Opere di

Antonio Machado


Poesie tratte da Soledades (1899-1907)


Solitudini


I – Il viaggiatore

È tornato tra noi il caro fratello,
nel salone avito tutto penombra.
Lo vedemmo partire un chiaro giorno
per un paese lontano. Oh, età di sogno!

Ormai ha le tempie inargentate,
un grigio ciuffo sull’angusta fronte;
l’inquietudine fredda dello sguardo
mostra un’anima quasi tutta assente.

Si sfogliano gli alberi d’autunno
nel parco vecchio e malinconico.
La sera si rivela dietro i vetri
umidi, e nel fondo dello specchio

il volto del fratello dolcemente
s’illumina. Fioriti disinganni
dorati dalla sera che tramonta?
Ansie di vita nuova in anni nuovi?

Lamenterà la gioventù perduta?
Morì – la povera lupa – lontano.
Teme che torni a cantare alla porta
la bianca gioventù giammai vissuta?

Sorride al sole d’oro della terra
d’un sogno che non ha incontrato mai?
Vede la nave sul sonoro mare,
la bianca vela tutta vento e luce?

Egli ha visto le foglie dell’autunno
gialle cadere a terra, gli odorosi
rami dell’eucaliptus ed i rosai
mostrare di nuovo le loro rose bianche…

E questa pena, che soffre e diffida,
reprime il tremore di una lacrima,
e un resto di virile ipocrisia
s’imprime su quel suo pallido volto.

Serio ritratto alla parete ancora
risplende. oi tutti divaghiamo.
Nella tristezza della casa suona
il tictac dell’orologio. Taciamo.

(nota: il fratello di cui il poeta parla è Joaquín, che era andato in America)


II

Ho percorso molte strade,
e aperto molti sentieri;
cento mari ho traversato
e attraccato in cento rive.

In tutti i posti ho visto
carovane di tristezza,
superbi e malinconici
ubriachi di nera ombra,

pedanti dietro le quinte
guardare, zitti, e pensare
che essi sanno, non bevendo
il vino delle taverne.

Brutta gente che in giro
va appestando la terra…

E in tutti i posti ho visto
gente che balla o gioca,
ma quando può, e lavora
i quattro palmi di terra.

Se arriva ad un posto
non chiede mai dove arriva.
Se va in giro, cavalca
sul dorso di vecchia mula,

e non conosce la fretta
neanche i giorni di festa.
Se c’è vino, beve vino;
se non c’è vino, acqua fresca.

È brava gente che vive,
lavora, passa e sogna,
e un giorno come tanti,
riposerà sotto terra.


III

La piazza e gli aranci accesi
con i frutti rotondi e ridenti.

Un tumulto di piccoli scolari
che, uscendo in disordine di scuola,
empiono l’aria della piazza in ombra
con il clamore delle voci nuove.

Allegria infantile nei cantucci
delle città morte!…
Qualcosa di noi, di ieri, vediamo
vagare ancora in queste vecchie strade!


X

Alla deserta piazza
conduce un labirinto di stradine.
Da un lato, la vecchia scura muraglia
di una chiesa in rovina;
da un altro, il bianchiccio muro di cinta
di un giardino di palme e di cipressi;
di fronte a me la casa,
ed in essa la grata
davanti al vetro dove lieve sfuma
la sua figura dolce e sorridente.
Me ne andrà via. Non voglio
chiamarti alla finestra… Primavera
viene – la veste bianca
fluttua nell’aria della piazza morta -;
ecco, accende le rose
dei tuoi roseti… Desidero vederla…


XV

La strada in ombra. Le alte case nascondono
il sole che muore; echi di luce sui balconi.

Non vedi, nell’incanto del belvedere in fiore,
il rosato ovale di un volto conosciuto?

L’immagine, dietro il vetro in un riflesso incerto,
appare o sfuma come antico dagherrotipo.

Risuona in strada solo il rumore del tuo passo;
si spengon lentamente gli echi del tramonto.

Che angoscia dolorosa e grave sul cuore! È lei?
Non può essere… Cammina… Nell’azzurro la stella.


La strada


XXII

Sopra l’amara terra,
fa la sua strada il sogno
tra labirinti, sentieri tortuosi,
parchi in fiore, ed in ombra ed in silenzio;
profonde cripte, scale per le stelle;
teatri di speranze e di ricordi.
Figure che passano e sorridono
– balocchi malinconici di vecchio –;

immagini amiche,
alla svolta del sentiero in fiore,
e chimere rosate
camminano… lontano …


XXIII

Lungo la terra nuda della strada
nasce l’ora fiorita,
solingo biancospino,
nell’ombrosa svolta d’umile valle.

Oggi con tenue voce
il vero salmo torna
nel cuore, e sulle labbra
in singulti la parola tremula.

Dormono i miei vecchi mari; calma
è la sonora spuma
sulla spiaggia sterile. La bufera
s’allontana dietro la nube nera.

Torna la pace in cielo;
la brezza tutelare sparge ancora
sul campo aromi, appare l’ombra tua
nella benedetta solitudine.


L. Forse

Tutto preso dalla mia chimera
non osservando intorno a me, un giorno
mi sorprese la primavera
che in tutti i campi introno sorrideva.

Verdi foglie in germoglio
dalle rigonfie gemme delle fronde,
fiori gialli, bianchi e rossi davano
varietà di toni al paesaggio.

E il sole sulle fronde giovanili
era una pioggia d saette d’oro;
nel sonoro scorrere del fiume ampio
i pioppi gentili si specchiavano.

Dopo tanta strada è la prima volta
che ammiro la primavera in fiore
dissi, e con tono poi declamatorio:

Quanto è tardi ormai per la mia sorte! –
E, camminando, poi, come chi sente
ali di altra illusione: – E tuttavia
abbraccerò la giovinezza un giorno!


LX.

S’è addormentato il mio cuore?
Alveari dei miei sogni,
niente più lavoro? È secca
la noria del mio pensiero,
i secchielli sono vuoti,
nel girare, pieni d’ombra?

No, il mio cuore non dorme.
Se ne sta lì tutto sveglio.,
Né dorme né sogna, osserva,
gli occhi chiari aperti,
segnali lontani, ascolta
in margine al gran silenzio.


Gallerie


LXI. Introduzione

Leggendo un chiaro giorno
i miei amati versi,
ho visto nel profondo
specchio dei miei sogni

che verità divina
sta tremando di paura,
è un fiore che affida
il suo profumo al vento.

L’anima del poeta
si orienta nel mistero.
Solo il poeta vedere
può ciò che è lontano
nell’anima, in un suono
cupo e magico avvolto.

Là in quelle gallerie
eterne del ricordo,
dove povera gente
appese come trofeo

il vestito da festa
pieno di tarli e vecchio,
là il poeta conosce
il faticare eterno
guardare delle api
dorate dei sogni.

Poeti, l’anima tesa
verso il profondo cielo,
nella battaglia cruda
o nel tranquillo orto,

facciamo il nuovo miele
con i vecchi dolori,
la veste bianca e pura
con pazienza cuciamo,

sotto il sole lustriamo
il forte usbergo in ferro.

L’anima che non sogna,
lo specchio che è nemico,
proietta in un profilo
grottesco il nostro volto.

Sentiamo uno sbocco
di sangue, qui nel petto,
che passa… e sorridiamo,
e a lavorar torniamo.


LXVII.

Se io fossi un poeta
galante, canterei
ai vostri occhi un canto così puro
come sul bianco marmo l’acqua chiara.

In una strofa d’acqua
tutto il canto sarebbe:

«Già so che non rispondono ai miei occhi,
che vedono e non chiedono guardando,
i vostri occhi limpidi che hanno
la buona luce calma,
la buona luce del mondo fiorente
che ho visto un giorno in braccio a mia madre.»


Campi di Castiglia (1907-1917)


XCVII. Ritratto

La mia infanzia, ricordi di un patio di Siviglia,
e un limpido giardino dove cresce il limone;
la gioventù, vent’anni in terra di Castiglia;
la mia storia, avventure che ricordar non voglio.

Né un seduttor Mañara, né un Brandomìn son stato
– già conoscete il goffo mio modo di vestirmi –,
ma ricevei la freccia che mi tirò Cupido
e amai quanto in quelle può essere ospitale.

Sono in mie vene gocce di sangue giacobino
ma il mio verso sgorga da sorgente serena;
più che un uomo alla moda che sa la sua dottrina
sono, nel senso buono della parola, buono.

Adoro la bellezza, con moderna estetica
tagliai le vecchie rose del giardino di Ronsard;
ma non amo i belletti di nuova cosmetica
né sono un nuovo uccello dal trillare allegro.

Disprezzo di tenori boriosi le romanze
e il coro dei grilli che cantano alla luna.
Mi soffermo a distinguer le voci dagli echi
e ascolto solamente, tra tante voci, una.

Classico o romantico? Non so. Vorrei lasciar
il verso come lascia la spada il capitano:
famosa per la mano virile che l’impugna,
non pregiata per l’arte saputa del suo fabbro.

Converso con quell’uomo che è sempre insieme a me
– chi parla spera solo parlare un giorno a Dio –;
è il mio soliloquio parlar col buon amico
che m’insegnò il segreto della filantropia.

Nulla vi devo, infine; voi a me quanto ho scritto.
Attendo al mio lavoro, col mio denaro pago
la veste che mi copre e la casa ove vivo,
il pane che mi nutre e il letto ove dormo.

E quando verrà il giorno dell’ultimo mio viaggio, e salperà la nave che non tornerà mai più,
mi vedrete a bordo leggero di bagaglio,
e quasi nudo, come i figli del mare.


Proverbi e Cantari


XXVIII.

Viandante, le tue orme sono
il cammino, e niente più;
viandante, non c’è cammino,
se non andando avanti.
Andando nasce il cammino,
e girandosi si vede
il sentiero laggiù che mai
si tornerà a calcare.
Viandante, non c’è cammino
se non scie sul mare.


CLII. A Juan Ramón Jiménez

Per il suo libro “Arias tristes”

Era una notte del mese
di maggio, azzurra e serena.
Sopra l’aguzzo cipresso
brillava la luna piena.

illuminando la fonte
dove scaturiva l’acqua
singhiozzando ad intervalli.
S’udiva solo la fonte.

E poi si sentì il motivo
di un usignolo nascosto.
Raffica di vento infranse
la curva dello zampillo.

E una dolce melodia
vagò per tutto il giardino:
e tra quei mirti suonava
un musico il suo violino.

Era un lamento accordato
di giovinezza e amore
volto alla luna e al vento,
l’acqua e l’usignolo.

«Il giardino ha una fonte
e la fonte una chimera…»
Cantava voce dolente,
anima di primavera.

Tacque la voce, il violino
frenò la sua melodia.
Restò la malinconia
vagante per il giardino.
S’udiva solo la fonte.


Antonio Machado


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