Gli amori e il Tempo
Vivono gli amori andando
al seguito del Tempo
che li crea, li svolge
e spesso li consuma
impietrandoli infine
come rocce nei deserti
del ricordo o accompagnandoli
pietosamente nel nulla
dell’oblio. Ma pure il Tempo
– complice e antagonista del finire –
può avviare infine gli amori
su sentieri d’eternità.
Quanti amori
Amori – quanti amori –
ogni giorno, ogni notte
nel visibile Tempo
di stagioni o nell’invisibile
Tempo che nasconde
l’amore che non c’è:
e un uomo cerca
la sua donna, attende
un bussare dolce
alla sua porta;
e una donna chissà dove
sogna odore di sigaretta
consumata quietamente
da un respiro virile
nel suo letto.
Quanti amori nel Tempo
ogni giorno, ogni notte
consumati sì e no.
Vita nova
Lontana adolescenza al paese – remota ormai –
ed eterea lassù, candida era per noi la prima pratica
d’amore: passi studiati, seguiti, incrociati; il saluto
in dolce sguardo e batticuore; un bacio forse, sfiorato,
e quel nome ripetuto poi in segreto, sillabato; quel volto
salmodiato in strada o altrove, dovunque, da noi
solitari nei silenzi, nell’incanto dei tramonti, e di notte
veggenti, rabdomanti lungo i solchi nebulosi
della luna, funamboli rapiti sui fondali figurati
delle stelle. Evanescente nostro tempo
dell’angelo-fanciulla, dell’immagine apparente
tra pagine o in aloni: tempo di visioni, di schermi
e infingimenti; di lodi in versi a iosa, di sogni
e incantamenti, adorazioni: vita nova, sì
come da lezioni. Alata, celestiale
e breve, ahinoi, incantata e fuggevole la primigenia
nostra amorosa stagione: alle porte già suonava
trascinante il cembalo di Ecate infernale.
In un bacio
Ricordo ancora un muretto
appena distinto
nel getto di un fioco lampione
e noi due
sfinirci in un bacio
– rapiti entro il nulla
di nebbia discesa
propizia di qua dal Naviglio.
Come eravamo
Altri eravamo, diversi
allora noi giovani innamorati:
inesigenti innamorati poveri
e felici. Infervorati
l’uno dell’altra, quell’ardere
nostro dentro – pure nel nulla d’agi –
ci bastava: senza la moto
e senza la cinquecento
erravano coi passi i nostri baci
allora – randagi
lungo strade o erbe, nella nebbia
o nel buio atteso
profondo o filtrato appena
di luna. Si andava
ad incerti umidi giacigli
per fare di due ombre un nesso
acceso, un orizzontale
avviluppato batticuore.
Ballando ballando
Ed ora tornano invano per noi
le calde notti dell’estate: invano
curiose a cercarci ancora abbracciati
in balli lenti sulle piste aperte
in riva al mare – noi un tempo
consueti innamorati
di stagione, collusi all’occasione
con la luna o con l’intenso, annodante
luminìo di stelle basse
compiacenti. Allora
quando ballando ballando
ogni volta a sfinimento
cercavamo nel giro di una notte
la storia d’amore: l’evento ardente
che all’alba scongiurasse il soffio freddo
di un saluto indifferente.
Oblio
Versi inventavo per lei – in rima vezzose parole
di canzoni, sonetti e madrigali – ma ora non ricordo più
di lei neppure il nome: una stanzetta appena rammento
annidata tra nuvole e tetti, un’aerea celletta
sperduta tra labirintiche strade; e come in sogno rivedo
lassù ascoltarmi felice, sorridermi ancora
dolce una pallida arianna
senza filo – ombra riaffiora dal tempo, sembianza
gentile, leggiadro pallore indistinto, sorriso
soltanto, ammiccante di allora: di ciò che pur c’era
tra noi e oggi ritorna livida nebbia che adombra
lontane spirali di fato e dedali aperti infine
a disincanto. E chissà: forse anche il mio nome ora è vano
per lei, un suono oscuro alla mente
che forse anch’essa più niente
ritiene di allora, nient’altro rivede di sospesa lontana malìa
se non un labile opaco teseo
che pur senza filo un giorno trovò la sua via
– per dove? cercata perché? – e per quella
seguendo chissà quale umore o quale stella
silenzioso infine si dileguò.
Angoscia
Talvolta nelle sere
trionfando orribile il tedio
l’ora dolente volgemmo
in lasciva, in ansia
disperata di voluttà.
E dalla cieca
soglia di lupanare
guardammo più tristi
brillare più caste le stelle.
(dopo)
Lunghe notti fredde
riscaldate al fuoco avvolgente
d’amore: tra noi più nulla
di parole, e il mondo intorno
dileguato.
Alla finestra stampigliato il cielo
dove guardavano – dopo –
le nostre solitudini felici.
Weekend
Milano anni Cinquanta
d’ormai lontano Novecento
era quando ogni finesettimana
(per tutti già allora weekend)
in strada, in quella mia piccola via
poco convulsa – a mezzo fra centro
e periferia – appariva
puntuale di sera una dama
un po’ strana: molto dipinta
e bustrofèdica andante guardinga
tra i passi, intenta una vizza puttana
in offerta per solitari
stanchi e di tasca grama
perlopiù. I medesimi che poi
nello scorcio estremo della notte
rifugiati patetici avventori
sonnolenti sedevano
fianco a fianco a fissare sorridenti
ognuno il proprio biondo
avanzo del bicchiere – whiski o birra
chi lo sa? – sul bancone fumigoso
dell’ancora aperto in zona ultimo bar.