Il Paese nell’anima

di

Antonio Capriotti


Antonio Capriotti - Il Paese nell’anima
Collana "Le Schegge d'Oro" - I libri dei Premi - Poesia
15x21 - pp. 100 - Euro 9,50
ISBN 978-88-6037-7753

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Prefazione

Ho avuto modo di leggere in antecedenza alla sua pubblicazione «Il Paese nell’anima» (Editrice Montedit), la nuova silloge di versi che Antonio Capriotti dedica al paese nativo, Ripatransone: una cittadina marchigiana ricca di storia e tradizioni, la quale dall’alto dei suoi quasi 500 metri di altitudine si affaccia a breve intervallo spaziale dal mare, mentre a maggiore distanza, ma con non minore suggestione di sguardo, fronteggia a occidente e in parte anche a sud un ampio arco della dorsale appenninica centrale. Inframmezzata di valli, colline e torrenti, tutta la zona concorre a creare un impatto paesaggistico-visivo di prim’ordine, certamente uno dei più caratteristici dell’intera Regione. Antonio Capriotti non vive più a Ripatransone, dove è nato nel 1931 e dove ha trascorso infanzia, adolescenza e primissima giovinezza: dopo una lunga permanenza a Milano (1951-66) e successivi relativamente brevi rientri, ora egli risiede – da molti anni – stabilmente con la propria famiglia nella vicina San Benedetto del Tronto, da dove frequentemente, ancorché fugacemente, riapproda al “paese”. Questa breve premessa “geobiografica” si rende necessaria, forse anche indispensabile, per poter entrare più agevolmente nel clima psicologico, emotivo e poetico della raccolta in questione, e quindi per poterne penetrare appieno significati, simboli e valori. La stessa infatti, come indica il titolo (il medesimo della lirica iniziale con cui l’autore recentemente ha vinto per la seconda volta il primo premio al concorso internazionale di poesia “Città di Ancona”) si propone come una commossa rivisitazione del paese, ripercorso in momenti e aspetti salienti, legati al corso stagionale e liturgico, alla storia più o meno recente oltre che alle bellezze panoramiche di contorno. In tal senso, per maggiore compiutezza e continuità di visione, l’autore ha inteso recuperare e ripresentare vari testi presenti in precedenti pubblicazioni. E non a caso il libro, specialmente nella sua seconda parte, incentra frequentemente i suoi motivi sull’occasione dei ritorni: rientri fugaci e quasi furtivi che nell’animo del poeta riformulano ogni volta un’aspettazione, poi quasi sempre conversa in perplessità se non in aperto disinganno. Il percorso poetico del libro infatti si presenta prevalentemente come tragitto commemorativo e dunque inevitabilmente comparativo, passo oscillante tra presente e passato: un andare del poeta alla ricerca di sé, la quale lo conduce spesso alla scoperta dolorosa del proprio straniamento, alla coscienza di una condizione di disagio creaturale in cui il paese appare patria ed esilio, abbraccio e distanza, luogo di dolcezza precaria dove la memoria è specchiante metronomo nel gioco contiguo di lusinghe e negazioni. Tutto ciò ovviamente si esplica attraverso l’affabulante capacità espressiva che l’autore esercita nei propri versi mediando al meglio fra tradizione e modernità e raggiungendo così vertici di sicura eccellenza, in particolare nella compenetrazione di stati d’animo e paesaggio. Così il libro si configura come una struggente rapsodica elegia di ciò che è perduto eppure resta, durando come vita occulta che resiste e si rinnova nel ricordo, nel colloquio virtuale con le cose della terra e del cielo, le quali, assieme alle ombre dei morti, sembrano essere lì ogni volta a dire, a suggerire del paese quale era, quasi a volerne segnalare e salvaguardare la specifica entità in tempi di dispersione come i nostri, quando sempre più si allungano minacciose le «grinfie dell’invadente villaggio globale».

Michele Lamacchia


Il Paese nell’anima

Agli Amici ripani
che non sono più
a quelli che ricordano
e a quelli che non sanno.


Il paese nell’anima

Ora s’insinua sempre più
struggente polo di memorie
in me un labirinto alto, pensile
di case e strade entro cintura
di vistose lontananze: transfert
assiduo, ricorrente palpito
di terra dove nacque il tempo per me
e mosse il viaggio, l’andare
ch’era ed è per me ogni volta
un rimanere. Antiche mura, case
e scale; torri, vicoli e dirupi
nell’anima: il paese
dove di perdute cose si macera
il ricordo – alchimia segreta
che tramuta sguardi di pietre
in abbracci caldi, in parvenze prensili
di pelle e di parole. Un magma ferve
di assenze e reinvenzioni che consumo
per l’inganno mio fedele: quel nulla
denso che mi segue e richiama a istanti
di matrice altra, aurorale
– e il ritorno ha sempre
il casto turbamento di un’attesa.


Ripa1

Ripa: sempre gremita e salda in me
memoria di vita – lassù la culla
e l’infanzia, la scuola e amata la prima fanciulla.
Ripa: albe d’oro dal mare e rossi tramonti
sepolti tra i monti; neve d’inverno e il vento che taglia
– la tramontana – e fino a maggio il fuoco acceso
e la maglia di lana.
Ripa: antiche mura, torrioni, vicoli stretti, e allora monelli
maestri di fionda, alla prova con gatti, lucertole, passeri e al crepuscolo con pipistrelli.
Ripa: scorci aperti sul mare a oriente, e lontani orizzonti
solcati da vele e bastimenti – in cuore affioravano
i primi tormenti.
Ripa: vigne ricolme, uve sui carri un tempo, mosto odoroso
e buon vino d’autunno; ai passi accesa la caccia
a tordi, fringuelli, palombe e nei fossi
al frullo strepente della beccaccia.
Ripa: presepio, frustingo e tizzone a Natale; poi
– se buona la luna – a pezzi il maiale; calava la Vecchia
ai camini, e il Vecchione sotto il mantello
recava con sé Carnevale.
Ripa: fiori sui rami a primavera, campane a stormo
e processioni, mèssi ondeggianti, sagre
e benedizioni; aria appena addolcita, ma odorata, segnata
da ali sospese e da comete in picchiata.
Ripa: giornate intense d’estate, e fervide notti allora
passate di ronda sotto finestre o consumate in tavernella
tra giochi di carte e passatella.
Ripa: negli anni matrice di attese, d’ansie nuove
protese ad arie d’altrove, ad apparenti destini
propizi oltre i confini.
Ripa: mura di cinta e occhiate di mare – limiti vecchi
e allora gran voglia di andare.
Ripa: da molti lasciata, ma giammai tradita né ripudiata.
Ripa: dovunque sempre citata da chi se n’è andato
e se la sogna – e sempre vi torna … vi torna
pur senza bisogna.
Ripa: lontana, ma sempre vicina; memoria avita
che non si affossa – patria perenne, terra di vita
e di placide ossa.
––––––––––

1 Ripatransone (A.P.), paese nativo dell’autore


Resta la memoria

È ormai quasi un millennio
che su questa rupe s’annidano
le case e il vento passa per le strade
recando spore di presente, di vita
che diviene mutando volta a volta
sé: le cose, gli aspetti e l’animo
della gente. Oggi più che mai
anche qui la storia è al seguito
del mondo che cammina omologando
ovunque al tempo il bene e il male.
Resta soltanto la memoria
a salvarci dalle grinfie predaci
dell’invadente villaggio globale.


Quando qui si fa sera

Quando qui si fa sera
e già affondano rive
nel buio, io penso al paese
mio alto: lassù
in quel medesimo istante
ancora s’appigliano mura
al tramonto – e lunghe rivedo penombre durare alle strade
del timoroso mio passo fanciullo.


Analogie

Guardo con occhi confusi
questo mare di settembre
che ondeggia smeraldino, verde
come i colli d’aprile
al mio paese. E il gabbiano sbanda
in archi chiari a fior dell’acqua
come lassù a fior dell’erba il rombo
caudato, ocra o azzurrino d’aquilone.

Per un attimo qui
sguardo vivo e memoria conciliati
in oscillante verde a fianco
del mio andare lento: specchio bifronte
e per breve il prodigio
di visione assimilata sui passi
di lungo mio dissidio pellegrino.


Vento di torre

Di trepide notti lontane
ancora ascolto diffusi i silenzi
e l’antico vento di torre
recarmi le ore
scandite – a rintocchi nel buio
le candide attese di allora


Vagabondo di memoria

Nella sera dolce di marzo
passano volti di vento
gli amici miei defunti
e si fermano un istante
a parlare con me
vagabondo di memoria
tra facciate di case silenziose
e facce di viventi che non sanno.


Fantasia

A noi piccoli allora
in paese pareva che tra i comignoli
a sera passassero a mille a mille
le stelle. E se ogni tanto
qualcuna di quelle
sbadata cadeva
speravamo finisse dritta dritta
nella pentola
che povera bolliva là di sotto:
mistura sognavamo
sul desco stupenda
di stella cotta con polenta.


Inobliabili Natali

Inobliabili Natali lontani: così semplici
e strani, così freddi alle mani
e caldi nel cuore. Così lontani ch’era festa
pur senza luminarie né TV, e nella Notte cercavi
lassù, ferma nel tuo cielo la coda viaggiante
della Stella – agli alari già bruciava
il ceppo grande per Maria. Che mistero!
E a tavola dicevi la poesia
studiata per la mancia di papà.
Oh quei Natali
con il dolce ai fichi secchi, le noci, le mandorle
e l’uvetta; con la neve a mucchi
in strada e sopra i tetti, arabescata alle finestre
– agli usci tramontana e là fuori saltellanti
i passeri, ingobbiti. E tu pensavi
ai poverelli intirizziti e muti attorno a tavole
di fame: che tristezza! Un attimo soltanto
– guardavi là nell’angolo il presepio
di cartone, e subito sereno
giocavi a tomboletta. Cari
inobliabili Natali: così semplici e strani, così freddi
alle mani e caldi nel cuore. Cosi lontani.


Epifania

Intensa, trepidante, arcana
veniva la nostra notte
della Befana, della vecchia
un po’ strega un po’ fata in transito
per cieli e camini a recare doni
– distinguendoli – ai bambini: a noi, trepidi
nel buio ad origliare il tramestio
strano, l’indugiante murmure
laggiù, sotto la gola nera
della cappa: attimi di brivido
nel letto e il sonno rotto, dormiveglia
smanioso fino al primo chiaro
d’alba. Rivelazione alfine e gioia
nel mattino: quando pure
nello sguardo ammiccante, nel sorriso
furtivo intercorrente compiaciuto
tra mamma e babbo
tu coglievi limpida epifania
di perpetrato nella notte
a noi figli amoroso gabbo.


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