ora lui era rimasto là, impietrito, con gli occhi sbarrati sulla vittima e quando d’ un tratto li inchiodò su quelli di lei, il terrore le si schiantò nella testa, nelle ossa, nelle viscere. Ebbe la percezione della sua vulnerabilità, della sua visibilità. Lui di certo ora sapeva che lei aveva visto. Non c’era dubbio: lui si era accorto della sua presenza e avrebbe fatto di tutto per raggiungerla, per impedirle di parlare, forse per ucciderla. La voce che prima le si era annidata nello stomaco pian piano cominciò a serpeggiarle su su per l’addome come un bruco peloso finché le uscì dalla gola in un urlo prolungato che la paura di essere udita non riuscì a reprimere, mentre lui, l’assassino, era sempre lì, statua di cera sorda e fredda, come in posa davanti a milioni di occhi invisibili.
“Fernando! L’ hanno ucciso! Hanno ucciso Fernando! Era così buono! L’ hanno ammazzato! Madonna Santa!”
Gridò il nome della vittima come se l’avesse conosciuta da sempre, con affetto ingigantito dall’oltraggio efferato della sua morte.
Fatima (che da tempo l’accudiva alleviandole malattia e solitudine) accorse confusa e accaldata per l’emozione. L’ anziana donna ricostruì come meglio poté le sequenze del brutale delitto e la badante, rincuorata e perplessa, spense la televisione sulla pubblicità dei biscotti.
“Si calmi, signora, e prenda le sue medicine. Vedrà che non è successo niente”.
“Niente? E tu lo chiami niente? Quel poveretto è morto e io ho visto tutto. Capisci? Tutto! Riaccendi!”
“Ma è finita, signora! E’ finita la puntata!”
“Ma ora comincia il telegiornale. Così parleranno della sua morte e diranno pure se l’hanno acciuffato, quel maledetto. Oh, Madonna, fa’ che l’abbiano preso! Perché di certo quel disgraziato m’ ha vista, m’ ha vista !”
Un sentimento d’ ilarità misto a sconcertata impotenza aleggiò nello sguardo scuro della ragazza che riaccese l’apparecchio, deambulando impacciata e incredula fra la televisione e la madia dove erano riposte le medicine. L’edizione della sera martellava notizie dalla politica alla cronaca, dalla rubrica della borsa a quella del tempo, ma di Fernando, niente. L’anziana donna iniziò ad agitarsi di nuovo piagnucolando sulla scomparsa del giovane e sulla propria incolumità e Fatima cominciò a stare al gioco, tentando di convincerla dell’evidenza dei fatti, e cioè che quella cosa orribile era successa da così poco tempo che, sicuramente, loro, quelli del telegiornale, non potevano saperlo ancora e che quindi aspettasse fiduciosa l’edizione dell’ indomani. Sì, ne avrebbero parlato il giorno dopo e lei non si preoccupasse minimamente per sé, perché lui, l’assassino, era matematicamente certo che non l’ aveva vista: quel vetro era come gli specchi speciali dei film polizieschi dove vede solo chi sta da una parte e dall’altra non si vede un bel nulla. Così anche quelli della polizia e del telegiornale non l’avrebbero disturbata, non sarebbero venuti a chiederle proprio niente. E pian piano la mente confusa della donna s’assopì nella dissolvenza di immagini e di ricordi, di esistenze reali e prese in prestito da finzioni di scena. Tutto è reale nelle menti impenetrabili. Ancor di più lo è il sogno.
_ Il commissario si chinò sul cadavere, riverso a faccia in giù contro il tappeto di ciniglia color rosso bordò, pietoso camuffamento del sangue versato. Nessun segno di disordine nella stanza. La vittima era stata colta di sorpresa. Ora del decesso: le 21 circa della sera precedente. Questo il responso del medico legale. I vicini sarebbero stati interrogati nel tentativo di acquisire informazioni utili alle indagini, ma, stando alle prime dichiarazioni rilasciate dalle famiglie degli appartamenti adiacenti, nessuno aveva udito né visto nulla di strano. Il colpo era stato esploso da lontano, con il silenziatore di una Beretta calibro nove (questo sarebbe stato poi l’esito della perizia balistica), e la traiettoria del proiettile non aveva trovato neanche l’ostacolo del vetro, dato che la finestra a fianco del televisore era aperta a causa del caldo torrido di quelle giornate di luglio.
Era stata la governante a dare l’allarme, la mattina alle otto, poco prima del rinvenimento dell’altro cadavere, quello di un facoltoso agente finanziario che risiedeva nella villa di fronte e che in nessun modo risultò legato all’anziana donna da rapporti di parentela, frequentazione o interessi di alcun genere.
da: Angela Ambrosini, “Semi di senape. Racconti dal vero”, L’Autore Libri, Firenze 2007