Sheyra

di

Angela Fabbri


Angela Fabbri - Sheyra
Collana "Le Schegge d'Oro" - I libri dei Premi - Narrativa
15x21 - pp. 276 - Euro 16,50
ISBN 978-88-6587-2482

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In copertina: fotografie dell’autrice


Pubblicazione realizzata con il contributo de IL CLUB degli autori in quanto opera è finalista nel concorso letterario Jacques Prévert 2012


Sheyra è una ricca ragazza americana, tanto distaccata dalla vita e dalla propria vita che ha accettato un fidanzato ufficiale, purché stia spesso distante. Intanto ha un innamorato che le gira per casa: è Steve, che pilota il Piper di suo padre.
Il romanzo si apre su una sua improvvisa e irremovibile decisione, presa forse inconsciamente per salvarsi da una vita che non è niente per lei: andare in Amazzonia.
Sarà quello il teatro di un suo primo cambiamento: attraverso gli uomini nuovi che conoscerà, imparerà a capire meglio quelli venuti prima.
Insieme a questo, anche il suo giovane mondo (Sheyra ha 19 anni) tutto sommato solido e basato su fondamenta semplici come l’amore di suo padre Nicholas, comincerà a sgretolarsi e tutto diventerà un ‘forse’.
Sarà un’altra donna a portare avanti l’opera: un’estrosa e sgangherata psicologa che ha il doppio dei suoi anni e che seguirà a Londra.
Dopo aver divorato l’amore appena conosciuto, Sheyra si scoprirà per quello che non è mai stata: capricciosa, esigente, piagnucolosa, insopportabile. Ha finalmente conosciuto le pene d’amore.
Ma anche qui arriverà un fatto imprevedibile e che colorerà la storia di giallo: un personaggio misterioso ha seguito le mosse di Sheyra per tutto il libro, fin lì a Londra. Dove, nel salone dell’Hotel De Vere, in un incontro che vede convocate e coinvolte tutte le persone che con Sheyra hanno avuto a che fare, si scopriranno le carte.
Ma il libro, arrivati qui, non è ancora finito.


Sheyra


Dedicato a

Renzo Palmer, grande attore di teatro
e meraviglioso doppiatore.

e a

Ettore Pippo Govoni, curatore e direttore della Sala E.F.E.R. (Ente Ferrarese Esposizioni e Rassegne).

Entrambi, con il loro intelligente e gradevole senso dell’umorismo, avrebbero potuto interpretare la
parte del signor Nicholas Shaw, uno dei principali personaggi di questo libro.

Angela Fabbri


PRIMA PARTE

SHEYRA

«Ma allora è vero, Sheyra, tu vuoi andare in Amazzonia!»
«Senza alcun dubbio, Steve!» affermò la voce di lei.
Il giovane era in piedi accanto al divano dove era distesa la bella ragazza e il sole del meriggio, che splendeva sulle mattonelle del grande terrazzo, adombrava la stanza.
«È pericoloso, Sheyra!» implorò Steve Evans, il pilota, inginocchiandosi ai piedi di lei e guardandola in viso con espressione preoccupata.
Sheyra non rispose, scostò una ciocca dei capelli castani e abbassò le palpebre sugli occhi verde smeraldo.
Quando Steve si chinò per baciarla, il corpo di lei ebbe un guizzo sul divano e Sheyra s’alzò di scatto.
Il giovane rimase male, si voltò a guardarla e la vide che usciva sulla terrazza assolata.
Si levò agilmente da terra e la raggiunse.
Allora Sheyra gli si accostò spontaneamente e poggiò il capo sul petto di lui.
Il cuore del giovanotto accelerò i battiti: non gli era permesso tutti i giorni avere fra le braccia la figlia del padrone.
«Sheyra, Sheyra, vuoi davvero andare via e così lontano?»
Le loro guance stavano scivolando una sull’altra, poi i baffetti di Steve si trovarono in posizione e la sua bocca si aprì su quella di lei.
Il sole del meriggio disegnava sulle piastrelle della terrazza un’unica ombra.
«Davvero l’Amazzonia è così importante per te?» scivolarono lentamente in ginocchio, incollati insieme ai loro vestiti.
«Vuoi ancora partire…?» gli tremava la voce e gli pareva di avere le mani di gelatina, come ogni volta che baciava Sheyra.
Steve aspettò.
«Domani, come stabilito.» concluse lei.
«Non mi ami, per me stesso?»
«Te stesso? E cosa sei tu? Questo bacio?»
Steve aveva tanto pazientato e sopportato ogni capriccio, ma questa volta il timore di perderla e il vedersela sfuggire d’un tratto, quando già l’aveva creduta sua, lo infuriarono. Il sangue gli salì al viso, le iridi azzurre s’incupirono, le labbra gli tremavano, ma esplose.
«Sciocca! Maledetta sciocca! Ma cosa credi? Che starò qui ad aspettarti tutta la vita e farò la cuccia come un cagnolino? Ah no! Se vuoi crepare fai pure, sei libera di sceglierti la fine che preferisci, hai soldi tu! Boa, signorina? O preferisce un coccodrillo? O un piccolo, grazioso piranha? Ma io penso piuttosto che tu voglia provare l’emozione di un amore primitivo fra le braccia di un selvaggio!»
«Ma cosa dici? Sei pazzo?»
«Non sono mai stato così sano purtroppo! Credi non sappia che il tuo divertimento più grande è farti corteggiare da scansafatiche straricchi come te? Nessuno di quei cascamorti ti ama, tantomeno il tuo sedicente fidanzato, Richàrd Epinày, faccia da schiaffi!! Già, tu sei capace di far girar la testa a tutti!! Sei…!»
«Basta, basta offendermi! Che cosa vorresti dire, che me la faccio con tutti? Ma se mi fossi lasciata andare un po’ di più con te non avresti detto di no, vero?»
Steve la schiaffeggiò duramente.
«Come puoi dire una cosa simile di me? Io ti amo per davvero, se volessi solo… Saprei trovare chi mi soddisfa!»
«Vai da loro, dunque, va’ dalle tue ragazze, povero bel pilota! I tuoi meravigliosi baffetti attirano le femmine come le mosche!»
«Maledetta! Maledetta ragazza e maledetto il giorno che ho perso la testa per te! Tu vuoi farmi soffrire perché questo ti diverte, ma io non starò qui a farti da zimbello, eh no, cara, io me ne vado, ti amo ma vado via, e per sempre! Tu vuoi solo l’avventura, Sheyra, io vado via, allora, e tu non mi vedrai mai più.»
Le ultime parole di Steve svanirono nell’aria libera, ma la mente di Sheyra le ripeteva, incredula.
Quando si riebbe, Steve non c’era davvero più. Il silenzio del crepuscolo ormai vicino le dava un senso di vuoto.
«Ma tornerà.» disse con un moto d’orgoglio «Non potrà resistere lontano da me!»
Fissò un attimo quel vuoto.
«Ma io, io come potrò resistere senza di lui?»
Dopo la sorpresa venne la rabbia, la rabbia contro se stessa, contro Steve, contro il mondo, contro la vita che era costretta a condurre.
«Steve non mi vuole più perché così come sono non gli vado a genio. Bene. Lui quando è triste e arrabbiato si consola con qualche sgualdrina, io troverò pure qualcuno…»
Aveva paura ma era orgogliosa, voleva buttarsi via perché non aveva senso la vita e l’amore se non poteva avere Steve.
Sentì come un segreto piacere al pensiero di dar via per niente ciò che, se Steve l’avesse amata, avrebbe dato con tanta gioia a lui: voleva tormentarsi e punirsi quasi, e con lei anche Steve perché non erano riusciti a capirsi.
«Avrei voluto dire ancora qualcosa, ma… non me l’ha permesso.»
Si sentì d’un tratto oppressa dal silenzio del crepuscolo che stagnava tutto intorno.
Si appoggiò alla balaustra e alzò gli occhi umidi al tramonto: il sole era ormai ridotto a una fetta di cocomero, rossa e bassa dietro le colline lontane.
Le brume della sera estiva avvolgevano la pianura sottostante la villa e riflessi infuocati tremolavano sulla figura slanciata della fanciulla.

Si sentiva sola e triste come non le era mai capitato prima.
Con i gomiti appoggiati alla ringhiera bassa e il bel viso fra le mani, fissava il paesaggio e un profondo struggimento l’aveva invasa.
Gli occhi le luccicavano e le palpebre con le lunghe ciglia nere erano appena appena abbassate.
Tuttavia, dopo poco ancora, la sua natura ebbe il sopravvento.
Rialzò la testa orgogliosamente e guardò sprezzante dabbasso e lontano.
Il sole scomparve in quel momento, quasi temesse di subire un confronto.
Sul cielo grigio perla pennellate di nubi sfumavano nell’orizzonte chiaro, oscure e rosa pallido.
I raggi del sole tremavano nell’atmosfera in un estremo addio del giorno.

Sheyra rientrò in casa.
Non erano ancora state accese le luci e tutte le stanze erano avvolte da una vaga penombra.
Anche la sua camera era rischiarata appena dalla tenue luminosità del crepuscolo che entrava dalla finestra spalancata sull’occidente e che rendeva in confuso l’immagine degli oggetti all’occhio della fanciulla.
Si sedette alla scrivania proprio sotto quella finestra: sul ripiano, di fronte a lei, montata in una bella cornice, su piedestallo, stava una fotografia in bianco e nero. La foto di Steve.
La prese e la portò lentamente sotto la luce.
Poco a poco si scoprirono i particolari di quel viso: il mento forte, le labbra dolci e piene, gli ironici baffetti neri, poi le guance appena appena paffute nel sorriso, il naso leggermente aquilino, gli occhi, chiari e arguti.
Sheyra conosceva bene quegli occhi che erano di un azzurro intenso come il cielo d’estate.
Di quel viso simpatico e cordiale faceva superba cornice una bella capigliatura scura, quasi nera, pettinata con la riga a mancina, che scendeva fin sulle guance in due lunghe basette folte.
Steve.
Le faceva piacere nonostante tutto che il giovanotto avesse dimostrato carattere: era troppo abituata agli sdolcinati figli di papà che in genere le ronzavano dattorno prima che si fidanzasse con Richàrd. Altro bel tipo di fannullone.
Papà le aveva chiesto se lo voleva avere per fidanzato visto che si faceva più insistente degli altri e che i suoi erano amici di famiglia e Sheyra aveva accettato.
Senza impegno, però, solo per far un piacere al caro paparino stufo delle insistenze del padre del ragazzo.
Ma Steve, non poteva restare?
Se l’avesse baciata ancora e avesse cercato poi di sottometterla alla sua volontà lei avrebbe fatto qualunque cosa per lui. Steve aveva ceduto troppo in fretta.
Tacitato il suo orgoglio, Sheyra fu in rotta con l’amato.
«Vattene al diavolo!» gridò.
La foto fu gettata a terra: il sorriso di Steve si spense nel buio.

***

«Sheyra cara, ho da darti una notizia che non ti farà piacere.»
«Parla, di’ pure, papà.»
Il signor Nicholas Shaw giocherellò un attimo con le posate, poi con malcelata noncuranza tagliò la succulenta bistecca in due enormi pezzi, sollevò sulla forchetta qualche foglia d’insalata, fermò il gesto a mezz’aria e disse d’un fiato:
«Steve s’è licenziato.» e si ficcò in bocca l’insalata gocciolante d’olio e d’aceto.
Si aspettava una reazione sorpresa, ma guardando di sottecchi la figlia, il signor Shaw non notò nulla.
«Lo sapevo già.» disse la ragazza.
Suo padre, che stava tagliando con forza la carne, s’arrestò di botto e guardò la figlia con espressione stupita.
«Sì, papà, lo sapevo.»
«Allora saprai senz’altro anche il perché!» la fissò con sguardo scrutatore, aggrottando un attimo i folti sopraccigli sul grande naso «O forse sei tu il perché?!»
Non era una domanda né un’affermazione, al che Sheyra non sapeva come rispondere.
«Ho capito.» disse suo padre, rimettendosi a mangiare «È tutta colpa tua. Mi spiace, perché Steve è un ottimo pilota e mi era molto utile. Non è vero che “ci” era molto utile?»
«Sì papà, è verissimo.» rispose la ragazza con un po’ d’imbarazzo, poi «Non prendere quelle patate, papà, lo sai che ti fanno ingrassare!»
«Ingrassare! Io adoro le patate, non posso farne a meno!»
«Sarà bene che mi decida a dire al Dottor Thompson che bel modo hai di seguire la dieta; ho parlato con Theodore, bella la trovata delle vedette sul tetto per avvertirti dell’arrivo del dottore!»
«Cara, alla mattina mangio molto e volentieri, se il povero Thomps mi vedesse verrebbe un infarto a lui anziché a me! Ma tu non raccontargli nulla, cara!»
«Dovrò decidermi, invece ti dico!»
«Bene. Io sono stufo allora di vedere in tavola ogni sorta di ben di Dio sapendo che anche un pizzico può portarmi nella fossa!»
«Tu hai ragione, ma io devo pur mangiare!»
«Già, il mio povero uccellino denutrito. Schizzinosa, ecco cosa sei!»
«Ma va’, è che tu hai sempre fame.»
«Ammazzami, sono fatto così. Cosa c’è di bello nella vita? Il piacere della tavola, null’altro!»
«Sicuro?» ammiccò la fanciulla.
«Sicuro. Che vorresti insinuare mia bella viperella? Senti? Oggi sono anche poeta.» Il signor Shaw si compiacque con se stesso.
«Ecco i tuoi pomodori, papà. Non fanno ingrassare e rinfrescano.»
«No! Non li posso soffrire! Tzé, guarda un poco che figlia mi devo ritrovare!»
Il povero signor Shaw scosse il capo e l’appoggiò nel cavo della mano piantando di scatto il gomito sul povero tavolo e facendo saltare i coperchi delle vivande.
Poi, i suoi occhi, fattisi tristi, riacquistarono d’un tratto vivacità.
«Fermo papà, lascia quella patata!»
«Ma quale patata, cara, io non ne vedo!» esclamò il signor Shaw con voce angelica, cercando di far sparire in fretta il malloppo.
Deglutì.
«Sei un vecchio imbroglione! E grasso per giunta!» lo rimproverò la ragazza «Sei peggio di un bambino!»
Il signor Shaw guardò sua figlia per scoprire quanto parlasse sul serio, poi «Ecco, m’hai fatto arrabbiare!» disse con voce piagnucolosa, piantando le posate sul piatto e alzandosi rumorosamente da tavola «Quando tua madre era ancora al mondo…»
«Avevi dieci anni di meno e una figura d’atleta!» gli rispose Sheyra alzando il viso verso di lui.
«Forse hai ragione.» disse suo padre, andando davanti a un’enorme specchiera «Ora sono piuttosto grasso e ho quasi 48 anni.»
Si tastò la pancia tonda.
Sheyra lo guardò senza che lui se ne accorgesse.
Era ancora piuttosto bello, perché, seppur grasso, era alto e la corporatura muscolosa non era ancora annegata nella pinguedine. Aveva la faccia paffuta e il doppio mento, ma un sorriso simpatico e begli occhi verdi, lo stesso colore dell’acqua chiara di un piccolo torrente di montagna. I capelli vagamente ricciuti d’un colore castano che appena tendeva al grigio non presentavano il minimo accenno di calvizie.
«Non sono ancora da buttar via.» si pavoneggiò il signor Shaw davanti allo specchio.
«Affatto, papà.» disse Sheyra, alzandosi da tavola e andandogli vicino.
Il signor Shaw e sua figlia si specchiarono insieme e il padre accarezzò i capelli di lei che aveva appoggiato il capo alla spalla di lui.
«Sei davvero bella, Sheyra.» le disse «Tua madre era come te. Faceva girar la testa a tutti i giovanotti.»
«Finché ne arrivò uno bello e simpatico che fece girar la testa a lei.»
«Come fai a saperlo? È proprio vero. Lei si girò e ci siamo visti. Lei era con un gruppo e io con un altro. Lei… era bellissima. E credo che fu proprio in quel secondo che m’innamorai e lei s’innamorò di me. Ma, raccontata così, questa faccenda sembra molto lunga, invece fu, proprio, solo un attimo. E quello seguente eravamo già vicini e insieme. Per sempre. Anche questo sapevamo.»
«So che vi volevate molto bene tu e la mamma.»
«E tu come lo sai? Eri tanto piccola.»
«Vedevo dai vostri sguardi, vedevo che, anche se eravate in compagnia di qualche amico, in realtà eravate sempre soli.»
«Ed era così infatti cara. Ma tu…»
«Una volta vi ho visti soli, in giardino. Ero corsa giù per giocare e voi eravate seduti su una panchina e vi tenevate per mano. Poi tu hai baciato la mamma!» Sheyra nascose il bel viso nella spalla del padre.
«Oh, cara! Tu hai visto tutto questo!?»
«Sì, papà! Oh, la mamma era…»
Ma il pianto la soffocò e il padre la tenne fra le sue braccia senza dir nulla, accarezzandole lievemente i capelli.

***

Mentre in casa del miliardario americano Nicholas Shaw avveniva questa conversazione fra padre e figlia, in un quartiere della città bassa, che oserei definire malfamato, in una catapecchia oscura, cinque uomini erano riuniti intorno a un tavolo.
Le loro facce erano rischiarate dalla luce fioca di una candela il cui fusto, bianco e lucente, era l’unica cosa nuova che si poteva trovare nel raggio di un miglio. Erano lì i componenti della banda Tredman: Nevil, il capo; Marvin, il suo braccio destro; i loro tre sgherri, Clift, Ash e Dell, i cui cognomi erano noti solo all’anagrafe e all’ufficio archivio della polizia di stato.
«Allora è deciso.» diceva Nevil Tredman «Domande?»
Gli altri quattro furfanti rimasero muti, al che il capo fece il riassunto anche per noi.
«Domani parte la nostra preziosa miss Shaw sul suo aereo privato. Noi la seguiremo fino allo scalo in Sudamerica con l’aereo di linea già fissato. Poi ci muoveremo secondo le mosse dell’ereditiera, intesi? È come dire che reciteremo a soggetto! Non dovremmo avere molta concorrenza, ma, se anche fosse, dovremo riuscire a concludere o addio prestigio e guadagno! Quelle sporche carogne di Carroll Pyle e Dutch Kelly ci hanno soffiato parecchi lavori, chissà che non si facciano vivi! Nel qual caso voglio averli in mia mano per trattarli come meritano! Tenete pronti gli strumenti e ricordate: non si agisce se non lontano da ogni forma di vita civile: in piena foresta! Bene. Tenete presente che una fregatura ci ridurrebbe sul lastrico! Ora, se non avete nulla da obiettare, sarà meglio dividerci.»
Soffiò sulla candela.
Uscirono uno dopo l’altro a distanza di qualche minuto, salutandosi con un ansioso:
«A domani e… come stabilito.»
Lasciarono presto la catapecchia deserta.

***

La mattina dopo, alle sette, una sveglia suonò insistentemente in una villetta alla periferia della città. Qualcuno lanciò un cuscino e tornò a dormire: nessuno dei due uomini si alzò.
A mezzogiorno in punto suonò una sirena in lontananza e uno dei due fratelli addormentati si scosse un poco, non per il suono, bensì per i raggi di un infuocato sole di giugno che, dai vetri spalancati, lo colpivano proprio in faccia e sugli occhi da cui era caduta la protezione del lenzuolo.
I fumi del sonno si diradarono lentamente e Joshua Mac Ewan, altrimenti detto Josh, alzò la testa dal cuscino, dal cuscino che non c’era, che era inspiegabilmente sparito.
«Ohhh!» brontolò Josh e si sedette sul letto «Randy!» scosse suo fratello.
Randon Mac Ewan biascicò qualche ingiuria sul guanciale e si coprì la testa col lenzuolo.
«Ma, Randy, svegliati! Dobbiamo partire!»
A quelle parole Randon Mac Ewan saltò giù dal letto.
«Il rapimento! Santo Cielo, Josh, che ora è?»
«A giudicare dal sole avrei un’idea, comunque vediamo…» s’alzò e, grattandosi la pancia, andò faticosamente verso il tavolo.
«Ecco! Mezzogiorno passato!»
«Mezz… Ma cosa dici?! Noi dovevamo partire alle otto!»
«Sì, ma stamattina, quando la sveglia ha cominciato a suonare, ecco, ora me ne ricordo, l’ho fatta smettere tirandole il cuscino!»
«Somaro che non sei altro! E adesso cosa diremo allo zio, eh? Ora che abbiamo perso l’aereo!»
«Ma, non lo so, Randy.» disse Josh con voce assonnata «Io direi di tornare a letto.»
«Ma nemmeno per sogno! Lo zio ci ha insultati iersera! Ricordi? “Ragazzi, è una vergogna che apparteniate alla nostra famiglia! Come, una famiglia di furfanti famosi come la nostra, deve contare fra i suoi membri due tipi come voi bravi solo a rubare le galline della nonna!?!”»
«Bravo, Randy, fai proprio la stessa voce dello zio!»
«Grazie, Josh.» disse Randy che, agli stessi 23 anni, dei due gemelli era quello che aveva un po’ di sale in zucca.
Si oscurò di nuovo in viso e riprese «“Io vi lancio una sfida! Domani parte Sheyra Shaw, la ricca erede delle fortune dei Shaw: se siete dei veri Mac Ewan riuscirete a rapirla e a farvi pagare un congruo riscatto. Altrimenti, farò di tutto perché siate cacciati dalla famiglia!”»
«Sì, Randy, ha detto proprio così. Solo che dopo ci ha offerto da bere. Noi abbiamo bevuto, bevuto e bevuto…»
«E oggi abbiamo dormito! Che volpe lo zio Jasper! Ma noi gliela faremo vedere, non è vero, Josh?» abbracciò il fratello, saltellando per la stanza.
«Certo, Randy!»
«Bene. Non importa se abbiamo perso l’aereo. Partiremo con il prossimo, ritroveremo le tracce di Sheyra Shaw, e, perdiana, la porteremo allo zio! Dopotutto, in confidenza,» avvicinò la bocca all’orecchio del fratello «ho sempre sospettato che volesse passarci una notte di follie. Ti ricordi le foto che ci ha mostrato? È così bella!»

***

«Carroll…» sospirava il gangster strusciando il viso e la bocca sul collo di lei.
«Dutch! Che ne diresti se facessimo un giochetto a quel ritardato di Nevil?» disse lei, gingillandosi col bicchiere di whisky.
«Fa’ tu, Carroll. A me basta che tu voglia e io faccio.» rispose Dutch senza distogliersi dal suo piacevole compito.
«Basta, Dutch! Fai schifo! Come si fa a perdere la testa così?» disse Carroll scostandosi un attimo.
«Sono pazzo di te, sono pazzo!» ripeteva lui avvinghiandola a sé.
«Sei carino, sei simpatico, ma basta adesso!»
«Sono qualcosa di più, Carroll. Sono il tuo amante innamorato.»
I baffi del gangster le facevano il solletico sul seno.
«Hai ragione, caro. Datti da fare allora.»
Il bicchiere di whisky scivolò sul tappeto.

***

Una bella auto scoperta si fermò alla base della collina. Il guidatore, sbattuto lo sportello, iniziò a piedi la salita.
Correva trafelato su per il sentiero bianco di polvere accecante sotto il sole del mezzodì, diretto alla bella villa dei Shaw, in cima alla collina.
Il cancello era aperto e un giovane sfiatato si precipitò in giardino andando a sbattere contro un domestico che arrivava in quel momento.
«Signor Epinày!» esclamò.
«Theo, dov’è il signor Nicholàs?» chiese il giovanotto e la sua voce aveva un accento vagamente francese.
«È sulla veranda che fa colazione, monsieur!»
Il giovane scostò il domestico e si avviò deciso.
Nicholas Shaw, semidisteso su una sdraia, all’ombra di un ombrellone variopinto, stava consumando la sua prima colazione con evidente compiacimento.
Fissava un attimo i panini dolci imburrati e spalmati di marmellata e li faceva sparire in bocca interi con gusto indicibile.
L’apparizione improvvisa del giovane Epinày non lo distrasse affatto dalla sua piacevole occupazione.
«Oh!» concesse solo al giovane francese «Ecco qui il nostro Richàrd! Già terminate le vostre vacanze?»
«Sì, Mr Shaw, proprio in tempo per apprendere che Sheyra…»
«Si stava bene a Saint Tropez? Ditemi, ditemi. Le ragazze sono belle quest’anno?»
«Stavo dicendo che son tornato appena in tempo per apprendere che Sheyra sta consumando le proprie vacanze senza avvertirmi!»
«Via, monsieur Richàrd, non siete voi stesso andato in vacanza da solo? Mia figlia ha i vostri stessi diritti!» disse bonariamente il signor Shaw.
«Ah no! Fu lei a non voler venire con me quando la pregai!»
«Eh, certo,» sorrise Shaw «sai che divertimento…»
«Mr Shaw!»
«Uh! Scusatemi Richàrd, vi ho offeso! Non badavo a quello che dicevo. Vedete. Sono impegnato.» sollevò alta una focaccina spennellata di cioccolata, con sopra qualche diavolino rosso e verde.
Il giovanotto si spazientì. Aveva ficcato le mani nelle tasche dell’abito di flanella chiara, fissava il pavimento della veranda con gli occhi verde slavato e taceva gonfiando le gote.
Il buon signor Shaw si accorse che il giovane stava per scoppiare e, con la bocca ancor piena della gustosa focaccina «Via, Richàrd, venite all’ombra! Vi scioglierete con tutto quel sole!»
Il giovane vide per un attimo l’immagine di Mr Shaw che rosolava al sole con una mela in bocca e gioì.
«Ma al diavolo! Non sono mica grasso come voi!» esplose, stanco di seguire quell’abboffamento.
«Eh già. Caro, se volessi provocarti ti direi che sembri un manico di scopa a cui della gente misericordiosa si è preoccupata di mettere dei vestiti… costosi. Non devi essere simpatico da vedere, a letto! Ho idea sia per questo che le donne ti sfuggono e vanno in vacanza per conto loro.»
Richàrd Epinày divenne rosso di collera, voleva rispondere ma la convenienza aristocratica glielo impediva: prese a camminare su e giù furiosamente.
Ogni tanto guardava Mr Shaw che, pacifico e beato, ingollava ogni sorta di pasticci, e si chiedeva quando sarebbe scoppiato; poi si fermò di colpo di fronte a lui.
«Caro Richàrd, non fate mai nulla per quei poveri capelli biondi? Se continuerete a trascurarli, a trent’anni sarete completamente pelato!» aveva parlato senza guardare il giovanotto che, ricordatosi improvvisamente, si toccò i capelli furibondo. Ne perdeva di frequente e non sapeva come fare.
«Ho provato diverse lozioni, ma non è servito a niente!»
«Guardate i miei.» questa volta alzò il capo. Se li tirò «Robusti e attaccati da fare invidia. Voi pensate troppo, ragazzo mio.»
Il giovane fece un gesto spazientito e «Partirò domani stesso col mio aereo! Ritroverò Sheyra e voglio avere il permesso di metterla a posto!»
«Ma per carità! La ragazza è vostra: pensateci voi!»
«Bene. Arrivederci, Mr Shaw!»
«E non maltrattatela troppo!»

***

«Naturalmente miss Sheyra, tutto è pronto: lei può partire per l’interno in qualsiasi momento…»
«Bene, Ray. Sapevo che potevo fidarmi di te. Hai sistemato tutto a puntino.»
«Bontà sua! Io sono solo il suo segretario.»
«La scelta di mio padre fu perfetta: sei il miglior segretario che abbia conosciuto. Bene. Mi riposerò in albergo questa notte e domani mi condurrai al villaggio.»
«Si ricordi che là manca l’acqua potabile, mentre nella cittadina dove siamo adesso ci sono numerosi pozzi e fontane.»
«Domani vedrò. Dimmi, ci sono insetti velenosi da queste parti?»
«In città sono solo schifosi, ma per lo più per le loro dimensioni. In albergo si troverà bene perché c’è stretta pulizia, per il resto non posso garantire nulla. L’Amazzonia è quello che è.»
«Mi ci abituerò.»
«Dove tutto è legno e canna è facile per ogni sorta di animaletti fare il nido.»
«Ho fatto le iniezioni prestabilite e speriamo che non succeda niente.»
«Ma no! Vedrà che andrà tutto bene! Non abbia paura! Caso mai vedesse qualche brutta bestia, mi chiami!»
Sorrise, immaginandosi la bella Sheyra uscire seminuda dalla sua camera e correre a battere alla sua porta.
«Non ho detto di aver paura!»
«Già.» disse Ray con espressione sognante.

La notte era calda e afosa, Ray non riusciva a dormire.
Il caldo umido dell’equatore lo bagnava tutto e gli mancava l’aria.
Stava con le braccia incrociate sotto il capo, pensava, pensava e sorrideva.
Udiva Sheyra tempestare la sua porta di colpi deboli e concitati, lui correva ad aprire, gli cadeva fra le braccia una fanciulla in preda al terrore perché il suo letto era infestato da orribili animaletti.
«Oh, Miss Sheyra, venite qui con me!» la adagiava con delicatezza sul letto, si sedeva sulla sponda e fissava il bel corpo della fanciulla, tenendole strette le mani.
Sheyra lo guardava con occhi smarriti e non parlava.
Lui si chinava su di lei, posava le labbra… «Addio!» esclamò ad alta voce il giovane Ray, contrasse i muscoli e sentì un profondo e acuto dolore al petto.
Sì, forse era questo che desiderava, forse era solo questo, portare Sheyra nel suo letto…
Eppure non era solo così, mica era uno sporcaccione, lui!
Ma, quando era accanto alla sua giovane padrona, quando ne aspirava il profumo, quando il corpo di lei sfiorava il suo, quando l’onda dei capelli le fluiva sul collo abbronzato, allora i sensi se ne andavano per conto proprio, ballonzolando in una danza atavica, dietro a Sheyra. Era come una magia.
Di chi era la colpa se Sheyra era così bella?
Che vita schifosa quella del dipendente, sempre scodinzolante come un cagnolino che sacrifica i suoi sogni per amore del padrone. E il suo amore per Sheyra era proprio solo un sogno, un sogno immolato nel sogno, ma, nella realtà, sanguinolento come le carni dell’agnello sgozzato sull’altare.
Che bella immagine, quale compianto!
«Sarebbe meglio che sognassi docce fredde e ghiaccioli che mi si sciolgono in bocca.» si disse.
In effetti Ray non udì alcun colpo alla sua porta, non tenne fra le braccia una fanciulla col corpo palpitante contro il suo, non vide Sheyra.
La stanza era invasa dal fumo e l’aria era irrespirabile, Ray aprì la bocca e trasse un gran sospiro: la gola ricevette una zaffata di vapore.
Stordito, dopo una notte calda e tormentata, all’alba si addormentò.

Proprio a quest’ora fu bussato discretamente alla porta.
Raymond Finney, ormai immerso nel sonno, non udì e non mosse un muscolo.
La porta si schiuse lentamente e Sheyra fece capolino.
«Ray…» chiamò piano «Ray?»
Entrò e richiuse.
«Ma come, dormi ancora, Ray?! Che uomo! Sono dieci ore di seguito che è a letto e ancora non si sveglia!»
Si avvicinò alla finestra e spalancò le persiane socchiuse.
La luce viva dell’alba illuminò la stanza d’improvviso. Ray non si mosse d’un palmo.
«Ma come! Ray?!»
Il giovanotto che giaceva pancia in giù si voltò su un fianco e oppose al sole la larga schiena nuda.
Sheyra sorrise e si sedette sul letto accanto a lui.
«Ray…» lo chiamò «Ray, tesoro…?»
Gli accarezzò le spalle e i capelli corti, tagliati a spazzola.
Il giovane si girò di nuovo mettendo in mostra il largo torace muscoloso.
Sheyra toccò il giovane sulla spalla, lieve: Ray rise nel sonno. Allungò le mani e attirò a sé la ragazza.
Adesso Sheyra era distesa su di lui.
«Ray, svegliati dunque!»
«Sì, eccomi…» rispose finalmente il giovanotto, sollevando a metà le palpebre. La vide in confuso e credette di stare sognando.
In fretta l’avviluppò e la baciò nel sonno. Si svegliò di soprassalto.
«Ma!» gridò.
«Uff! Andiamo, Ray, alzati!» gli disse Sheyra rizzandosi in piedi e andando alla finestra «Guarda un po’ cosa mi tocca fare per svegliare questo pelandrone!»
«Mi svegliasse così tutti i giorni,» disse ridendo Ray che, avendola abbracciata e baciata, se pure nel sonno, sentiva di aver accorciato le distanze «sarei in piedi a qualunque ora!»
«Sì, sì, hai voglia di scherzare, caro Ray!» esclamò Sheyra «Vestiti e fa’ presto! T’aspetto giù a colazione.»

«Ma guarda un po’.» diceva con se stessa, nell’ascensore «Anche questo ce l’ha con me! Se fosse un po’ più sveglio forse riuscirei a dimenticare Steve, ma ho idea che…»

***

Mezz’ora dopo, caricati i bagagli in auto, erano in viaggio verso l’interno.
Più avanti presero posto sulla jeep che Ray aveva fissato la settimana prima.
Completato il carico si avviarono nella foresta attraverso un sentiero stretto e polveroso.
Ai lati, emergevano dalle nuvole di polvere, palme e altri alberi tropicali.
Non si era ancora in piena foresta, ma mano a mano che si proseguiva la vegetazione si faceva più fitta, il sentiero più angusto, i sobbalzi della jeep nelle buche più frequenti.
Faceva un gran caldo, pareva di essere immersi in un bagno di vapore, eppure erano solo le sette di mattina e il sole era ancora relativamente basso.
I raggi penetravano obliquamente fra la vegetazione e asciugavano le ultime gocce di rugiada, residuo della notte tropicale.
D’un tratto il sentiero sparve, ristretto a una linea battuta, mentre la vegetazione si faceva oltremodo intricata e le larghe foglie si protendevano sulla jeep.
Le liane erano spesso tese da un capo all’altro di quel sentiero virtuale, cosicché bisognava star sempre attenti a scansarle.
Tutta la foresta risuonava dei suoi abitatori invisibili, segno che non c’era pericolo.
Sheyra si voltava a guardare da una parte e dall’altra del sentiero, ma non riusciva a scoprire nessuno.
Fra il verde dorato della vegetazione tante vite fremevano indisturbate.
Poi la jeep giunse al villaggio indigeno.

Un indio corse loro incontro: portava solo un perizoma intorno ai fianchi e al collo un filo di pietruzze colorate.
Il volto bello e giovane dell’indio sorrise apertamente, i neri capelli lunghi erano stretti intorno alla fronte da un cerchio di teneri giunchi intrecciati.
Fece segno ai due giovani di seguirlo e voltò loro le spalle camminando con passo silenzioso e elastico verso alcuni dei suoi.
«Quello è Tares, il figlio del capo del villaggio.» disse Ray, mentre entrambi si avviavano «Ci porta da suo padre.»
«È un bel ragazzo, questo Tares.» disse Sheyra.
Raymond torse la bocca.
Poco dopo, un vecchio indio, seminudo anch’esso ma agghindato con ogni sorta di amuleti e collane che formavano le sue insegne di capo, stava di fronte ai due giovani.
Al loro venire si era alzato dalla stuoia su cui era seduto con le gambe incrociate e si era fatto avanti, con il viso rugoso atteggiato ad un amichevole ma quanto mai imbarazzante sorriso, perché aveva solo due denti, entrambi cariati.
Strinse la mano a Sheyra e a Ray e li fece accomodare sulle stuoie che Tares e un altro indio avevano portato in quel momento.
Sheyra e Ray si raccolsero con le gambe incrociate.
Anche Tares sedette.
Poi gli sguardi degli indios si appuntarono in una direzione.
Dalla foresta, infatti, sbucò un uomo.
Vestiva un abito chiaro, da cacciatore, sporco di polvere e bagnato di sudore e avanzava a capo scoperto con un fucile a tracolla.
Era alto e abbronzato, con capelli e occhi neri e, nel viso, uno sguardo indomito e fermo.
«Oh, ecco la nostra guida che viene a salvar capra e cavoli! Non so parlare con questa gente, io.» disse Ray «Salve, Mr Scott!»
A quelle parole l’uomo tese la mano verso la fanciulla, senza sorridere.
Sheyra allungò la sua e il cacciatore, chinatosi, la tenne stretta un attimo, piccola e fragile nella sua mano grande e callosa.
«Miss Sheyra Shaw, immagino.»
«Infatti.»
Se quell’uomo non era disposto a sciupare sorrisi, lei non era disposta a sciupare parole.
Il capo invitò il cacciatore ad accomodarsi e con un cenno fece portare frutta fresca, canna dolce e acqua di sorgente.
Mentre tutti mangiavano e bevevano a quel banchetto amichevole, Sheyra si divertì ad osservare la sua guida che, toltasi il fucile, faceva silenziosamente onore alle vivande.
Non era più molto giovane, a tutta prima Sheyra gli avrebbe dato trent’anni, ma ora che lo vedeva da vicino e ne scorgeva le rughe del viso sulla fronte e ai lati della bocca, era più propensa a ritenerlo di là dei quaranta.
Teneva gli occhi, piccoli e scuri, molto vivaci, stretti fra le palpebre, e pareva sempre sul chi vive.
Aveva il vestito in disordine, gli stivali chiazzati di fango e opachi di polvere.
Doveva essere piuttosto forte e robusto a giudicare dalla corporatura, e Sheyra era contenta che un tale uomo fosse al suo servizio.
Si volse infine e incrociò lo sguardo con quello di Tares che la osservava da un po’; imbarazzato, questi abbassò gli occhi, ma quando li rialzò di sfuggita incontrò il volto sorridente di Sheyra, si rassicurò e rise lui pure, sinceramente.
Allora Sheyra s’accorse che, contrariamente agli altri membri della tribù, Tares aveva una dentatura sana e scintillante e decise che il giovane era davvero bello, anzi, incredibilmente bello.
Intanto il vecchio capo fece distribuire stecche di tabacco da masticare.
Sheyra ne assaggiò una, e la mise subito giù.
Alzò gli occhi e notò come il capo si era dispiaciuto del suo gesto: allora gli sorrise con quel suo sorriso maliardo e il capo fu conquistato e felice.

Verso l’una del pomeriggio tutti si alzarono e gli ospiti furono condotti a riposare.
Tares stesso condusse Sheyra ad una delle capanne e serrò le cortine di stuoia.
Il pranzo e il calore afoso del sole a picco sulla radura le procuravano una forte sonnolenza, così non badò molto a questioni di civiltà.
S’arrampicò sull’amaca, si tolse gli stivali di pelle morbida e li lasciò scivolare per terra, si distese e, con le braccia penzoloni, s’addormentò.
Il calore meridiano crebbe ancora poi lentamente calò diventando pressoché sopportabile e lasciò il posto a una piacevole frescura. Quando Sheyra aprì gli occhi era già sera.
Senza rinfilarsi gli stivali, camminando a piedi nudi sulla sabbia polverosa, scostò le stuoie e uscì all’aperto.
Si guardò attorno e scorse nell’ombra lieve della sera una figura d’uomo venirle incontro.
Riconobbe il sorriso scintillante di Tares.
Il giovane indio conosceva qualche parola di inglese che gli era stata insegnata dal cacciatore, così «Pericolo.» disse, indicando i piedi nudi della ragazza.
«Grazie, Tares! Senti, vieni dentro con me, mi aiuterai a guardare dentro a quegli stivali prima che me li metta. Non vorrei trovarli abitati.» e, senza preoccuparsi che avesse capito o no, lo prese spontaneamente per mano.
La ragazza si sedette sull’amaca e Tares controllò e poi le infilò gli stivali guardandola con aria adorante.
Sheyra lo riprese per mano e uscì con lui: l’indio la seguì docilmente.
All’esterno erano stati accesi diversi fuochi e Tares disse «Festa, festa per te.» le sorrise.
«Oh davvero! Tu mi starai vicino, così mi spiegherai!»
Come davvero il ragazzo avrebbe potuto farlo sta solo nell’immaginazione di Sheyra, lui le rispose solo «Sì.»

Sedette accanto al fuoco insieme a Tares e fu ben presto raggiunta dal cacciatore e dal capo tribù. Questi prese posto accanto a lei alla sua destra e il figlio le sedeva alla sinistra.
Scott s’accomodò accanto a Tares e l’ultimo arrivato, Ray, dovette accoccolarsi a fianco del capo con evidente disappunto.
«Come!» urlava dentro di sé «Sheyra si fa fare la corte da due miserabili straccioni e io… me ne sto qua a servirla e riverirla!»
La festa ebbe inizio.
Furono servite carni prelibate arrosto, pesci, erbe delicate, uova d’uccello cotte nel fuoco alla maniera indigena, frutta e canna dolce caramellata, e gli indios andavano e venivano con gusci di noce spaccati a metà, colmi di un latte squisito.
Altri indigeni danzavano fra i gruppi che si erano formati attorno ai fuochi sparsi per l’intero campo.
Fra i barbagli delle fiamme Ray schiumava di rabbia, il cacciatore mangiava e osservava, il capo colmava di gentilezze la sua ospite e Sheyra e Tares stavano vicini.
I tamburi rullavano nel buio; urla di giubilo erano scagliate al cielo: il frastuono era assordante.
Sheyra, spaventosamente eccitata dai canti e dai suoni frenetici, rideva e si dimenava insieme a Tares.
Quando infine il trambusto cessò d’incanto lasciando tutto intorno un silenzio irreale, gli animi dei commensali e dei partecipanti erano esagitati al massimo.
Tares s’offrì di accompagnare Sheyra e i due giovani s’allontanarono insieme.
Ben presto gli ultimi riverberi che guizzavano dalle braci li abbandonarono ed essi s’inoltrarono nell’oscurità.
A un certo momento Tares si fermò, si volse verso di lei, le tese la mano.
Entrambi esaltati dalla festa, stanchi e assordati dal fracasso cessato d’incanto, furono assaliti da una frenesia d’inerzia, e, come se anche ora in loro rullassero, spenti, quei tamburi impetuosi e i danzatori lanciassero i corpi sinuosi nella danza dell’amore, furono attratti l’una verso l’altro.
A lungo con passione trascinarono il loro primo bacio.
Nemmeno i baci di Steve avevano potuto tanto nel suo essere di donna e Sheyra s’abbandonò.
Tuttavia, nel contatto di quel corpo nudo contro il suo, di quelle braccia forti che la serravano stretta, temette e si scostò di scatto, addossandosi a un albero.
Infine era solo un selvaggio! Se quel bacio infuocato avesse svegliato in lui l’istinto primitivo come lo aveva svegliato in lei?
Fissò con spavento la figura atletica ferma a due passi.
Ma Tares non tentava nulla, le braccia gli erano ricadute inerti lungo i fianchi, guardava in silenzio la fanciulla e non capiva perché si era strappata così brutalmente da lui.
In quell’attimo da dietro i cespugli un’ombra saltò addosso all’indiano.
«Maledetto, sporco selvaggio!» e, nonostante fosse alterata, Sheyra riconobbe la voce di Ray.
«Ray!» gridò «Fermati, Ray!»
Si gettò fra i due e li separò.
«Che vuoi fare? Vuoi ammazzarlo?» e indicò il revolver, la cui canna aveva brillato nel buio.
«Che altro dovrei fare? Credi non vi abbia visti?»
«Dovresti imparare a badare ai fatti tuoi!»
«Sono fatti miei!»
«E da quando?»
«Da quando… lo sai come si chiamano le donne come te…?»
Sheyra lo colpì con un manrovescio sulla bocca.
«Scusami, Sheyra…»
«E da quando ti ho permesso di chiamarmi per nome e di darmi del tu?»
«Ma…»
«Basta! Vieni, Tares, accompagnami.»
Si voltò per seguirlo, ma l’indio era scomparso.
«Tares? Tares?»
Le rispose lo stormire del vento fra le foglie e l’urlo lontano di una civetta.
«Ah! ah! Il tuo selvaggio ti ha piantato! Ne ha già avuto abbastanza!» ridacchiò Ray, ansioso di rivincita.
«E smettila, se sei gentiluomo taci e accompagnami!»
«E a me il bacetto non lo dai?» commentò il giovane, ironicamente.
«Ti dò le due settimane, Ray! E piantala di darmi del tu! E… di fare lo scemo.»
«Uh, certo, Miss Sheyra.» s’acquetò Ray e, senza più alcuna parola, la condusse alla capanna.

Quando si trovò sola nel buio e nel silenzio, rivide il volto di Tares e lo desiderò.
Ma il giovane indio era svanito, offeso come già Steve.
Era destino che gli uomini che destavano in lei profondo interesse fossero così orgogliosi e lei con loro così sfortunata.
Il ricordo di Steve le fece male; scomparve nel buio il volto di Tares e riapparvero gli occhi azzurri, la bocca sorridente, le labbra di Steve.
Gli occhi le bruciavano, pianse in silenzio.

***

[continua]


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