Una pianta infestante

di

Angelo Fornier


Angelo Fornier - Una pianta infestante
Collana "I Salici" - I libri di Narrativa
15x21 - pp. 518 - Euro 20,00
ISBN 9791259512413

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In copertina fotografia dell’autore


Che ragazzo fortunato, Gianluigi! È nato in una famiglia benestante, nella “società perfetta” della città di Utopia, dove parole come miseria, fame, carestia e crisi energetica sono ormai prive di significato e poco importa, se questa società perfetta sia nata dalle ceneri di un devastante conflitto nucleare, perché questi sono fatti di secoli prima, affondati ormai nelle sabbie del tempo. Si tratta di Storia, e questa materia, nella felice società di Utopia, non gode di grande considerazione.
La vita di Gianluigi scorre sui rassicuranti binari della routine, scandita dagli obblighi scolastici e da interminabili partite ai videogiochi, dove il ragazzo fugge dalla realtà quotidiana per immergersi nelle realtà alternative, e certo più eccitanti, del cyberspazio. Non desidera e forse nemmeno immagina alternative alla sua esistenza, che sembra essere già stata decisa per lui dai genitori e dal tessuto sociale dove il destino lo ha fatto venire al mondo.
Un bel giorno, mentre è impegnato in un gioco di ruolo, il suo videogioco si guasta. È un incidente da poco, ridicolo, eppure è il punto di partenza per una inaspettata avventura dagli esiti imprevedibili. Gianluigi, per la prima volta in vita sua, dovrà scegliere se proseguire la sua monotona, ma rassicurante esistenza, o affrontare l’imprevisto di una nuova, strana amicizia che lo farà entrare in un mondo totalmente nuovo, incomprensibile e complesso.
Su tutto, l’inquietante scoperta di una misteriosa creatura dai poteri incredibili, che vive nel sottosuolo e che potrebbe sconvolgere l’intera società di Utopia.
Una storia di fantasia, ambientata in un futuro possibile e nemmeno tanto “fantascientifico”, ma anche una storia di amore e di crescita e, non ultimo, una riflessione amaramente ironica su alcuni dei mali della nostra società.


Una pianta infestante

La veglia

Stasera, al villaggio, ci sarà la veglia, come tutti gli anni in questa stagione.
La veglia, che da sempre anticipa la fine del raccolto, la grande festa che domani unirà tutta la gente del villaggio in una giornata spensierata e gioiosa, dedicata ai balli e alla musica, perché anche quest’anno è andato tutto bene, il grano è stato mietuto e portato ai mulini e l’ultima roncola è stata messa a riposo.
La veglia coinvolge tutti… beh, non proprio tutti, ma insomma, ci sono gli anziani, che raccontano le storie, gli uomini e le donne che ridono e scherzano e noi giovani, che come ogni anno faremo a gara a chi resiste di più sveglio, prima di crollare, esausti, da qualche parte. Tavoli, panche o fienili, tutto va bene per riposare almeno un momento ed essere in forma per l’indomani, quando ci sarà da ridere e giocare per tutto il giorno. Durante la veglia, prima di ballare e cantare gli adulti pregano: non che ci sia un Dio in particolare da pregare, non mi ricordo che ci sia mai stato… no, si prega per la buona sorte che anche quest’anno ci ha aiutati, per la terra che ha accolto le spighe, per il sole che le ha fatte maturare, per la buona volontà e la salute che hanno permesso ai mietitori di raccogliere il grano, per il mugnaio e il suo mulino… per questo si prega e si ringrazia perché, alla fine, senza tutto questo non esisterebbe il villaggio o la gente, la mia gente, semplice, generosa, rude ma giusta.
Noi giovani, ragazzini di dieci anni o poco più, andiamo alla veglia per sentire le storie degli anziani, anche qui niente di particolare, insomma… sono sempre le stesse storie, che talvolta parlano di cose spaventose, come lupi o carestie, cupi racconti di torrenti in piena, frane, incendi… ma stasera andremo tutti dal vecchio Joseph per sentire, ancora una volta, la storia della fine della Città! E sì, non c’è un anziano che sappia raccontar bene questa storia come il vecchio Joseph, nessuno che come lui sappia arricchirla di particolari sempre nuovi e sorprendenti, descrivendo le macchine, ad esempio.
Le macchine… nessuno sa cosa fossero in realtà, qualcuno dice che non sono mai esistite e canzona Joseph, lui allora va su tutte le furie, dice che non siamo altro che un branco di ignoranti, che si rifiutano di ascoltare… accidenti, sembra che si arrabbi sul serio, diventa tutto rosso… e allora, prima o poi qualcuno gli offre da bere, lui brontola ancora un poco, poi si scola il bicchiere e ritrova il buonumore.
Dice che le macchine una volta aiutavano l’uomo a fare i lavori pesanti, un poco come fanno con noi i buoi e gli asini, insomma… dice che un tempo era stato così, ma poi era successo che i ruoli si erano invertiti e alla fine erano state le macchine a dominare l’uomo, e a quel punto qualcuno di noi giovani si mette a ridere forte, perché ci viene da pensare a un asino che obbliga il suo padrone a mettersi la cavezza e arare il campo… si ride sempre, con gli anziani e le loro storie, perché le sanno raccontare, sono pazienti, saggi e le serate scorrono via, e la mente si riempie di luoghi lontani, misteriosi.
La città, ad esempio: Joseph dice che era enorme, più grande del nostro comune, tanto grande che un uomo, a piedi, avrebbe impiegato giorni a percorrerla tutta da un capo all’altro, dice che si estendeva a perdita d’occhio, era tutta grigia di case addossate l’una sull’altra e ospitava così tanta gente che un formicaio sarebbe parso deserto, al confronto.
Quante persone? Chiede qualcuno, e lui si gonfia tutto!
– Milioni! – Dice, e nessuno di noi riesce a immaginare quanto sia grande un “ milione”: deve essere un numero molto grande, di sicuro. – Più delle stelle in cielo! – Continua Joseph, accalorandosi. – Più delle spighe nel campo del signor Stuart!
A quel punto ci guardiamo stupiti, perché il signor Stuart ha un campo veramente enorme… e d’altra parte sono in tanti loro, in famiglia! Credo che nessuno si sia mai messo lì a fare una cosa stupida come contare le spighe di un campo di grano, una per una, per capire quanto grande sia un milione, ci limitiamo ad accettare l’idea che sia un numero molto grande, più di qualunque cosa si possa contare sulle dita di una mano, per intenderci. Su dove si trovasse la città, il vecchio è assai preciso. – Laggiù, a due giorni di cammino da qui, oltre la pianura, vicino al lago di Acquascura: è sotto le sue acque che si trova quello che resta della città, che è davvero poco, perché è stata tutta distrutta dal grande fuoco!
E già, il grande fuoco… si torna sempre a quello, quando si raccontano le storie antiche, e non solo quelle riguardanti la città, non si tratta soltanto delle storie degli anziani, o no! Si tratta di Storia, quella con la “S” maiuscola, quella che ci raccontano anche a scuola, per capirci.
Non che al proposito ci dicano molto, intendiamoci: il fatto è che nessuno sa esattamente cosa sia successo quando il grande fuoco scese dal cielo, distruggendo tutto… d’altra parte, se si è distrutto tutto, come potrebbero esserci rimaste testimonianze? La logica fila, perché non rimane niente di quei periodi lontani, tanto da finire nei territori nebbiosi delle leggende, e allora la Storia del nostro maestro si confonde con le altre storie, quelle che ci raccontano gli anziani… ed è giusto così, in fondo, sono cose di un lontano passato che non ci toccano, e non danno dolore… non è come quando rubiamo le mele sugli alberi, o le fragole negli orti… lì sì, che la storia fa male, se ci scoprono: accidenti, se fa male!
Ma sto divagando: parliamo della veglia! Si va tutti alla fattoria di Joseph, nella stalla, fra le mucche e le pecore e, se non piove, ci si trova fuori, nell’aia, attorno al fuoco che non manca mai, la vigilia della festa, e i figli di Joseph non ci fanno mancare niente. Si apprezzano le focacce e le frittelle, i bicchieri di succo di frutta e le limonate, naturalmente, ma tutti aspettiamo impazienti che Joseph accenda la pipa, perché è quello il segnale. Allora le voci si spengono, si posano bicchieri e frittelle, e si tendono gli orecchi: la storia della fine della Città sta per iniziare.


La fine ingloriosa del cavaliere del Giglio

Nella buia foresta di Anlil un uomo si muoveva sicuro, senza esitare, verso una meta conosciuta soltanto da lui. Non vi erano sentieri, in quel labirintico insieme di alberi, folti cespugli e rampicanti che talvolta formavano barriere quasi insuperabili, ma l’uomo non esitava, usando talvolta la spada, che quel giorno gli era validamente servita contro una moltitudine di nemici, per aprirsi un varco e passare oltre.
Ogni tanto si voltava, stringendo più forte la sua arma, ma alle sue spalle non c’era nessuno, non per questo rallentava l’andatura, o si fermava a riprendere fiato, ma procedeva sicuro, conscio di essere quasi arrivato alla fine delle sue fatiche. Lentamente, gli alberi iniziarono a diradarsi, sempre più luce filtrava dall’alto e i cespugli si facevano meno folti e, improvvisamente, la foresta finì e ora l’uomo vedeva, di fronte a sé, incombente oltre la radura in cui era finalmente sbucato, un nero castello. La fortezza appariva inespugnabile, e non soltanto per le alte, scure muraglie che la rinserravano, ma anche per un largo fossato che lo circondava e di cui si mormorava che fosse senza fondo, infestato da creature infernali.
Ma l’uomo non sembrava minimamente intimorito da quel sinistro spettacolo e, senza nessuna esitazione, alzò verso il cielo grigio di pesanti nuvole la spada e, cacciato un alto grido di battaglia, iniziò a correre verso l’abisso. Non era folle, il cavaliere, ma conscio del Potere che gli restava, un ultimo, prodigioso Salto che gli avrebbe permesso di superare l’abisso senza fondo e le possenti mura dietro le quali, lo sapeva, il Nero signore di Akbahar lo attendeva… e lui sarebbe stato il primo, a misurarsi con lui! Superò correndo la radura, l’arido territorio che circondava l’abisso, orlato di neri alberi scheletrici, spiccò il Salto prodigioso… e, di colpo, tutto si fece nero, davanti a lui!
Gianluigi, preso alla sprovvista, annaspò nel buio in cui era finito ma, nel suo campo visivo, non c’era più nulla, nemmeno le icone che erano servite per interagire col videogioco, con cui aveva giocato fino a quel momento. La consapevolezza che per lui, ormai, la partita era conclusa lo colpì quasi fisicamente.
– No! – Urlò, strappandosi con rabbia il visore: la luce del sole, che filtrava dalla finestra chiusa a metà, gli ferì gli occhi.
– No! – Ripeté, sfilandosi furioso i guanti neri tappezzati di sensori e sbattendoli a terra.
– Ero così vicino… maledetta! – Imprecò, rivolto alla consolle appoggiata alla scrivania che, fino a un attimo prima, lo aveva portato in una realtà illusoria dove lui era stato un cavaliere dell’Ordine del Giglio, impegnato nella lotta col Nero Signore e le sue potenti armate. La realtà, quella vera, gli era piombata addosso come uno schiaffo. Diede uno sguardo circolare alla piccola camera, tappezzata di poster, ma impiegò un buon minuto per rendersi conto di dov’era, poi si concentrò sulla consolle di gioco, un basso parallelepipedo di plastica nera con un unico comando: il pulsante di accensione, rosso, esattamente al centro del frontalino di alluminio, che per il resto era completamente, desolatamente nero.
Durante il suo normale funzionamento, la consolle “Virtual Extreme MKIII” esibiva un’ammaliante luce blu che evidenziava il logo della casa costruttrice, ma adesso quell’oggetto giaceva come morto e Gianluigi, dopo aver premuto inutilmente un paio di volte il pulsante d’accensione, dovette ammettere che, almeno per il momento, le sue avventure virtuali in rete erano finite!
Molti anni prima, un altro Gianluigi un poco pratico di elettrotecnica elementare avrebbe provato a cercare la causa del guasto, controllando la presa di corrente oppure un eventuale fusibile bruciato: avrebbe, insomma, cercato una soluzione. Ma il Gianluigi odierno, che da anni utilizzava disinvoltamente una quantità notevole di gadget elettronici, conosceva alcuni linguaggi di programmazione e scorrazzava nel Web parecchie ore al giorno, era completamente privo di manualità e, se qualcuno gli avesse messo in mano un semplice cacciavite, molto probabilmente si sarebbe fatto male!
Così, invece di fare qualcosa, Gianluigi restò alcuni minuti completamente immobile, a guardare quel parallelepipedo nero ormai diventato un rottame. È sempre stato normale, per un ragazzino, rompere un giocattolo, ma tanti anni prima un altro Gianluigi avrebbe semplicemente dirottato altrove la sua voglia di giocare, magari uscendo all’aperto, per correre su un prato, rincorrendo un pallone, oppure un aquilone. Ma il Gianluigi odierno non concepiva l’idea di uscire da casa, a meno che, ovviamente, non dovesse andare a scuola o accompagnare sua madre in centro per lo shopping. Nella sua cameretta, sedici metri quadrati in tutto, era concentrato tutto il suo mondo, costituito da una dotazione multimediale impressionante: televisore interattivo 3-D, un paio di computer, alcuni vecchi videogiochi e pile di riviste (cartacee) di fumetti, tutta roba che avrebbe acceso l’invidia di qualunque suo coetaneo.
Nei suoi computer sonnecchiavano, suddivisi in cartelle e sottocartelle, migliaia di file multimediali, scaricati dalla rete, molti dei quali non erano mai stati nemmeno aperti: film, cartoni animati, concerti, fotografie… tutto un mondo virtuale che attendeva soltanto di essere evocato, ma in quel momento nulla sembrava in grado di scuotere il ragazzo dalla sua apatia. Infine si rese conto che non poteva starsene lì come un idiota, doveva fare qualcosa… ma cosa? Diede uno sguardo al suo minuscolo regno dove nulla sembrava in grado di interessarlo.
Mai, come in quegli anni, l’informazione era stata resa così facilmente accessibile, ma mai come in quegli anni la stessa informazione era ignorata dalla maggior parte degli utenti della rete: troppi dati, che avrebbero avuto bisogno di tempo, per essere assimilati, ma il tempo non bastava mai, perché di continuo l’attenzione era sviata da nuovi stimoli e ci si accontentava, nella migliore delle ipotesi, di una veloce, superficiale esplorazione, prima di passare ad altre informazioni, altre novità. Così, anche quella volta Gianluigi accese prima il televisore, esplorando svogliatamente alcune decine di canali, senza soffermarsi su nulla, poi aprì il computer scorrendo le cartelle dove archiviava i suoi file, senza però aprirne nessuna. Era di-stratto, roso da un pensiero fisso, fastidioso: a quell’ora, ne era sicuro, qualcuno dei suoi avversari era ormai arrivato dov’era giunto poco prima il suo sfortunato avatar e magari, proprio in quel momento, stava combattendo contro il Nero Signore.
Lui aveva giocato innumerevoli volte a quel complicato videogioco, spingendosi ogni volta un poco più in là, fino a raggiungere il decimo livello, la battaglia finale. Avrebbe potuto essere il primo a superare quel livello e magari anche a vincere la sfida, guadagnandosi così una gloria effimera nell’universo virtuale degli internauti, ma quel guasto traditore lo aveva escluso dalla meritata vittoria e quello non gli andava giù, era ingiusto! Guardò ancora una volta la consolle, sempre tristemente spenta, e un odio improvviso gli annebbiò la vista, lo assalì il desiderio di distruggere quel dannato oggetto, ma subito ebbe un’altra idea. Avrebbe potuto liberarsi del suo giocattolo buttandolo semplicemente via, come tutti facevano: accanto a ogni quartiere erano stati predisposti da molto tempo capaci raccoglitori di rifiuti, che ogni giorno erano svuotati automaticamente dagli addetti robot.
Diversamente da come si faceva una volta, ormai non era più necessario differenziare i rifiuti, perché i sintetizzatori atomici disintegravano con uguale efficienza schermi al plasma e bucce di patata e, se Gianluigi si fosse liberato della sua consolle allo stesso modo, non più tardi di qualche giorno lo stesso oggetto sarebbe stato ridotto in atomi. Lui però non accettava l’idea che gli stessi atomi, magari ricombinati proprio in un altro videogioco, potessero un giorno capitargli di nuovo fra le mani; il responsabile della morte del cavaliere del Giglio non meritava una seconda possibilità, la sua fine doveva essere definitiva: doveva scomparire, per sempre.
E, nella sua fantasia di bambino viziato, conosceva anche un posto dove questo sarebbe stato possibile. Non perse tempo per analizzare la sua idea, ma la mise subito in pratica: s’infilò rabbiosamente le scarpe da tennis, indossò altrettanto rudemente una maglia, prese sottobraccio l’odiato videogioco e lasciò il suo rifugio. La casa lo accolse con i suoi soffusi rumori, deboli ticchettii, un sommesso ronzare di qualche invisibile apparato elettrico e, più distinguibili, rumori di roba spostata provenienti dal piano di sotto: era Olga, il loro androide-tuttofare, impegnato nelle pulizie domestiche.
In casa non c’era nessun altro: suo padre, come ogni domenica, era al circolo, molto probabilmente impegnato in una partita a virtual-golf e sua madre, altrettanto probabilmente, in quel preciso momento, stava spendendo gli ultimi crediti della sua carta di consumatrice obbligatoria; controllò il display dell’orologio, erano da poco passate le tre del pomeriggio, aveva tempo in abbondanza per attuare il suo piano.
– Esco a fare un giro, torno fra poco! – Gridò dalle scale all’invisibile androide che continuava con metallica precisione il suo lavoro al piano di sotto, non perse tempo a sentire la risposta e, pochi istanti dopo, con tutto il suo armamentario, varcò la soglia di casa sua.


Una boccata d’aria

Joseph non esagera per niente, quando racconta che la scomparsa città contava milioni di abitanti, e d’altra parte anche la Storia, quella con la “S” maiuscola, lo conferma: Utopia (la città si chiamava così) all’epoca della distruzione contava circa ventiquattro milioni di abitanti e la sua crescita sembrava inarrestabile. Oggi non ne resta più niente e la nostra vallata è costellata di piccoli, graziosi villaggi immersi nel verde oppure, secondo le stagioni, nel giallo-oro dei campi di grano. Solo verso il grande lago di Acquascura i campi cedono il passo a rigogliose foreste. Anche se qualcuno giura che nel folto degli alberi si possano rinvenire resti corrosi e contorti d’incerta origine, che potrebbero anche risalire al tempo della città, ben pochi si avventurano in quei territori e anche i pescatori, che giornalmente vanno a pesca sul lago, si guardano bene dall’esplorarne i profondi fondali, perché l’acqua è torbida e ci sono correnti insidiose.
La città era così grande che la gente non ne usciva mai, consumava la sua vita fra muri e case alte fino al cielo. Cosa facessero e come potessero viver bene in un posto del genere, nessuno lo sa, si ignora anche come mai ci fossero così tante persone tutte assieme. Anche come facessero a nutrirsi resta un mistero, perché, per sostenere le popolazioni dei nostri villaggi, che ospitano poche centinaia di persone ciascuno, occorrono grandi estensioni di campi, alberi da frutta, vigneti e animali al pascolo. Eppure Joseph assicura che, al tempo della città, attorno a essa c’era il deserto: i campi erano aridi, non vi erano foreste e anche nel grande fiume non vi era acqua a scorrere verso il mare. Il mistero s’infittisce e, se qualcuno chiede al vecchio come facesse quella gente a vivere, Joseph dice che erano le macchine, che procuravano il cibo e tutto il resto, ma come fossero fatte queste macchine nessuno lo sa e il tutto ha il sapore di una leggenda. Però è bello ascoltare questa storia, anche con tutti i suoi misteri.
Fuori splendeva il sole, ma Gianluigi se ne accorse appena: usciva raramente da casa e normalmente le sue escursioni iniziavano oltre l’uscio di casa e terminavano alla piattaforma di attracco del levibus che prendeva per andare a scuola; capitava talvolta che accompagnasse sua madre in centro, per lo shopping, ma anche in quelle occasioni non gettava che rapide, distratte occhiate al panorama di grattacieli e costruzioni che si estendeva sotto di lui. Non gli interessava quel paesaggio urbano, preferiva i colorati reparti dei grandi magazzini, specialmente quelli dedicati all’informatica e ai videogiochi: come accadeva ormai a tanti suoi coetanei, la realtà virtuale, con i suoi infiniti, colorati e improbabili ambienti, aveva preso il posto della realtà normale, più piatta, incolore e monotona.
Anche quel giorno, mentre si dirigeva verso la rampa mobile che lo avrebbe condotto al livello stradale, camminava a testa bassa, stringendo sotto braccio il suo videogioco, quasi senza guardarsi attorno. La casa dei suoi genitori era costruita in collina, in una posizione da cui si dominava una discreta porzione della città, pur senza vederne la fine, naturalmente. Solo poche torri di vetrocemento si alzavano verso il cielo, precludendo la vista, ma la maggior parte delle abitazioni e degli edifici era sotto di lui e quella situazione dava, ai residenti del quartiere “Bellavista” (di cui faceva parte la famiglia di Gianluigi), un piacere sottile.
Un centinaio di metri più in basso si estendeva il quartiere “Speranza”, i cui abitanti appartenevano al quarto livello (la famiglia di Gianluigi apparteneva, invece, al terzo). Ancora più in basso, verso il letto disseccato di un fiume scomparso ormai da secoli, si allineavano le case dei Consumatori del quinto livello, ancora oltre, nella pianura invasa da costruzioni, si mischiavano in maniera indistinguibile i restanti cinque livelli in cui era suddivisa la società di Utopia.
Se Gianluigi avesse invece guardato in alto, cinquanta metri sopra le ultime case del suo quartiere, avrebbe visto ampi parchi, in parte nascosti da alte siepi (alcune di arbusti veri) che recintavano lussuose dimore. In quel luogo privilegiato vivevano i fortunati, coloro che, grazie ai loro guadagni, si erano meritati l’ambito titolo di Consumatori di secondo livello; ancora oltre, rese inaccessibili da alte cortine di alberi (veri anche loro) si celavano alla vista le lussuose ville dei Consumatori di primo livello, il gradino più alto, la meta cui tutti tendevano, ma a cui pochi accedevano.
Una volta gli avevano raccontato che il suo nonno materno era stato un consumatore del quarto livello che era riuscito a salire al terzo. Era grazie a quella persona, che lui non aveva mai conosciuto, se adesso poteva guardare Utopia da quella posizione privilegiata. Quello però non calmava la sua irritazione e non indebolì la sua determinazione a compiere quella che, nella sua fantasia, era vista come una vera e propria esecuzione. Stringendo più forte l’involucro di plastoalluminio del videogioco raggiunse la rampa mobile che, obbediente, si animò iniziando a scorrere verso il basso.
Al livello del fiume, a poche centinaia di metri da casa sua, si estendeva un parco con alberi (finti, naturalmente), animali (ologrammi molto realistici) e erba che sembrava vera: lui, come tutti i suoi amici, non aveva mai calpestato un prato vero ma ricordava che, qualche anno prima, sua madre ogni tanto lo portava a scorrazzare su quel tappeto sintetico, morbido e perfettamente igienizzato. Adesso però era cresciuto, come aveva tenuto più volte a sottolineare a sua madre e quell’area verde attrezzata con giostre, giardini e fontane non gli interessava più. Infatti non si stava dirigendo al parco, ma verso l’Area 51. Si trattava di un’antica zona industriale, abbandonata da anni, separata dal resto della città da un alto muro di cemento armato. Il ragazzo ignorava perché quella zona non fosse mai stata riutilizzata e più volte si era chiesto cosa ci fosse dietro la barriera, oltre naturalmente ai cumuli di macerie che vedeva spuntare oltre il muro ogni volta che andava a scuola. La curiosità di andare di persona a vedere, che secoli prima avrebbe attratto irresistibilmente i ragazzi come lui, era stata sempre soffocata dalle emozioni che gli davano i videogiochi virtuali: che senso aveva, infatti, uscire da casa per svagarsi, quando bastava infilarsi un visore 3-D per vivere le avventure più incredibili? Quel giorno, però, la sua porta magica verso altri mondi si era chiusa e ora, mentre la rampa mobile lo portava lentamente in basso, Gianluigi pregustava il momento in cui avrebbe consumato la sua vendetta, liberandosi in maniera definitiva di quella consolle traditrice.
Quel giorno, complice la bella giornata di sole, c’era parecchia gente in giro e le strade, normalmente invase dai piccoli veicoli elettrici che avevano sostituito le inquinanti vetture a benzina del secolo scorso, erano dominio incontrastato di ciclisti e appassionati di jogging. Non tutti, evidentemente, passavano le giornate incollati ai monitor 3-D ma, a lui, quelle persone inguainate in aderenti tute colorate, che sembravano sul punto di schiattare per un infarto da un momento all’altro, facevano impressione: perché diavolo si doveva soffrire così, durante la domenica?
Dall’altro lato della strada, allineato al corso dello scomparso fiume, si estendeva il parco giochi che, a quell’ora del pomeriggio, era popolato da una tribù vociante di bambini. Gianluigi accelerò il passo: pochi minuti gli furono sufficienti per avvicinarsi all’alto muro di cemento armato che nascondeva l’Area 51 agli sguardi indiscreti e in breve raggiunse il punto in cui il muro, con un angolo retto, s’insinuava in un ampio cortile, sorvegliato da grigi capannoni industriali in disuso. Sapeva, per averlo scorto una volta dall’alto, che in quel cortile esisteva un vecchio cancello, sapeva anche (per aver guardato con più attenzione, una volta), che una delle ante era parzialmente divelta e che avrebbe potuto facilmente infilarci il suo corpo magro. Cosa ci fosse, dall’altra parte, era un mistero. Senza esitare entrò nel cortile, lasciandosi alle spalle la strada e il parco giochi e quasi improvvisamente si sentì solo: via dalla confusione della strada, dal vociare dei bimbi o dal fruscio dei pattini e delle bici, la zona industriale era immersa in un silenzio irreale e nell’ampio, deserto piazzale, che correva davanti a lui per almeno duecento metri, era l’unico essere vivente.
A questo punto, se si volesse stabilire una data e un’ora precisa per indicare l’inizio della catena di eventi che condusse alla fine di Utopia, si potrebbe utilizzare il momento preciso in cui Gianluigi, col suo videogioco sottobraccio, varcò il cancello arrugginito: erano le 15,32 del 10 maggio 2380 (datazione del vecchio calendario).

[continua]


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