Con questo racconto è risultato 2° classificato – Sezione narrativa alla VI Edizione del Premio di Scrittura Creativa dedicato a Lella Razza 2010
Finta serenità
Fondotinta, matita, maschera, ombretto, ci vuole arte per mascherare l’effetto di una notte insonne, ma ormai Silvia ne ha appreso ogni segreto. Ci vuole un po’ di tempo, certo, non bisogna avere fretta, ma non riuscendo a dormire, di mattino, lei, non è mai di corsa e l’unico lato positivo di questa insonnia è il tempo guadagnato.
Per il resto, le occhiaie le scendono giù fino al mento e ha proprio un aspetto orribile, tuttavia a tutto c‘è rimedio ed eccola lì, pronta per uscire, con la sua maschera di finta serenità stampata sulla faccia.
La cosa più difficile, però, non è dotarsi di un aspetto esteriore, che nasconda le occhiaie alla vista altrui, ma alzare quel velo interiore, che oscura al prossimo la confusione che ha dentro la testa.
Ogni giorno, però, bisogna rivestirsi anche nell’animo e non bastano il trucco ed un paio di calzoni per farlo, ci vuole un gran lavoro dei muscoli facciali nello stampare sorrisi di convenienza e nel fingere partecipazione durante l’ascolto di una conversazione di cui non te ne importa assolutamente niente.
“Buon giorno, signor Erminio, come va oggi? Sua moglie come sta? Le vacanze al mare? Le avete trascorse bene? “
“Non direi, il secondo giorno mia moglie è stata male, c’era qualcosa nel mangiare che non ha digerito, così è stata di cattivo umore per quasi tutta la settimana, continuava a lamentarsi e ad inveire contro chiunque, camerieri, passanti, un bambino che in spiaggia le aveva tirato addosso della sabbia, un cane che abbaiava, io non so davvero se portarla ancora in giro”.
Peccato, sperava che la vacanza le giovasse, e invece, adesso, però, devo andare, saluti anche la moglie”.
“Arrivederci Silvia, lei è sempre tanto cara”.
Il colloquio mattutino con il vicino Erminio è il primo incontro che le consente di alzare quel velo, che la separa dagli altri e che le consente di mascherare la sua malinconia, in fondo il pover’uomo sta peggio di lei, ha quasi ottant’anni e ancora tanta vitalità, ma deve consumarla tutta per assistere la moglie malata.
“Buongiorno Stefania, visto cose interessanti oggi? “
Lo sguardo alterato di Stefania valeva più di tante parole, la solita imposta chiusa di scatto e il solito verso scortese davanti al saluto di Silvia. La signora Stefania è la sua dirimpettaia, ha settant’anni ed una gamba di legno. Il diabete le ha portato via quella vera, così passa tutto il giorno appostata dietro la finestra ad osservare i passanti e qualche volta, con il binocolo, spia quel che accade dietro le finestre altrui. Non si rivolge mai a Silvia, quando passa di lì, ma quest’ultima non si da per vinta e continua a salutarla allegramente, in fondo anche la povera Stefania ha bisogno di un sorriso e Silvia è convinta che qualora dovesse smettere di salutarla, la dirimpettaia bisbetica e spiona in fondo ne soffrirebbe.
Ci vogliono pochi passi a piedi per raggiungere il suo studio, una targa piuttosto appariscente troneggia sopra il citofono, “Dottoressa Silvia Scala, psicologa”.
Il primo paziente ha fissato l’appuntamento per le nove e trenta, si tratta di Isabella, una ragazza che a solo sedici anni ha già fatto il giro di tutti gli psicologi della città. E’ chiusa in se stessa, disegna
alberi come esplosioni nucleari e vede e sente cose che non ci sono. Parla da sola e si rivolge a se stessa in tre o quattro modi diversi, come se fosse una bambina indifesa, un ragazzo dispettoso e sadico e a volte come se fosse un vecchio moribondo. La sua personalità è sepolta chissà dove, Silvia l’ascolta e cerca di scovare sotto quelle voci la vera Isabella, ma non è facile proporsi nel modo giusto ed è da un po’ di tempo che la ragazzina sente in testa anche la sua voce. Silvia non avrebbe voluto infastidirla con le sue domande, ma Isabella è così delicata che qualsiasi cosa le pesa addosso, anche guardare la televisione. I telegiornali, poi, sono così tristi, c‘è violenza, fame e miseria in molte parti del mondo. La ragazza da tutto questo è sopraffatta e a volte ha persino desiderato morire, perché si sentiva senza nessuna via d’uscita da quel gorgo di voci, da quella sorta di carogna nera, che le si era posata sulle spalle e che non voleva più andare via.
Quell’ora nello studio di Silvia è, per Isabella, un momento di sfogo, la dottoressa la guarda sempre con occhi penetranti, sembra volerle entrare dentro e lei lascia la porta aperta, perché chissà che non possa, seguendo quegli occhi, uscire un giorno dal buio interiore in cui da tempo si dibatte.
“Isabella, se hai bisogno di qualcosa, chiamami in qualsiasi momento, anche di notte, non avere timore di svegliarmi, tu sei più importante”.
“Dottoressa, lo farò, se ne avrò bisogno, ma sinceramente vorrei cavarmela da sola, ci vediamo la settimana prossima”.
Arrangiarsi è quello che vorrebbero fare tutti i suoi pazienti, ma raramente ce la fanno, così vengono da lei e la giornata trascorre veloce tra malattie mentali vere o immaginarie, tra liti in famiglia e depressioni post partum, in ogni caso c‘è spesso da calarsi in solitudini ulteriori di cui si fa fatica a vedere il fondo. Per la maggior parte sono persone che hanno famiglia alle spalle, spesso desiderose di aiutare il proprio caro in difficoltà, ma non c‘è verso che ci riescano e a volte Silvia dubita di poterlo fare lei, perché andando a scavare tira fuori sempre più nero e chissà dov‘è finita la speranza, forse in quei vasi di Pandora che sono i suoi pazienti.
L’ultima seduta si conclude sempre alle sette di sera, giusto in tempo per il panettiere, l’ultimo colloquio quotidiano in cui mantenere fermo quel velo, che copre la sua malinconia, perché tutti hanno più bisogno di un sorriso di quanto non ne abbia lei, a cui non manca nulla o quasi. Lavoro, soldi, una bella casa ed anche un fidanzato innamorato, che presto la sposerà. Con quello che sente tutti i giorni Silvia si accorge di essere più felice di tanti altri, così sorride a tutti e saluta con voce squillante, “buonasera signor Ettore, per domani mi tenga via un paio di rosette, che passo sempre tardi, ma non voglio rinunciare al pane fresco”.
“Buonasera signorina Silvia, non si preoccupi, è il minimo che possa fare per una persona come lei, che porta il sole ogni volta che varca la soglia del mio negozio”.
“Troppo buono, Ettore, non sia così compiacente, che mi commuove con tutti i suoi complimenti”.
Silvia chiude finalmente così la porta della sua casetta e lascia fuori il mondo. Una telefonata con Carlo, il suo amore, un po’ di tv o un bel libro, poi la testa appoggiata sul cuscino per riposare ed ecco che ricomincia l’ennesima notte insonne, fatta di tutte quelle voci di dolore, che sente durante il giorno e a cui vorrebbe dare risposta. Senza contare che a quelle voci si aggiunge la sua, che continua a ripeterle, “Silvia, ti prego basta, fammi uscire da qui, smetti di sorridere e lasciami essere scortese almeno per un giorno, perché non basta avere tutto per essere felici e a volte anche tu ti arrabbi e vorresti gridare.”
Silvia cerca di spegnersi, ma sprofonda in un altro incubo e si trova a camminare per la casa senza sapere dove si trovi, ad aprire la finestra guardando giù e solo allora si rende conto di dov‘è, ma nel frattempo qualcosa è successo, deve avere gridato, il signor Erminio sta scampanellando a più non posso.
“Silvia, tutto bene?”
“Sì, signor Erminio, ho avuto solo un incubo”.
“Venga fuori sul pianerottolo, la prego, si faccia vedere”.
“Signor Erminio, eccomi qua, sto bene”.
“Tutto O K, è stato un incubo, pare”, sussurra il signor Erminio nel telefonino al carabiniere, che sta all’altro capo del filo.
“Sa, Silvia, credevo che ci fosse in casa un rapinatore e così ho chiamato il 112”.
“Mi spiace di averla svegliata, ho il sonno un po’ disturbato”.
“Se ha bisogno di qualcosa signorina, io sono qui, mi raccomando, si figuri sono vecchio e non dormo quasi mai, poi, potrei essere suo nonno, per cui venga pure da me, se non riesce ad addormentarsi, che facciamo una partita a carte e ci beviamo una camomilla insieme”.
Silvia prende la palla al balzo e quel nonno decide di adottarlo, così lascia il suo letto vuoto e ormai inutile e va a giocare a scala quaranta dal signor Erminio. Un giorno lei si sposerà e ci sarà Carlo a farle compagnia, ma nel frattempo cosa sarebbe la sua vita se non ci fosse quel vicino che, quando occorre, con un piccolo gesto, da valore a tutti quei suoi sorrisi che spesso vengono fuori con fatica?
Angelo Passera