PRIMA PARTE
Capitolo I
I quattro triangoli
In una radura di Damanor, un regno nella terra di Abisuat…
«Ci siamo ragazzi! Cerco di avvicinarmi» disse Erik con la voce appena percettibile.
Nalubi, Olem e Sandra, i suoi amici, ascoltavano accovacciati dietro dei bassi cespugli. Tenevano d’occhio fra il fogliame, una sagoma scura che si muoveva lentamente nel verde, scrutando il terreno a poca distanza da loro.
Con un guizzo Erik uscì dagli arbusti. Corse a tiro del cinghiale, l’animale fuggì, ma a un tratto, si fermò per voltarsi. Erik non immaginava partisse alla carica, e a passi lenti gli andò incontro, aspettò che si avvicinasse, tese l’arco, scoccò una freccia e colpì in pieno la zona del cuore. La paura lo immobilizzò, perché il cinghiale non si accasciò al suolo come prevedeva. Anzi, cominciò a grugnire e proseguì la corsa verso di lui.
La vita di Erik era in pericolo. Gli amici intervennero in suo favore, anche se erano distanti. Balzarono fuori dai cespugli, scoccarono le frecce, ma penetrarono di poco sul suo dorso. L’animale dopo alcuni versi di dolore reagì aumentando corsa e ferocia.
Erik impaurito perse la sicurezza. Sentì il terreno crollare sotto i piedi. Impietrito, dilatò gli occhi attendendo passivamente l’impatto.
Un bagliore rosso simile a un fulmine, sfiorò la sua schiena e colpì la fronte del cinghiale. L’animale crollò al suolo, con la velocità della corsa strisciò rovinosamente, sollevò polvere, zolle di terra, e infine si fermò ai suoi piedi. Erik si voltò lentamente. Notò una figura che aveva il braccio alzato e impugnava un bastone bianco trasparente. Indossava un saio lacero color grigio e montava a pelo di un bel cavallo bianco.
Il bastone misurava centoventi centimetri di altezza, quattro di diametro, l’impugnatura delimitata da due anelli perlati. In entrambi gli apici conteneva una piccola torcia dalla fiamma quasi smorta, color azzurro pallido in basso, rosso tenue in alto. Quella dell’apice superiore da dove partì il lampo, poi cambiò in verde, dando l’impressione che il colore nel sostituirla uscisse dall’interno del bastone.
L’uomo con un gesto lento della mano, avvicinò il bastone piegandolo in diagonale alla cintura sui fianchi. La fibbia triangolare lo agganciò e lo bloccò con una forza magnetica.
Tirò le briglie del cavallo per giungere lentamente da Erik. Lo vide smarrito con gli occhi dilatati dallo stupore. Si fissarono intensamente alcuni istanti. In quel breve momento non udirono, né i suoni della natura, né il calpestio sul terreno degli amici di Erik, che correvano nel venirgli incontro. Erik voleva ringraziare l’uomo ma non riuscì, perché esausto cadde dal cavallo quasi senza sensi. Perse il bastone agganciato sulla cintura e le fiamme agli apici si spensero.
Quando gli amici li raggiunsero, Erik era vicino al malconcio sostenendogli la testa. Notarono sul suo collo una catenina sottile d’oro brunito, come il ciondolo a forma di cerchio, inciso a triangoli concatenanti. Incastonato sugli apici, il cerchio tratteneva una piuma di cristallo all’interno di un contenitore triangolare metallico azzurro trasparente.
Sulle braccia e le gambe dell’uomo, risaltavano vaste lacerazioni fresche da morsi di animale. Il viso cereo evidenziava che aveva perso molto sangue, e dava l’impressione che da lì a poco perdesse la vita.
Nalubi prese la borraccia di pelle abbassandosi per dargli da bere. Lui l’agguantò e, nell’avidità nel bere, bagnò la lunga barba bianca a punta. Di colpo spalancò gli occhi scuri sopra le appariscenti occhiaie, roteandoli al fine di mettere a fuoco le figure intorno a sé. Appena riuscì a fermare le vertigini, con il dito tremante indicò un sacco allacciato davanti al collo del suo cavallo, distante pochi metri da loro.
Non riusciva a emettere parole. Faticò a far capire con cenni della mano ossuta, di prendere e portare un sacco da lui, poiché sembrava un involucro adoperato per dar da mangiare al cavallo durante il cammino. Sandra intuì le dimensioni poco adatte a contenere del cibo e corse a prenderlo. Nel frattempo, anche se frastornato, l’uomo si alzò a riprendere il suo bastone. Lo impugnò e le fiamme si riaccesero. Si diresse a passi lenti su una pietra a sedersi. Nalubi ed Erik apprensivi lo accompagnarono temendo cadesse. Olem invece, curioso, avvicinò la mano alle fiamme e le toccò.
A fatica accostò il bastone alla cintura che lo agganciò. Prima di porgergli il sacco, Sandra aspettò che l’uomo si sistemasse in sicurezza. Prese il sacco, lo appoggiò sulle esili gambe, lo aprì e infilò la mano all’interno. Osservò i ragazzi un istante, e rimase perplesso con lo sguardo prolungato.
Non si era reso conto che tra loro vi fossero due ragazze, perché indossavano vestiti maschili. Alzò lo sguardo verso il cielo per chiedere un segno dai luoghi celesti. Li abbassò come se avesse ricevuto la risposta, e lentamente cominciò a parlare: «Sono un monaco e mi chiamo Picam» mormorò con fievole voce. Tirò il fiato. «Il mio vagare in Abisuat è giunto al termine e purtroppo, non ho completato la missione intrapresa anni addietro. La ultimerete voi, poiché siete stati “Prescelti”. Vi darò le mie memorie, che leggerete per conoscere le vicende dei miei viaggi. La tirannia del reggente Salerio e la malvagità di Lupus, un monaco divenuto oscuro, presto avranno fine» proseguì convinto.
I ragazzi non capivano cosa dicesse, limitandosi a guardarlo in pena.
Il monaco li fissò un istante ondeggiando con il corpo. Faticava a tenere gli occhi aperti, spossato dalla stanchezza e le dolorose ferite.
Sandra lo trattenne appoggiando dolcemente la mano sulla sua spalla, pensando di dargli un minimo di stabilità.
Domandò ancora dell’acqua. La voleva far versare nelle mani pensando di bagnare il viso e Nalubi capì l’intenzione. Intenerita, invece bagnò il fazzoletto, lo appoggiò sulla sua fronte, lui apprezzò il refrigerio, e ringraziò con un leggero cenno del capo. Poi riprese a parlare: «Capisco il vostro stupore per le parole che ho pronunciato. Tuttavia, non ho il compito di fermarmi a spiegare nel dettaglio, cosa la luce nei luoghi celesti nei suoi piani ha previsto a vostro favore».
Tirò la mano fuori dal sacco, mostrò un piccolo libro e lo porse a Erik. Poi ribadì: «Sarà la vostra guida che vi darà intendimento nel leggerlo». Prima di alzarsi lentamente dalla pietra, evidenziò serio: «Dovete custodirlo gelosamente! Non fatelo cadere nelle mani delle tenebre».
Olem accennò l’intenzione di parlare, ma lui sollevò la mano con il proposito di far capire l’impossibilità di aggiungere altro.
Prese il sacco a tracolla, chiese di non seguirlo, e lentamente andò verso il suo cavallo, che scalpitando attendeva. A fatica lo raggiunse, gli diede una pacca sulla natica e il cavallo scattò via. Percorse qualche metro, si voltò verso di lui, nitrì, s’impennò e mosse le zampe per salutarlo. Sembrava avesse capito che era giunto il momento di lasciarsi. Infine, proseguì lentamente scomparendo nel folto del bosco.
Rimasto solo, Picam estese le mani a triangolo sopra il capo. Pronunciò a fatica i nomi dei fratelli in fede, mentre il volto divenne candido, pian piano trasparente. Una luce a spirale azzurra scese dal cielo. Volteggiò simulando un fiocco lasciato cadere dall’alto, che lo avvolse, sprigionò una nuvola fumosa, poi insieme scomparvero nell’aria.
Al loro posto lasciarono quattro triangoli equilateri equidistanti, disposti a rombo, stranamente sospesi nell’aria a un palmo dal terreno. Un apice indicava i punti cardinali. Le forme geometriche avevano la superficie interna leggermente ruvida, ricoperta da una sottile patina trasparente liscia.
I lati misuravano quattro centimetri e uno di spessore, simili all’oro, granato, smeraldo e topazio. Sulla parte anteriore i triangoli avevano un bordo leggermente in rilievo, che raffigurava due monti incrociati.
I monti rappresentavano due regni passati, chiamati Verifall e Villefra. Tra le vette, un apice luminoso spandeva una luce soffusa.
Rimasero sbalorditi dalla scomparsa dell’esile misterioso personaggio, osservando il punto da dove svanì.
Abbassarono gli occhi e notarono gli oggetti particolari apparsi sul terreno. Sfioravano il suolo oscillando nell’aria, simili a foglie vibranti mosse dal vento. Si avvicinarono intenzionati ad analizzarli attentamente, ma nessuno per il momento cercò di prenderli, perché la loro mente cancellò il desiderio di intraprendere quell’azione.
Si osservavano a vicenda scambiando sguardi silenziosi e gesti, per cercare di capire le intenzioni l’uno con l’altro. Aspettavano sperando il primo passo di uno di loro, per venir fuori dalla situazione di stallo.
Il libro foderato in cuoio rigido nelle mani di Erik, aveva le dimensioni di sedici per dodici centimetri. Includeva apparentemente poche pagine.
Una piuma rossa composta di fili color rubino, luccicava inserita in diagonale nella copertina al centro del lato di apertura.
Il calamo la attraversava da parte a parte, dando l’impressione di passare tramite un foro. La piuma rossa lo sigillava in modo da impedire la lettura delle pagine interne.
Erik guardò attentamente il libro. Prese coraggio e con le dita cercò di sfilare la piuma. Una luce azzurra scaturita dalla piuma colpì la sua mano. La minuscola scarica simile a un fulmine, prima di dissolversi sfavillando nell’aria, gli provocò un intenso formicolio costringendolo ad arretrarla.
Spiegò il motivo dello scatto improvviso della mano agli amici. Nalubi volle verificare, e ottenne l’identico effetto. In seguito capitò sia a Olem sia a Sandra, curiosi di accertare l’impossibilità di rimuoverla.
Sandra, l’ultima a prendere il libro non sapeva come comportarsi. Mossa da uno specifico desiderio cercò di appoggiarlo in mezzo ai triangoli. Si rese conto che anche il libro rimaneva sospeso dal suolo e lo lasciò andare.
Benché il cielo fosse plumbeo, i triangoli apparivano illuminati dal sole, che con precisi raggi riflettevano la luce nei loro occhi. Attratti dal luccichio, si adagiarono a gambe incrociate ognuno davanti a un triangolo. Ispirati da una dolce percezione comune, appoggiarono le braccia ai fianchi del corpo, le palme delle mani al suolo formando casualmente la posizione triangolare.
In quel momento i triangoli si sollevarono sopra le loro ginocchia, iniziando a girare in tondo. Nel roteare liberarono anelli concentrici verde smeraldo. Si ampliarono attraversando i loro corpi, scomparvero fusi nell’aria mentre il movimento cessava.
Ancora vibrante, il primo triangolo di granato si fermò davanti a Erik, il secondo di topazio da Olem, il terzo d’oro da Sandra e il quarto di smeraldo da Nalubi. I ragazzi si sentirono abbracciati dall’aria, in una pace interiore mai provata.
Un raggio luminoso del sole inverosimilmente filtrò dalle nuvole scure. Il rapido forte bagliore li riportò alla realtà.
Dopo quel magico momento il desiderio li stimolò a prendere il triangolo di fronte a sé, che lampeggiò l’apice di azzurro. Segnalò, anche se al momento non lo capirono, la scelta del loro nuovo custode.
Pochi istanti dopo, la piuma rossa inserita nella copertina del libro oscillò come se una folata di vento la muovesse. Sprigionò un leggero fumo azzurro che la avvolse, si diradò e la portò in sé, liberando il libro dal sigillo permettendo di aprirlo.
Nel frattempo, il transito di altre nuvole scure accompagnate dal vento, presagivano un imminente temporale.
Olem previdente voleva evitarlo. Domandò di ritirare gli oggetti personali, avviarsi verso le loro abitazioni e gli amici acconsentirono.
Infilarono i triangoli nel sacco personale a tracolla. Erik raccolse il libro fluttuante sul terreno affidandolo a Nalubi, reputata la più istruita tra loro.
Olem ed Erik, caricarono il cinghiale su una specie di lettiga costruita a rami intrecciati legati con cordame. Agguantarono i manici e la trascinarono verso il sentiero. Pensarono per il momento più a portare la cacciagione a casa, tralasciando l’accaduto…
I ragazzi avevano la stessa età. Erano nati a Madarno nel regno di Damanor nel mese di aprile, quattro giorni successivi l’uno dall’altro.
Grazie all’istruzione ricevuta, Nalubi, figlia unica di Artaxano e Celsia, sovrani del regno di Damanor, non riteneva il rango, o la condizione economica, un privilegio nella scelta delle amicizie.
Infatti, gli amici che frequentava fin da bambina, li considerava al suo pari. Forte, decisa caratterialmente, molto ben istruita, non si lasciava coinvolgere in gesti affettuosi. Fantasiosa, amava immaginare avventure eroiche in viaggi nelle città o borghi di Abisuat, al fianco dei suoi amici…
L’alito freddo di fine settembre cominciava a farsi sentire. Come prevedevano iniziò a piovere intensamente. Il terreno si trasformò presto in una patina di fango, creando notevole difficoltà nel trasportare il cinghiale.
«Di questo passo non arriveremo mai a casa. Portiamo il cinghiale al riparo in quella caverna?» propose Erik indicandola. «L’ho già esplorata in passato. All’interno potremo ripararci, appena spiove ripartire…»
Erik aveva in cuore di diventare un guerriero. Amava le armi e si allenava spesso nel tiro con l’arco, e a caccia si muoveva silenzioso. Il padre Natagor, ora un fabbro, ottimo cacciatore, gli aveva insegnato a riconoscere gli animali dalle tracce, oltre al modo di comportarsi. La madre di Erik si chiamava Beba; prima di sposarsi faceva la mugnaia…
«Ottima idea!» esclamò Nalubi.
«Possiamo lasciarlo nella caverna e nonostante il tempo, rientrare a casa» disse Sandra. «Domani verremo a riprenderlo…»
Sandra era figlia di Camor, divenuto in seguito falegname. La madre Delasia si occupava di intrecciare cesti usando i vimini.
Al contrario dell’amica Nalubi era molto espansiva, ma mostrava spesso l’espressione pensierosa, se dovevano risolvere qualche problema, o si presentava un imprevisto. Intelligente, intuitiva, gli amici attendevano ansiosi il suo intervento, perché valutava attentamente enigmi intuendo le soluzioni, o formulava ipotesi molto vicine alla realtà dei fatti…
«È l’unica possibilità se non lo vogliamo abbandonare. Oggi non smetterà di piovere a quanto pare» concordò Olem. Invitò l’amico a riprendere il manico della lettiga e disse: «Diamoci da fare Erik…»
Olem aveva un carattere paziente, molto riflessivo. Concordava con la sua passione: la pesca. Di solito contestava le decisioni degli amici, che faticavano a convincerlo se non lo mettevano alle strette. Dubitava di ogni cosa. Fino a quando non la sperimentava personalmente, non la accettava. Insieme alla sorellina Ninita era figlio di Eraim, un bravo ed esperto muratore sposato insieme a una contadina di nome Saron…
Giunsero davanti alla grotta, ed entrarono con la lettiga. Sistemarono il cinghiale in un angolo, usarono dei sassi per coprirlo in modo da impedire ad altri animali di divorarlo, uscirono e ripresero la via del ritorno.
La pioggia aumentò d’intensità riducendo la visibilità in una leggera foschia. Individuata una sporgenza in una parete rocciosa, con uno sguardo d’intesa decisero di raggiungerla. Entrarono e si accucciarono in fondo al riparo su dei sassi. Osservavano la pioggia cadere, fino al momento in cui Nalubi infreddolita si alzò e ruppe il silenzio parlando ad alta voce, per coprire lo sfrigolio delle mani sugli indumenti sotto la mantella, nel tentativo di scaldarsi il corpo. «Il monaco ha lasciato un libro insieme a dei triangoli. Secondo voi, aveva un motivo per farlo?»
«Non ho idea» rispose Erik. «Mi scoccia solo non esser riuscito a ringraziare per avermi soccorso. Riguardo al libro, mi è sembrato di capire che narri le memorie dei suoi viaggi».
Olem scosse i capelli neri ricci bagnati dalla mantella fradicia per liberarli dall’acqua, e lo rimproverò: «Tu non ascolti mai Erik. Dovevi assolutamente correre dietro al cinghiale? Non aveva intenzione di fuggire!»
«Vuoi incolparmi di non averti ascoltato?» Dilatò gli occhi castani e aggiunse: «È la prima volta che ne colpisco uno, non crolla al suolo, e addirittura mi si rivolta contro».
«Su questo hai ragione» condivise Olem. «Neanche il nostro intervento è bastato a fermarlo. Forse anche se nei paraggi aveva i cuccioli ha pensato di fuggire, poi ha cambiato idea, si è fermato, e per proteggerli ti ha attaccato».
«Il vostro intervento? Colpirlo sul dorso non serve a nulla!» si lamentò Erik. «Non voglio vantarmi, ma io l’ho centrato esattamente nella zona del cuore, come sempre» riprese alzandosi in piedi, per mostrare il corpo slanciato nel mimare la scena. «Mi stupisco di te Olem. Purtroppo sei un tappo, però hai braccia forti con vistosi bicipiti. Ma non hai capito, che l’arco va teso facendo un rapido strappo, prendi la mira poi scocchi subito. Invece perdi tempo a mirare, tremi mentre scocchi, e la freccia non ha efficacia. Similmente a quelle delle ragazze penetra a stento nella pelle del cinghiale, o sbagli il bersaglio».
«Solo perché sei alto pochi centimetri più di me, hai il coraggio di vantarti! Intanto se il cinghiale continuava a caricare, nell’urto ci rimettevi di sicuro le penne…»
Olem, se reputava un’azione pericolosa, si rifiutava di agire. Se poi c’era il rischio di mettere a repentaglio la sua pacifica esistenza, doveva proprio valerne la pena. La sua prudenza evitò ai ragazzi di fare brutte esperienze… «Sì ho rischiato. Ma se non facevo così, non lo catturavamo» si giustificò Erik. «Se dovessi darti retta, interverrei solo se la preda si avvicina a tal punto da sentirne l’odore».
«Tanto per chiarire il cinghiale l’ha steso il monaco. In ogni caso, preferisco pazientare come a pesca. Io amo il cibo! Preferirei sentirne l’odore da cotto ancora parecchi anni».
«A proposito di odore. Se non ti conoscessi, penserei…»
Olem lo fissò intensamente con i suoi occhi neri lucenti. «Non invertire i ruoli Erik! Io non ho rischiato di fare una brutta fine e, preso dalla paura, me la sono…» lo provocò.
Sandra e Nalubi risero.
«Esagerato!» esclamò Erik. Poi decise di cambiare il discorso a lui poco conveniente. «Riprendiamo piuttosto a parlare del monaco».
«Accennava di una missione che non aveva completato. Voleva dare a noi il compito di portarla a termine in vece sua».
«“La completerete voi”, sono le testuali parole Olem. Le ha pronunciate convinto del nostro aiuto. Riguardo ai triangoli Nalubi, sono apparsi dopo la scomparsa di entrambi» precisò Sandra. «Forse sono discesi dal cielo insieme alla luce azzurra».
«È vero» confermò Nalubi. Poi domandò: «Ci stava aspettando?»
«A me ha dato quell’impressione» rispose Sandra. «Si è seduto, presentato senza chiedere chi eravamo, e ha consegnato il libro a Erik. Alla fine è svanito, consapevole di lasciare le sue memorie nelle mani giuste».
Nalubi chiese: «Secondo il tuo parere Sandra, sapeva di affidarle a persone ben precise, o perché c’eravamo solo noi in zona?»
«Sapeva perfettamente a chi consegnarle».
«Perché proprio a noi?»
«Spero di capirlo presto».
«È apparso all’improvviso, mi domando da dove è sbucato. Eravamo in zona da un pezzo, come mai non l’abbiamo visto? Se non sbaglio si chiamava Picam» intervenne Olem. In tono polemico aggiunse: «Volevo dirgli chi sono ma ha parlato solo lui. Ha smesso solo per filarsela facendo un gioco di prestigio. Pertanto non sappiamo l’utilità del libro, ancor meno dei triangoli. Speriamo solo che non siano fonte di guai!»
Erik strizzò l’occhio a Sandra e disse: «Hai notato il tuo triangolo? Sembra d’oro; se lo vendi ricavi una buona somma di denaro».
«Il monaco o chi per lui, non l’ha lasciato al fine di venderlo. Figuriamoci se poi è veramente d’oro» lo rimproverò Nalubi, senza attendere la risposta di Sandra pronta a replicare.
«Scherzavo!» assicurò Erik imbarazzato.
Dopo aver dato una leggera spallata a Erik seduto accanto a lui, Olem disse: «Non è d’oro ma un pezzo di vetro colorato. Nessuno lascerebbe oggetti di valore a degli sconosciuti. Lavorando assieme a mio padre, ho visto vetri simili ai nostri nelle vetrate delle missioni».
«Non avranno valore, ma se li ha affidati proprio a noi, di sicuro serviranno per qualche scopo. Altrimenti manca la motivazione del lascito».
«Davvero Nalubi?» la prese in giro Olem. Si alzò per raccogliere un ramo da terra per giocherellare a lanciarlo in aria e riprenderlo, e chiese: «A cosa servirebbero?»
«Non lo so».
«Se non hai un motivo, perché l’hai presunto?»
«Che dirti; è solo una sensazione. Quando leggeremo il libro, spero di conoscerlo».
«Non conviene aprire il libro» dissentì Olem, lanciando il legno davanti a sé stufo del gioco. «Il fatto che resta sospeso nell’aria, non è normale. Potrebbe contenere racconti mistici scritti da un mago. I sortilegi si attivano anche solo aprendolo, non lo scordate!»
«Quali sortilegi. Era un monaco non un mago» disse Erik.
«Non ho mai visto un monaco dotato di legno ad apici fiammanti, non emettono calore, ma lanciano lampi! Datemi retta: scaviamo una buca, mettiamo dentro il libro, i triangoli e torniamo a farci i fatti nostri».
«Non sono del tuo parere Olem. Ma possiamo verificarlo leggendo le memorie del monaco, in ogni caso avremo la risposta!»
Sandra intervenne anticipando Olem pronto a replicare. «Condivido il suggerimento di Erik. Al posto di parlare potremo farlo anche adesso».
Felicemente sorpresa, Nalubi chiese: «Volete leggerlo adesso?»
«Perché no. Basta sapere se siamo d’accordo» asserì Sandra speranzosa. Sollevò le spalle, e considerò: «Tanto non abbiamo nulla da fare».
«Desidero leggerlo quanto voi» confidò Nalubi sorridente.
Olem storse il naso, non osò replicare e risedette sulla pietra.
«Che ne dite di cercare un po’ di legna, e accendere un fuoco per asciugarci?» suggerì Erik, strofinando le mani per scaldarle. «Credo sia meglio ascoltare al calduccio. Dico bene?»
«Sì» rispose Nalubi ma solo Sandra asserì.
Erik si rivolse a Olem e chiese: «Andiamo a raccoglierla noi?»
Lui fece una smorfia perché non voleva bagnarsi ulteriormente. Ma Erik gli tese la mano, lui l’agguantò, pigramente si alzò e uscirono dal riparo.
Tornarono con le mantelle nuovamente zuppe d’acqua, il legno stretto sotto braccio che adagiarono sull’erba.
Erik pose l’esca sulla legna e tirò fuori l’acciarino dalla sacca. Lo strofinò sulla pietra, soffiò, l’esca si attizzò, la legna prese ad ardere e aggiunsero altri rami secchi per alimentarlo.
Le fiamme dopo averli asciugati, infondevano una sensazione piacevole. In silenzio si godevano il calduccio e il crepitio del fuoco.
Sandra riordinò i lunghi capelli ambrati in una coda. Le dita affusolate la trasformarono in una treccia, che legò al fondo con un laccio di cuoio inciso a fuoco a fiorellini. Si allontanò leggermente dal fuoco, andò a sistemarsi in una sporgenza piana, poi sollecitò Nalubi.
«Che ne dici di cominciare a leggere?»
Lei non aspettava altro. Scelse una pietra davanti a Sandra, si sedette, ed emozionata aprì il sacco. Per un attimo dimenticò la scomparsa della piuma dal momento in cui consentiva la lettura. Prese delicatamente il libro preoccupata di danneggiarla o di sgualcirlo, quando se ne rese conto lo appoggiò tranquilla sulle gambe.
Aprì la copertina e una serie di tuoni si scatenò nel cielo. Un fulmine colpì un ramo d’albero davanti a loro, lo spezzò e incenerì facendoli sobbalzare. Una folata di vento tetra e gelida suscitò in tutti la pelle d’oca.
Le tenebre mostrando quei segni, diedero il primo avvertimento di non schierarsi contro.
I ragazzi ignoravano che l’apertura del libro di Picam, desse inizio alla loro missione atta a sconfiggere il reggente Salerio e Lupus, un monaco oscuro, divenuti ministri animati dalle tenebre.
Il fragore del cielo finì, e una calma irreale prese il sopravvento. Lo scrosciare della pioggia sembrava non emettesse suoni, perché la luce nei luoghi celesti gli dava la sensazione di proteggerli all’interno di una campana di vetro, formata di energia.
Olem ed Erik si avvicinarono alle amiche per sistemarsi al loro fianco. Nalubi riordinò la frangetta spesso davanti agli occhi scuri. Mostrò la prima pagina delle memorie, che negli apici rappresentava un dipinto molto accurato dei quattro triangoli uguali ai loro.
Una piuma di cristallo al centro identica a quella al collo di Picam, rifletteva i bagliori del fuoco. Dava l’impressione di ondeggiare sospinta da un vento leggero.
I medesimi bagliori del fuoco, in quel momento resero il viso di Nalubi dolcemente incuriosito che accentuarono le sfumature dei capelli castano scuro, in un taglio scalato oltre le spalle.
Nalubi girò delicatamente la pagina dipinta. Schiarì la voce e le parole cominciarono a spandersi nell’aria…
Capitolo II
Il libro delle memorie di Picam
Abisuat terra di pace, amore e libertà, divisa dalla crudeltà di due uomini, ritornerai unita e splendida come un tempo.
In cuor tuo Salerio, eri convinto che il consiglio formato da noi monaci insieme ai sovrani ti eleggesse reggente di Abisuat. Ma sapevi di non esserne degno! Il piano di corrompere i nostri incaricati falliva. Sebbene le spie introdotte nel monastero fingendosi fratelli, riportassero ogni cosa appresa sul tuo brutale comportamento, atto a sfruttare il popolo, obbligato a mascherarlo in acclamazioni pubbliche.
Dopo la lettura dei tuoi resoconti negativi protestavi. Garantivi su Montalius, della quale sei sovrano, un progresso superiore agli altri regni grazie al tuo buon governo e reclamavi il diritto di ricevere la nomina.
Esponevamo il modo scorretto di regnare, al fine di farti accettare benevolmente la nostra univoca decisione. Sembravi aver capito i tuoi errori. Facevi cenni di consenso con il capo, invece erano falsi.
Il cuore iniquo, la mente corrotta, ti hanno spinto prima di tutto a pensare come illegittimamente ottenere la reggenza che tanto bramavi, al posto di scusarti delle tue colpe, hai preferito anteporre la sete di potere all’amore. Usando solo le armi eri certo di non ottenere la vittoria contro gli eserciti uniti dei regni. Così hai sottratto i triangoli dall’altare della pace nella “Sala dei Pensieri” nel monastero di Verifall, per consegnarli a Lupus. Con il tuo gesto sconsiderato, l’hai reso libero di scrivere “proponimenti oscuri”, tramandati dalle stesse tenebre, in modo da ottenere l’appoggio occulto necessario, atto a sconfiggere i sovrani per sottomettere i loro popoli usando metodi perfidi.
Ricorda! Reggente di Abisuat non ti ha eletto il consiglio, ma le tenebre. Il tuo ignobile tradimento avrà la condanna che merita.
La luce nei luoghi celesti porrà fine alla tua tirannia. Il giorno della resa dei conti presto sorgerà e i suoi “Prescelti”, ti sconfiggeranno. Le tenebre scriveranno il tuo nome nel loro libro e riceverai la ricompensa nei tormenti delle fiamme oscure, nel regno malvagio.
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Abisuat una terra circondata dal mare, in un mondo non ancora completamente esplorato, si costituiva in questo periodo di sei regni, che nel passato ne contemplava due in più, quelli di Verifall, ora capitale, e Villefra.
A nord-ovest “Ninius”, insieme alle cittadine, Nisniu a capo del regno, Innius, Sunini, Nusini, e Ceracer sul mare, esponeva nella sua torre più alta una bandiera verde, al centro un gorilla a lato di una palma. Era il territorio appartenente ai sovrani Arel e Gizia. L’isola di Ceracer, in seguito passò segretamente sotto la giurisdizione del regno di Montalius e diventò un carcere di massima sicurezza.
I suoi cittadini erano in particolare allevatori di bovini, produttori di ottimi formaggi, conciatori di pellame. Parecchi abitanti seguivano la dottrina della reincarnazione, tra uomo e animale.
“Isator” a nord-est, era il regno governato da Comer e dalla compagna Nebasia. Al regno appartenevano quattro città, Riotas la capitale, Tarios, Tisaro, Tarsio, oltre alle isole Omanoc, Fillerva sul lago e Niflea sul mare.
Lo stendardo principale che rappresentava il regno, si componeva di due colori, grigio e rosso, diviso in senso verticale che nel mezzo mostrava un cavallo rampante bianco. La loro terra era molto verde, con boschi, colline e vaste praterie. Il popolo amava l’agricoltura, ma più che altro l’allevamento dei cavalli, i migliori purosangue di tutti i regni.
“Montalius” a est, era il regno dei sovrani Salerio e Zaira, e aveva cinque città: la principale Monsultia, Molinatus, Tulmonias, Tilomanius e Dartritio, le isole di Gigloa e Ruocos sul mare, Rotasi sul lago, che completavano la nazione. Una bandiera su sfondo nero, una croce rossa negli apici, con un ariete bianco centrale a testa bassa in posizione aggressiva, simboleggiava il paese. Il loro territorio, formato prevalentemente da catene montuose coperte di foreste innevate quasi tutto l’anno, si distendeva in una pianura fino alle coste del lago.
Gli abitanti di Montalius si dedicavano più che altro al taglio degli alberi, e la lavorazione del legname. Costruivano mobilio, attrezzi agricoli, strutture dei fabbricati e dei ponti, armi da guerra mobili, utilizzando la risorsa primaria di cui disponevano in grandi quantità: il legno.
“Nautinar” a sud-est, con la città primaria Rannatui, Chetom, Tuaranni, e Traunnia, regnato da Corsan e Stelania, aveva uno stendardo verde smeraldo e due delfini curvi a semicerchio, come se saltassero fuori dal mare, per rappresentarlo.
I suoi territori confinavano quasi tutti con l’acqua. All’interno accoglieva un vulcano spento chiamato “La valle di Namasica, o Conca del Metarso”.
Lavoratori esperti in costruzioni navali, ottimi pescatori, si sostenevano grazie alla pesca, nei suoi mari ricchi di pesce. Nella piazza del borgo di Chetom, allestivano un mercato famoso in tutta Abisuat. Si vendevano anche merci rare, e oggetti particolari fabbricati da inventori sconosciuti, sottratti dai pirati nell’abbordare le navi. Infatti, specialmente i mercanti, si dedicavano ad atti di pirateria.
“Pervilar”, a sud-ovest, contava su un territorio centralmente desertico con stupende oasi. Dominato da Crispo e dalla moglie Labella, raffigurava il reame in una bandiera arancione con lo stemma centrale di due scoiattoli eretti, disposti frontalmente. Oltre alla principale Parvirel, aveva tre città, Vansuluci, Plariver, Vilperra e altrettante isole sul mare, Tripia, Vulcanius, Laligor, infine, Damadei sul lago. Si fondeva poi, nella vegetazione dei paesi confinanti formando un terreno misto, dal clima mite temperato, anche se in un certo periodo dell’anno forti raffiche di vento lo imperversavano.
Gente semplice costituiva buona parte della popolazione, ma erano diffidenti nei confronti degli stranieri che praticavano dottrine dissimili dalla loro, poiché seguivano culti di libri profetici o adoravano diverse statue di dei. Alcune famiglie vivevano allo stato tribale in tende, mentre il resto degli abitanti abitava in castelli, borghi o in comuni masserie.
Ottima zona mineraria, il paese produceva principalmente prodotti in rame cesellati artisticamente, manufatti di ferro battuto, spade pregiate.
Il vessillo con uno stemma centrale d’aquila sopra due spade incrociate e altrettanti pugnali lunghi, su uno sfondo azzurro terminante a triangoli, raffigurava il regno di “Damanor”. Situato a ovest di Abisuat, era il territorio più popolato. Madarno era la capitale, e comprendeva altre quattro cittadine, Nadomar, Maronda, Mordana e Romanad. La governavano i sovrani Artaxano e Celsia, genitori della principessa Nalubi.
Il popolo formato da grandi lavoratori, si componeva in prevalenza da contadini, contava di ottimi fabbri, costruttori edili, ed esperti cercatori minerari. Artaxano e Celsia amavano il popolo, con cui condividevano le poche risorse del regno, dopo aver versato le tasse al tiranno reggente di Abisuat.
La sovrana Celsia, visitava abitualmente i villaggi dei contadini al fine di verificare lo stato di mantenimento. Ai più bisognosi distribuiva generi di conforto, utilizzando se necessario anche le poche scorte dei loro magazzini. All’interno del castello dove vivevano, non molto distante da un ampio borgo, avevano riservato una sala adibita a sede di giustizia. La usavano in prevalenza a favore dei cittadini, che si presentavano per risolvere controversie o problemi legati alla loro attività lavorativa, sapendo di ottenere sentenze giuste e oneste dai sovrani.
I piccoli reati, difficilmente subivano condanne da scontare in prigione. Si orientavano più sul rimborso dei danni attraverso lavori manuali a favore dei danneggiati. I cittadini vivevano buona parte alla soglia della povertà, ma l’esempio dei sovrani gli dava la forza di tirare avanti, e pacificamente si aiutavano a vicenda.
Artaxano applicava un metodo di economia basato sul reciproco aiuto, in modo da intensificare l’agricoltura fonte primaria di sostentamento.
Se ad esempio: a causa d’intemperie o disgrazie, diversi contadini perdevano in parte o tutto il raccolto, chiaramente l’anno successivo non erano in grado di coltivare completamente i loro campi. Altri agricoltori non danneggiati in quel caso, potevano dare appoggio utilizzando i loro terreni da seminare. I ricavati dei raccolti seguenti li dividevano equamente. In quel modo si aiutavano a risanare le perdite subite l’anno precedente.
Esisteva anche una cassa per erogare modesti prestiti privi d’interessi, da utilizzare nelle medesime situazioni. La gestiva direttamente l’esattore del regno, evitando l’intervento degli usurai.
Il popolo beneficiava anche di alcuni ospedali. Nei borghi maggiori o nelle missioni, vi erano dei luoghi dedicati ai bambini rimasti orfani, gestiti dai monaci insieme alle sorelle della dottrina della luce. Alle famiglie di chi aveva perso i figli, o non ne aveva, si consentiva l’adozione.
Severi controlli, verificavano che l’accoglienza non avesse lo scopo di crearne solamente una forza lavoro. Queste ragioni, oltre la saggezza dei regnanti e il buon governo li resero stimati in tutta Abisuat.
Abisuat centralmente aveva un vasto lago con diversi fiumi navigabili. Nel lago, c’era un’isola densamente abitata chiamata “Verifall”, quattro minori prive di popolazione. Era dominio, isole comprese, di due regni formati da quattro tribù di guerrieri della dottrina della luce ormai scomparsi. In questo periodo la città omonima era la capitale dei sei regni uniti. L’isola non apparteneva a nessun sovrano. La governava il reggente in carica, coadiuvato dai consiglieri e i monaci responsabili del monastero interno della città di Verifall. Era splendida. Aveva quasi tutto il perimetro formato da basse scogliere, grandi prati, boschi, tante specie di animali, in particolare nella zona da nord a sud-est.
Grazie ad un ampio porto a sud-ovest, divenne il maggior centro di commercio. I regni di Abisuat convogliavano le merci, per la facilità di vendere e distribuirle velocemente in tutto il territorio.
All’estremo sud-ovest di Verifall capitale c’era una fiorente cittadina dal nome “Villefra”. Gli abitanti producevano la maggior parte dei prodotti consumati nell’isola. Il suo ottimo benessere non richiedeva tributi dagli altri regni. Anzi, sostenevano anche le spese del reggente, i governanti, l’esercito unito di pacificazione.
Per entrare nell’isola, collegata alla terraferma tramite un lungo ponte di pietra, bisognava superare un robusto cancello al fondo, protetto sui lati da due torri dotate in cima di armi da lancio.
Superata la prima difesa dopo i controlli, poiché non si potevano commerciare armi, una larga strada ciottolata permetteva agevolmente il transito dei carri in entrambe le direzioni. Si ramificava poi all’interno del territorio, all’antistante borgo del castello fortificato in una doppia cinta muraria, che aveva il perimetro a forma di ovale irregolare, protetto da due torri sul cancello principale, altre quattro nei punti strategici in modo da prevenire gli attacchi di eventuali nemici.
Un ingresso secondario a sud-est, sulla prima cinta muraria, interdetto da un fossato d’acqua, si superava attraversando un ponte levatoio. Lo usavano principalmente per il transito dell’esercito o i carri merci diretti al castello.
Varcato il cancello principale, si entrava nel borgo del castello. La strada continuava presentando a destra, in un’unica ampia costruzione: la scuderia, il maniscalco, l’armeria, a sinistra l’avamposto con la caserma militare.
Seguiva sempre sulla destra, un esteso casale che ospitava il fornaio comune, varie botteghe di artigiani, locali forniti di ogni mercanzia. Ai piani superiori c’erano le abitazioni dei commercianti e operai. Alla sua destra verso il monastero, c’era la casa della foresteria. La utilizzavano anche come infermeria e ricovero dei soldati feriti in caso di guerra. La gestivano le sorelle della luce, oltre al compito della preparazione di medicamenti nella fornita erboristeria. Frontalmente alle botteghe, c’erano altre quattro torri armate. Presidiavano la seconda cinta muraria rettangolare ad apici semi circolari, il castello, la residenza dei nobili e delle loro famiglie.
Il passare del tempo rese il castello più una stupenda reggia adornata di giardini, alberi, siepi con aiuole, che una vera fortezza adibita alla difesa.
Una fontana ottagonale formata da otto spicchi triangolari, rendeva ancor più bella l’area del cortile pavimentato, adiacente al palazzo reale. Delle colonne sostenevano parte del piano superiore con dodici archi. Separavano un’area aperta, dove nel corridoio si disponevano le sentinelle scelte a difesa del palazzo reale, giorno e notte. Nel corridoio quattro porte davano accesso: all’armeria personale del palazzo, il dormitorio, la mensa delle sentinelle. L’ultima portava in un’ampia sala, cui un tempo si riunivano i generali per valutare tattiche militari, impartire ordini ai sottoposti in caso di guerra.
Al primo piano c’erano diversi saloni, tra i quali quello destinato alle feste solenni, da ballo, la sede dei ministri del governo unito con la tesoreria. Un altro luogo lo adibivano a scuola di comportamento delle damigelle, o ritrovo delle donne nobili. Il secondo piano invece apparteneva completamente al reggente, alla sua famiglia e i parenti stretti. Una grande stanza adibita a cucina, attraverso due porte conduceva direttamente alla sala da pranzo.
La servitù, che non doveva risiedere nel palazzo insieme ai propri figli, occupava una parte posteriore separata integrante la zona notte, divisa senza comunicazione tra donne e uomini. Artaxano abolì l’obbligo di soggiorno della servitù che poteva vivere in famiglia nel borgo, o nelle loro case per avvicendarsi nelle proprie mansioni, in turni organizzati dai responsabili.
A sinistra del palazzo reale, sorgevano i fabbricati dei nobili, seguivano l’esattoria con l’unica zecca per coniare le monete. I tondelli riportavano le effigi dei regnanti o lo stemma di appartenenza. Infine c’era la borsa, che stabiliva i prezzi di mercato dei prodotti fondamentali in tutta Abisuat.
Le costruzioni interne alla seconda cinta muraria si ultimavano con l’accademia militare, a forma di elle, dove gli allievi vivevano all’interno in convitto. In un’ala però, dei comodi alloggi appartenevano ai graduati con le loro eventuali famiglie. I sotterranei invece si suddividevano in anguste celle che adibivano a prigioni, o a stanze in cui infliggere punizioni corporali.
Al termine della strada, infine, una stupenda pavimentazione triangolare con un apice a nord-est, ospitava un monastero di una particolare muratura violacea, con un cerchio d’oro sulla base del tetto del campanile. Il monastero, organizzato da cinque monaci responsabili, era la sede generale di tutte le missioni gestite dai fratelli appartenenti alla dottrina della luce. Almeno una missione era presente nei regni di Abisuat, poiché diverse forme religiose si rivolgevano a statue di dei, profeti, altre al culto della reincarnazione. I primi quattro curavano i triangoli, gli stessi lasciati nella radura alla scomparsa di Picam. Preparavano i novizi per sostituirli nella vecchiaia, all’insegnamento scolastico dei giovani nobili, senza considerare la dottrina di appartenenza.
Il quinto aveva funzioni di missionario e messaggero, oltre a occuparsi della piuma di cristallo. La portava sempre al collo nei suoi viaggi, o se consegnava missive importanti ai regnanti. La piuma di cristallo era una spilla lunga quattro centimetri, sigillata in un contenitore metallico triangolare azzurro trasparente, trattenuta in un bordo rotondo, anch’esso d’oro brunito finemente inciso a triangoli. Emetteva riflessi colorati che le davano la parvenza di movimento.
A planimetria rettangolare, il monastero si componeva di quattro edifici uniti. Includeva una torre campanaria, dietro di sé la seconda costruzione quadrangolare, la “Sala dei Pensieri”. Aveva i lati lunghi ventiquattro metri, il pavimento piastrellato a quadrati di marmo bianco venato di azzurro, come le pareti. Il suo soffitto a forma di cupola, retto da quattro colonne di marmo bianco, si componeva di pari numero a spicchi azzurri in vetro smerigliato intagliato, giuntati da altrettante lame dorate. Gli intagli riflettevano la luce sul pavimento e sulle pareti, creando una miriade di triangoli se i raggi solari la irradiavano. Le porte d’ingresso della sala dei pensieri erano due: la prima centrale al fondo del campanile, la seconda laterale sulla sinistra dietro una colonna attigua alle celle dei monaci, comprese di pagliericcio, che completava la struttura di base.
L’interno conteneva un quadrato, nominato “Altare della Pace”. Aveva i lati misuranti quattro metri e venti centimetri di spessore, formato dall’unione di triangoli isosceli in granito bianco. Le gambe sugli apici mostravano una forma a torcia rovesciata, che scaturivano fiamme perenni simili a quelle del fuoco. Non emettevano calore bensì energia, nel sostenerlo sospeso dal suolo. Nel centro della superficie d’appoggio, la figura di un maestro guerriero intagliata a grandezza naturale, stava seduto a gambe incrociate a mani allungate sulla testa giunte a triangolo. Sui lati della corporatura vi erano piccole incisioni create da scalpellini, di altri guerrieri in posizioni da combattimento a mani nude o spada, con i simboli rappresentanti le mosse.
Sempre sul piano dell’altare, un fascio luminoso ambrato velato proveniente dalla luce nei luoghi celesti, lo irradiava giorno e notte. Nessuna forza malvagia la poteva oscurare. Dava energia alla piuma di cristallo, inserita in un incastro triangolare all’interno di un cerchio d’oro, al centro del lato sotto il maestro guerriero. Sui vertici risaltavano altri quattro cerchi sempre d’oro. Contenevano i triangoli, che da un apice emettevano un sottile raggio di colore azzurro. Il raggio, indicava una colonna cilindrica di marmo bianco scolpita al centro, raffigurante un monaco in posizione eretta a mani giunte, allungate sopra il capo. Il monaco era vestito con un saio e portava una stola al collo. La cintura sui suoi fianchi mostrava una fibbia a forma di triangolo, con un bastone uguale a quello di Picam, posto in diagonale. Nella realtà, quando il monaco lo portava, era una forza magnetica a sostenerlo, poiché non aveva sedi d’incastro. Di fronte all’altare, i fedeli si disponevano in strisce di stoffa seduti a gambe incrociate al fine di inviare in quella posizione “pensieri di luce”, mentalmente o, in un tempo prestabilito a voce. Infine, sui suoi lati destro e sinistro, affiancati, spiccavano quattro treppiedi. Reggevano i bracieri d’oro, usati per spandere i profumi, o bruciare le pergamene dei proponimenti di luce ricevuti.
Sul muro dietro l’altare, si osservava una nicchia triangolare ad apice verso l’alto, all’interno una reliquia cubica somigliante a una lanterna. Aveva la cupola semisferica cesellata sul bordo del cerchio inferiore a triangoli concatenanti, come se riproducesse la sala dei pensieri in miniatura. Cinque delle facciate erano d’oro con i lati di ottanta centimetri. La sesta, una porticina sulla parte anteriore della stessa misura, era di metallo argenteo semitrasparente. Una piuma di colore verde al centro della porticina, posta in diagonale attraversava la parete destra. Sigillava la reliquia tramite il calamo per preservare l’interno che conteneva “proponimenti di luce”, ossia, richieste d’intercessione ai luoghi celesti, scritte su pergamene. I monaci dovevano scrivere sulle pergamene i proponimenti di luce necessariamente sopra l’altare, alla presenza dei triangoli negli incastri. Le arrotolavano e le sigillavano attraverso i bastoni, che poi introducevano nella reliquia al fine di attivarle, proteggerle, e ricevere l’energia dei triangoli.
Sul lato destro della nicchia, risaltava un cilindro di vetro a forma di bacile completamente sigillato. Misurava quaranta centimetri di diametro per sedici di altezza, bordato d’oro a incisioni triangolari. Racchiudeva all’interno acqua particolare. Poggiava su un fascio cilindrico di luce azzurra, con il diametro di venti centimetri per ottanta di altezza, che lo sosteneva sospeso dal pavimento. Il bacile aveva poteri veggenti. Se interrogato, rispondeva a sua discrezione a domande poste a parole, o mentalmente dai monaci, visualizzando immagini sulla superficie liquida. Ma se doveva mostrare avvenimenti utili, non aspettava la consultazione, la richiedeva facendo lampeggiare la piuma di cristallo se si trovava nell’altare, o addosso al monaco viaggiatore presente nella sala dei pensieri. L’acqua del bacile di vetro cambiava colore, diveniva argentea trasparente se visualizzava immagini passate, blu simile alla superficie del mare, nel caso di future.
I monaci al fine di ottenere una risposta, dovevano inserire la piuma di cristallo sul bordo d’oro in un incastro specifico. In alcuni casi, sempre dal bordo d’oro, il bacile emetteva fumi. I medesimi avvolgevano il monaco in una bolla di energia, trasportandolo celato nei luoghi, dove poteva vedere e ascoltare le persone coinvolte negli accadimenti.
Alla sinistra della torre campanaria c’era la terza costruzione su due piani, del quale il superiore appoggiava parzialmente sopra otto colonne. Affiancato alle colonne, un corridoio conduceva a due porte, una all’inizio l’altra al termine. La prima porta dava accesso alla scalinata del sotterraneo delle cripte, dove c’erano le tombe dei passati monaci, la seconda conduceva a un’area con l’ingresso della cucina e del refettorio. Seguivano le scale per salire al corridoio del secondo piano. A lato s’intravedeva l’ingresso della biblioteca utilizzabile dagli studenti, fornita di libri, rari manoscritti, gli scrittoi per le copiature, i colori per dipingere le miniature. In una piccola zona chiusa, dei libri particolari potevano consultarli solamente i monaci responsabili. Il corridoio del piano superiore dava anche accesso alla quarta costruzione della sottostante biblioteca, e il dormitorio dei monaci responsabili. Concludevano il piano, la saletta delle riunioni, le camere degli studenti, le celle dei novizi e la scuola.
Il luogo d’istruzione consisteva in una stanza con banchi disposti su livelli a semicerchio intorno alla cattedra, a modello accademico. L’accesso alla struttura si consentiva unicamente ai figli dei nobili. A discrezione dei monaci tuttavia, potevano frequentarla cittadini non aristocratici, adatti agli studi, l’ideale della dottrina della luce o il cavalierato, che segnalavano anche i fratelli delle missioni.
Diverse pareti del monastero avevano adornamenti di dipinti, simboli con citazioni del “Libro della Vita”, le testimonianze su cui si basava la dottrina della luce.
Il borgo continuava fuori dalla cinta muraria, con altre abitazioni, locande intorno a una piazza, dove allestivano mercato e fiere. Non molto distante cominciavano boschi, prati e villaggi dei contadini.
Artaxano era reggente di Abisuat quasi al termine del suo secondo mandato, quando pace e stabilità vennero meno. Governava i regni assieme a dodici ministri incaricati dai sei sovrani con altrettanti consiglieri.
I compiti più importanti del reggente si basavano: nell’emanare leggi stabilite dal governo, gestire il fondo monetario comune per sostenere i regni in difficoltà. Risolveva inoltre le controversie tra i regnanti, allo scopo di far prosperare Abisuat mantenendo la pace.
Ogni quattro anni nella capitale si teneva “il consiglio”. Nominavano un nuovo reggente, o proseguivano nel quadriennio successivo il mandato a chi già era in carica. I cinque monaci responsabili portatori del bastone di Verifall facevano da giudici nelle elezioni del reggente. Valutavano anche la costituzionalità delle leggi da varare, secondo l’ordinamento in vigore in quel periodo. L’elezione avveniva con votazione segreta, dopo la lettura dei rapporti annuali redatti dagli ispettori, sul reale benessere sociale raggiunto da ogni singolo regno. Il giudizio di elezione si stabiliva in conformità del punteggio ottenuto dalla somma di parametri essenziali. Contavano il buon governo dei territori, l’incremento agricolo, le infrastrutture costruite, scambi commerciali, saggezza del sovrano, riduzione della povertà, libertà del popolo. A quel punto i membri del consiglio, i cinque religiosi traevano le conclusioni e votavano. Il sovrano eletto aveva la facoltà di spostare la residenza nell’isola, o rimanere nel proprio regno.
La falsità di Salerio verso i suoi sudditi, gli permise i progressi vantati il giorno dell’elezione ricordati nelle memorie di Picam. Sapevano però, malgrado avesse corrotto alcuni ispettori per favorirlo, di averli ottenuti ingannando il popolo con vane promesse di benessere e ricchezza. Invece, lo sfruttava, faceva vivere di stenti, utilizzando persino le angherie.
Salerio mostrava orgoglioso l’aspetto del suo benessere. Era alto, barba folta, paffuto perché mangiava molto, comunque dotato di ottima forza e agilità. Non disdegnava di portare la corona reale, anche se non occorreva, di conseguenza aveva i capelli lunghi ondulati neri spesso mal curati.
Il denaro accumulato attraverso le tasse esose, lo sprecava per costruire armi, comprare navi, assoldare mercenari. Credeva in quel modo, di intimorire tutti i regni mostrando la sua potenza militare, vantandosi ogni volta che ne aveva la possibilità, insieme all’efficienza raggiunta nel produrre armi.
Pertanto perse le elezioni, perché rielessero Artaxano alla reggenza di Abisuat, reputato il più degno per saggezza e buon governo. Lui non usava privilegi o favori a discapito degli altri, ancor meno al suo regno.
Salerio, con il cuore gonfio di odio, decise a quel punto di mettere in atto i suoi propositi. Sottrasse i triangoli dal monastero e si recò a Ruocos, un luogo a sud-est di Abisuat, tra il suo regno e quello di Corsan.
Nell’isola cercò il monaco dei lupi in esilio, conosciuto come “Lupus”. Scelse lui perché era l’unico a conoscere i segreti scritti nel “Libro dei Pensieri”. Il libro era un unico antichissimo manoscritto, contenente i riti dei “proponimenti oscuri”, che includeva i riferimenti da usare per disattivarli utilizzando quelli opposti di luce, nascosto in un luogo segreto del monastero che solo i monaci responsabili conoscevano.
Per convincerlo a unirsi con lui, Salerio pensò di offrirgli la libertà, o il privilegio di dirigere il monastero di Verifall comprese le missioni, ma se possibile risolverla pagando i suoi servigi.
Il Monaco dei lupi
Lupus, adottato da ragazzo dai cinque religiosi di Verifall, grazie alle insistenze di Picam, divenne loro novizio dopo la morte dei genitori nativi di Monsultia. Amato come un figlio in modo particolare da Picam, seguiva tutte le loro attività, e a volte accompagnava anche il monaco nei viaggi.
Amante della montagna, dei lupi come il padre, nel periodo estivo lasciava il monastero. Si recava da Salerio che invitava Lupus in Monsultia a caccia, poiché conosceva e stimava i genitori. Salerio però, quando Lupus rimase orfano non si assunse la responsabilità di accudirlo. Lui vedeva ogni potenziale persona un rivale. Lo stesso motivo gli impediva di aver figli, temendo intrighi di corte svolti a sottrargli il trono.
Lupus prima di recarsi al monastero, lasciò vivere nella modesta casa la giovane domestica per volontà di sua madre che lei amava. La ragazza era gravida, in condizioni economiche precarie dopo la morte del marito, colpito dalla medesima malattia dei genitori, e le donò i pochi risparmi.
Lupus aveva in cuore di diventare il più bravo monaco di tutti i tempi. L’impotenza dei religiosi, nel tentativo di guarire i suoi genitori malati con l’energia curativa fornita dai loro bastoni, aumentarono il desiderio.
Accelerò la sua preparazione quando riuscì a sottrarre nel luogo nascosto della biblioteca del monastero il libro dei pensieri, leggendo i proponimenti oscuri, scritti un tempo in Abisuat dai ministri delle tenebre.
I monaci si accorsero del furto, lo interrogarono ma negò di averlo preso. Erano sicuri della colpevolezza, perché trovarono nello scrittoio della sua cella appunti scritti su pergamene riguardanti passaggi del libro, nascosti abilmente nel doppio fondo del cassetto. La notte chiuso nella cella, rimuoveva una pietra dove lo aveva nascosto, per studiare attentamente i riferimenti dei proponimenti oscuri per capirne la loro azione. In quel modo scoprì pian piano i punti deboli che permettevano di eliminarli.
Trovò alcuni scritti incomprensibili associati a strani simboli, tuttavia non si arrese davanti al problema e cercò di tradurli.
Aveva notato nella cripta del sotterraneo del monastero, vari epitaffi incisi in lingue poco conosciute nelle lapidi dei monaci estinti, se avanzava del tempo dopo i suoi compiti, andava a trascriverli. Quando riusciva a capirne il significato, li confrontava in base alle parole antiche scritte nel libro dei pensieri. Giunse attraverso quel metodo a tradurre alcune parti complesse, arricchendo la sua cultura, oltre a scoprire l’importanza dell’associazione simbolica nella stesura dei proponimenti oscuri.
Anche se perquisirono a fondo la sua cella, non trovarono il libro, né tanto meno compiendo un’accurata ricerca tra quelli presenti nella biblioteca. In cuor loro però, i monaci non volevano che lo restituisse usando la forza, così sbagliando, gli diedero del tempo affinché lo facesse spontaneamente. Lui ne approfittò e continuò a studiarlo, diventando sempre più pericoloso. Attesero invano la sua redenzione, che non avvenne, e a malincuore lo allontanarono dal monastero, pensando di evitargli una dura prigionia.
Tante volte, i monaci si chiesero il motivo della sua ostilità nel restituirlo, nel perseverare a dichiararsi innocente, e il pensiero di non aver preso la giusta decisione li lasciava talvolta un peso nel cuore.
Anche se Lupus trascorse solo dodici anni nel monastero, costretti dagli eventi i monaci lo confinarono a Ruocos, in un’isola a nord-ovest di Abisuat, dove in un bosco vivevano alcuni branchi di lupi, animali selvatici e nidificavano parecchi uccelli. Il luogo era disabitato a causa del territorio molto roccioso, difficile da coltivare. Tuttavia poteva fornire in abbondanza il cibo necessario al suo sostentamento. Gli lasciarono comunque parecchie scorte di viveri, sufficienti a procurarsi in seguito il cibo da solo, vari attrezzi utili alla coltivazione, lavori artigianali, nei quali aveva dimestichezza. Picam per non lasciarlo completamente solo, gli concesse di portare con sé il suo bellissimo lupo ammaestrato.
La dottrina malvagia delle tenebre, ormai aveva offuscato la mente di Lupus. I monaci, al fine di evitare un seguito, fecero scaturire venti violenti sulle coste di Ruocos, formando una barriera protettiva contro la fuga.
Usarono un proponimento di luce scritto su una pergamena, introdotto nella reliquia d’oro per renderlo sempre attivo con l’energia dei triangoli. Lupus non avrebbe mai potuto creare fastidi, e vivere l’esilio in serenità come immaginavano i monaci.
L’intervento di Salerio invece, lo rese libero di applicare i suoi studi malvagi, tramutando la loro sicurezza in angoscia…
Nalubi interruppe la lettura appoggiando le dita affusolate della mano sul mento, e con aria pensierosa disse: «I prescelti; ho già letto l’uso di questo termine, tuttavia non ricordo in quale racconto».
«Prescelti a far cosa non si capisce» affermò Erik. «Almeno sappiamo la provenienza dei triangoli. Li ha carpiti il nostro amato reggente Salerio dal monastero di Verifall» aggiunse ironico.
«Ricordo, anche se vagamente, perché ero piccolina, di aver visto il monastero all’interno delle mura del castello di Verifall. Mi è rimasto impresso per l’intenso colore violaceo della muratura, il forte suono delle campane, e un anello dorato alla base del tetto del campanile».
Erik premuroso disse: «Pensaci un attimo Nalubi. Potrebbero venirti in mente altri particolari importanti».
Nalubi si concentrò per cercare nella mente i ricordi. Gli amici la aiutarono silenziosi, ma al momento ricordò solo quello.
«Inutile, non mi viene in mente altro. Aggiungo solo parole confuse di mio padre: questa è la sala dei pensieri, hai visto quanti riflessi ci sono sulle pareti e sui muri? Li guardavo attentamente perché sembravano tante foglie vibrare al vento. Mio padre si recava spesso a Verifall ma non sapevo il motivo. Rimanevo sempre a Madarno assieme a mia madre, un giorno però, ha deciso di portarmi e l’ho visto».
«Pazienza Nalubi. Forse più avanti ti verrà in mente qualche altro dettaglio» la rincuorò Sandra. «Continuando il discorso, Picam parla di un uomo in grado di usare quelli che chiama proponimenti oscuri. Immagino siano l’opposto di quelli di luce. Io però, non so cosa siano né gli uni, né gli altri».
Con la scusa della sorellina Olem leggeva quasi esclusivamente favole. Le adorava se raccontavano leggende sul mare, con bellissime sirene. Trasse così la conclusione ispirandosi da una delle preferite, che non distava molto dalla sua supposizione.
«Forse sono frasi malefiche scritte su pergamene da citare nei raduni di uomini malvagi».
«Per saperne di più, al posto di perdere tempo nel fare supposizioni, non converrebbe continuare a leggere le memorie?» propose Erik, non trattenendo più la curiosità.
Nalubi non sentì commenti e riprese felice a leggere…
Capitolo III
Il rapimento dei monaci e il Libro dei Pensieri
Tornavo a Verifall da un viaggio, quando appresi da re Artaxano, reggente di Abisuat, l’accadimento di un fatto grave. Durante la notte, dopo aver eliminato le guardie, avevano sottratto i quattro triangoli dell’altare e rapito i miei fratelli dal monastero. Spiegò dell’agguato avvenuto nel momento in cui inviavano pensieri di luce, perché sospettavano un presunto sortilegio, ai danni della regina Stelania del regno di Nautinar. Attendevano il mio arrivo, pensando di scrivere se necessario, un contro proponimento di luce. Mi recai subito nella sala dei pensieri, e quando entrai rimasi alcuni istanti sconvolto nel vederla trasformata. La piuma di cristallo emetteva bagliori, e andai immediatamente a interrogare il bacile di vetro. Quando la collocai nell’incastro, subito dopo l’acqua si mosse, si trasformò in argentea e cominciò a mostrare delle figure.
Su questo libro ho descritto a ritroso, le immagini rivelate dal bacile e le parole udite nella mia mente. Le mie memorie in questo modo non andranno perse, qualsiasi cosa mi accadrà.
Osservai un nostro novizio entrare di notte nella zona proibita della biblioteca. Si recò davanti a un libro celato in un piccolo vano segreto chiuso, che si poteva aprire, solo inserendo il triangolo d’oro nella feritoia posta sulla parete. I monaci addetti alla sorveglianza dell’altare immaginai che dormissero, perché lui lo aveva in mano. Lo inserì, aprì la porticina e sottrasse il libro dei pensieri. Tornò a riporre il triangolo sull’altare e mi resi conto dell’inadempienza dei fratelli.
Mi chiesi, come Lupus conoscesse il metodo per aprirla. Ragionai, conclusi che poteva solo averlo visto fare da uno di noi, probabilmente nelle rare volte di consultazione. Sicuramente ci spiava! Ma mi premeva di più, conoscere come seppe della sua esistenza.
Le figure si spostarono e mostrarono Lupus origliare dietro la porta della saletta riunioni. Il momento corrispondeva con l’incontro, in cui insieme ai miei fratelli decidemmo di confinarlo. Lo osservai subito dopo avvicinarsi verso una grotta in Ruocos. Riconobbi il posto, ma non la grotta. Vicino a un vecchio albero di quercia, a lato dell’ingresso c’era una picca piantata. In cima aveva lo scheletro di una testa di ariete, cui mancava la parte terminale di un corno e stranamente non aveva i denti.
Avevo visitato l’isola anni addietro, quando al monastero erano venuti dei nobili insieme al figlio a chiedere aiuto. Il loro ragazzo pareva colpito da una maledizione. L’accadimento avvenne mentre per divertirsi, andò a caccia di uccelli nell’isola e toccando di proposito la testa, a dire dei suoi amici, cadde al suolo senza sensi e divenne muto.
Volevo capire se, in effetti, era fonte di qualche maleficio poiché realmente il giovane non parlava. Andai a visitarla prima di intraprendere qualsiasi azione. Agire senza ragionare non fa parte del mio carattere come rischiare inutilmente. Era lugubre, tuttavia non notai nulla di particolarmente pericoloso, la toccai ma non accadde nulla.
Torniamo a Lupus. Accese un mozzicone di candela. Le teneva sempre in tasca, poiché temeva di rimanere senza durante la notte, e non poter leggere. Si diresse all’interno, nascose il libro dei pensieri in una fessura della parete, poi la coprì usando una pietra.
Ci accorgemmo della sua assenza prolungata in quei giorni, quando tornò chiedemmo il motivo, e lui rispose: «Mentre andavo a fare le commissioni a Villefra, dei briganti mi hanno rapinato, legato e chiuso in una cella. Avevano paura che li denunciassi, perché avevo visto i loro volti».
Continuò la sua bugia. Studiò uno stratagemma mai spiegato, e riuscì a fuggire. A nessuno di noi monaci balenò l’idea di un lungo viaggio nell’isola d’esilio, per andare a nascondere il libro. Quel giorno tuttavia non indagammo oltre, perché avevamo già deciso la sua sorte.
Il bacile agitò alcuni istanti l’acqua all’interno. Quando tornò calma e la visione riprese, era pressoché buio, ma la luna piena brillava nel cielo.
Dal lato nord-est del borgo intravidi due barche, con un equipaggio di otto uomini armati all’interno. Si avvicinarono ai bastioni poco distanti dalle sponde di un’insenatura del lago, sbarcarono e li raggiunsero. Alcuni uomini lanciarono dei rampini, per arrampicarsi sulla muratura senza farsi scorgere dalle sentinelle sugli spalti, poco attente in quel periodo di pace.
Le neutralizzarono, superarono il muro, metà di loro si diresse verso il monastero, mentre i restanti attesero di guardia nella zona circostante.
Un uomo stava entrando nella sala dei pensieri dalla porta del campanile. Era Salerio seguito da otto soldati. Ordinò di colpire i monaci alle spalle, attraverso cerbottane munite di freccette intinte di veleno soporifero. Ignari del pericolo, inviavano pensieri di luce davanti all’altare a mani distese a triangolo sopra il capo, e caddero a terra privi di sensi.
Mentre li legavano, Salerio prese i quattro triangoli posti sugli apici dell’altare che infilò in un sacchetto legato alla sua cintura.
Portarono via i miei fratelli insieme ai bastoni appoggiati al loro fianco. Giunti alle mura i soldati le oltrepassarono e, con l’aiuto di quelli sul posto, li caricarono sulle barche.
Rimasto solo Salerio osservava attentamente l’altare. Cercava la piuma di cristallo, ma non la trovò. In viaggio la porto sempre con me, perché sono il suo custode.
Si diresse verso la reliquia nella nicchia sul muro dietro l’altare della sala, convinto di trovarla al suo interno. Provò ad aprirla tentando di rompere il sigillo, che la piuma verde sigillava attraverso il calamo, con un fendente di spada. Un lampo rosso partì dalla cupola, lo colpì e scaraventò a terra. Impaurito, scappò via verso la cinta fortificata, si arrampicò sulla corda lasciata dai suoi uomini, scavalcò e si avviò in direzione delle barche. Salì a bordo della prima, ed entrambe si dileguarono nella notte, portando via i prigionieri.
L’acqua del bacile s’increspò e le immagini si mescolarono tra loro. Fremevo perché volevo conoscere la sorte dei miei fratelli. Quando il liquido tornò calmo, scrutai Salerio partire dal porticciolo di Dartritio. Arrivò prima del tramonto a Ruocos avvolta nella tempesta, sbarcò a fatica, percorse un breve tratto di strada e ravvisò la grotta di Lupus. Si presentò davanti all’ingresso e gridò il suo nome. Lupus si sorprese nel sentire una voce, di sicuro si chiedeva chi era riuscito ad approdare nell’isola, perché aveva tentato la fuga diverse volte senza successo. Non sapeva, che l’azione del proponimento di luce funzionava solo nei suoi confronti, grazie ai forti venti scaturiti sulle coste dall’energia dei triangoli.
Mi resi conto, osservando la situazione, l’errore commesso nello scrivere il proponimento di luce. Dovevamo impedire anche l’accesso all’isola.
Rapito da un fascio di energia scaturito dal bacile tramite i suoi fumi, sentivo e vedevo quanto accadeva, simile a uno spettatore invisibile.
La voce forte spettrale di Lupus usciva dall’interno della grotta, mentre alcuni lupi all’esterno si allontanarono intimoriti. «Dimmi uomo, chi ti ha rivelato il mio nome? Con quali poteri sei riuscito a sbarcare nell’isola?»
«Tu mi conosci. Sono Salerio, il sovrano del regno di Montalius» rispose.
«Se siete venuto da me maestà, avete un motivo suppongo» asserì passando a un linguaggio rispettoso ma acido.
«Sì! Ho intenzione di liberarti, se sosterrai i miei piani».
«Nessuno può liberarmi da un proponimento di luce maestà. Io potrei farlo se almeno possedessi i quattro triangoli del monastero di Verifall».
«Li ho con me!» esclamò senza esitare.
Lupus cambiò il tono della voce da rude a gentile. «Davvero mio signore? Dimostratelo mettendoli sul terreno davanti alla mia dimora».
Salerio aprì il sacchetto, li posò, e l’ingresso s’illuminò con un bagliore rosso. Un lupo, forse quello tanto amato da Lupus, uscì dalla caverna, e tirò il vestito di Salerio per farsi seguire. Lui raccolse i triangoli da terra e seguì il lupo. Percorreva lentamente la grotta, mentre da dietro l’animale vedeva davanti a sé il centro avvolto da un denso fumo oscuro rossastro.
Lupus sollevò un bastone con un ovale di metallo nero collocato sull’apice. Il bordo interno incastonava dei denti di lupo metallici disposti in un ringhio rabbioso. Tra l’asta e l’ovoidale, un rubino triangolare sosteneva entrambi. Il triangolo rosso attraverso l’apice rivolto verso il basso risucchiò il fumo, come se lo avesse ingoiato il bastone, e Salerio si accorse di essere giunto davanti a un altare dall’aspetto lugubre.
Dopo quattro anni, Lupus non era molto cambiato, alto, ossuto, il volto bianco, occhi neri cerchiati inquietanti, barba mal curata a punta, i capelli lunghi scuri simili al saio. Cingeva ai fianchi una cintura nera, con la fibbia metallica ovale incisa a testa di lupo. Ai piedi calzava sandali aperti di pelle intrecciata. Tra la chiusura slacciata del saio, intravidi un laccio di cuoio al collo. Dal laccio gli pendeva un ciondolo ovale nero, che tratteneva un triangolo violaceo di ametista semitrasparente, che al suo interno sigillava altri denti di animale dai doppi canini pronunciati in cristallo nero. Il suo aspetto con quell’ornamento sembrava ancor più malvagio. L’altare di granito della grotta anche se scuro, era identico a quello della sala dei pensieri in Verifall.
Lo sostenevano quattro gambe di cristallo nero semi avvolte da un fumo rosso vermiglio, per tenerlo sospeso dal suolo, come quello della sala dei pensieri di Verifall attraverso le torce. Il fumo sembrava che attorcigliasse ogni gamba, nel modo in cui un serpente si arrotola nel salire su un albero.
Aveva gli intagli triangolari sul piano, senza la piuma di cristallo. Il monaco al centro però teneva le mani a triangolo verso il basso, come quelli sulle colonne marmoree nere. Stonava la reliquia perché stranamente era d’oro, mentre il bacile di vetro non esisteva.
Lupus fece un rapido scatto, cercai di capire cosa inserì nell’incastro simile a quello della piuma di cristallo, senza riuscire a precisare l’oggetto.
Salerio, sconvolto dal luogo identico ma opposto a quello da cui aveva sottratto i triangoli, sentì solo la seconda volta la voce di Lupus invitarlo a rispondere a una sua domanda.
«Vi ripeto mio signore, cosa volete da me?»
«Dovresti scrivere dei proponimenti oscuri. Ne ho bisogno, al fine di ottenere la forza necessaria per assumere la carica di reggente di Abisuat».
Lupus abbassò leggermente il capo. Non voleva dargli la possibilità di leggere nei suoi occhi la falsità.
«Non conosco formule di proponimenti oscuri mio signore».
«Tu le conosci perfettamente e ne hai studiato la loro potenza. I monaci ti hanno confinato qui a causa di quel motivo».
«Loro hanno proferito queste calunnie mio signore?»
«Sì!»
«Voi mio signore, da chi lo avete saputo?»
«Non tutti i monaci hanno la fede dei portatori del bastone».
«La corruzione è sempre stata il vostro forte mio signore. Volete quindi far uso della mia preparazione oscura?»
«Sono qui per questo».
«Che avrò in cambio mio signore, a parte il vile denaro?»
«La libertà! Il giorno in cui Abisuat sarà sotto il mio dominio, otterrai inoltre i triangoli e il rettorato del monastero. Potrai usare l’altare e creare i proponimenti oscuri di tuo desiderio. Infine, ti consegnerò i quattro monaci di Verifall che ho rapito insieme ai loro bastoni.
«Tra loro vi è anche Picam mio signore?»
«No. Sfortunatamente quel giorno non era nel monastero».
«La sua libertà mio signore, potrebbe creare non pochi problemi. Accetterò un patto, solo se voi ne farete uno di sangue con i miei lupi». Fece una pausa e riprese: «Mi investirete inoltre, di un titolo in un rango appena inferiore al vostro davanti ai nobili, ma pari tra noi se saremo soli».
Salerio, disposto a tutto pur di raggiungere il suo scopo, s’inginocchiò e annuì. Poi abbassò la testa e disse: «Sarai vice re».
Lupus sorrise a denti stretti, poi gli domandò i triangoli che dispose sull’altare. Notai gli apici luminosi puntare al centro dell’interno. Scrisse una pergamena, la sigillò, la sistemò nella sua reliquia e la chiuse.
Impugnò il bastone e scagliò un lampo rosso sulla porticina argentea. Usò dei denti di lupo incastonati in un ovale metallico nero come per morderla, il morso rigirandosi mostrò la dentatura all’esterno, che sigillò la porticina insieme al lato di chiusura. Seguirono fiammate rosse provenienti dai triangoli, che colpirono i quattro monaci scolpiti nelle colonne agli apici della grotta. L’immagine si spostò nella sala dei pensieri di Verifall. Gli incastri dei triangoli rotearono rivolgendo l’apice all’interno dell’altare, nella stessa posizione di quello di Lupus. Le mani a triangolo allungate sopra la testa dei monaci sulle colonne si abbassarono, congiungendosi similmente verso il basso. I bastoni scomparvero dalle cinture, la stola intorno al collo si trasformò in una fascia nera e volò sopra i loro occhi. Subito dopo vidi i volti dei miei fratelli rapiti. Notai i loro occhi coperti simili a quelli nelle colonne scolpite, e la fascia impedirgli di vedere.
Le immagini ripresero nella sala dei pensieri mentre le colonne e il pavimento divennero oscuri. Solo la cupola mantenne il suo aspetto luminoso, ma rifletteva triangoli neri sulle pareti chiare, e compresi perché la trovai ridotta in quello stato.
La quiete tornò, il monaco chiamò il lupo e gli ordinò di sedersi al fianco di Salerio, genuflesso tremante di paura per l’accaduto.
Lupus andò davanti all’altare, disse a Salerio di alzare la mano destra, mentre il lupo ammaliato lo fece con l’arto sinistro. Un lampo vermiglio uscì dal bastone, si divise in due, incise la palma di Salerio e i cuscinetti della zampa del lupo. Li fece mettere frontalmente e congiunse i loro arti intrisi di sangue. Un fumo oscuro li avvolse, si diradò e il patto prese vita.
«Con questo rito il nostro accordo si completa! Ora alzati e ascolta attentamente le mie parole. Andrai nel monastero di Verifall. Quando entrerai nella sala dei pensieri, vedrai la reliquia d’oro sigillata attraverso una piuma verde. Userai i denti di lupo metallici incastonati nell’anello ovoidale nero come per morderla, il proponimento oscuro la legherà e la farà sparire. La porta argentea si aprirà, brucerai le pergamene del suo interno e introdurrai le mie. La richiuderai, infine, appoggerai il mio simbolo sulla lastra argentea, si sigillerà e i regni saranno tuoi» disse Lupus freddo, rivolgendosi a lui come suo pari.
Salerio prese l’orrendo simbolo con i denti metallici, le pergamene, un oggetto che non fui in grado di distinguere e uscì, il lupo lo seguì, fece un ringhio cattivo e allontanò i suoi simili divenuti rabbiosi radunati all’esterno. Capì che sarebbe stato sempre al suo fianco, per ricordare il patto di sangue e lo portò con sé. Approdò al porticciolo di Dartritio, sbarcò assieme al lupo, poi si diressero verso il castello di Monsultia.
L’acqua del bacile si mosse. Offuscò le immagini, non afferrai bene cosa successe quando il moto si placò. La visione riprese nel momento in cui Salerio entrava nella sala del consiglio del suo castello. I ministri del governo attendevano ansiosi il suo ritorno per conoscere l’esito delle elezioni.
«Sapete chi hanno rieletto reggente di Abisuat i monaci corrotti? Artaxano! Abbiamo fatto enormi sforzi e lavorato sodo inutilmente. Ho deciso di conseguenza di salire al potere usando la forza» esordì prolungando lo sguardo carico di odio, appena ottenne il silenzio.
Smise di parlare perché voleva sentire se c’erano reazioni avverse. Le parole di approvazione pronunciate dai ministri invece, lo stimolarono. Proseguì il discorso duro: «Chiamate i generali, preparate l’esercito, perché espugneremo Verifall, e io diverrò reggente di Abisuat!»
Mentre Salerio scioglieva l’assemblea al termine di quelle parole, i ministri lo acclamavano ipnotizzati dai suoi occhi neri divenuti di fuoco.
Notai un altro particolare: dal collo gli pendeva un orrendo ovale con il triangolo violaceo dai doppi denti di cristallo, uguale a quello di Lupus.
Solo un membro del governo lo guardava provando disprezzo, mentre tutti gridavano ripetutamente “viva Salerio reggente di Abisuat!”
**2
Nalubi smise di leggere sconvolta dal racconto, ma anche perché voleva esprimere il suo concetto, su come Picam potesse sentire le voci.
«A quanto pare, il bacile di vetro mostra immagini e fa sentire i dialoghi. Avviene quindi, una specie di trasporto nel luogo, dove si svolgono i fatti e celato ascolti. Perlomeno così ho capito seguendo il racconto».
Sandra guardò Nalubi qualche istante. I suoi occhi verde smeraldo spiccavano nel viso chiaro dai lineamenti gentili. Li chiuse perché voleva concentrarsi, per ripetersi le parole scritte sul libro e tentare di rispondere.
Dopo pochi istanti disse: «Ho pensato a una trasformazione del fumo scaturito direttamente in suoni percepibili, ma hai ragione tu». Poi interpellò Olem ed Erik immersi nei loro pensieri, per coinvolgerli nel discorso. «Che ne pensate delle due ipotesi?»
Olem non rispose, indaffarato a reggere un ramo in mano vicino al fuoco, che teneva appesi gli stivaletti ad asciugare. Mentre camminava nei boschi, era finito in una pozzanghera sommergendoli completamente.
Erik ragionava su un’ipotesi analoga a quella di Nalubi. Ma anche quella di Sandra gli sembrò plausibile, malgrado desse ragione a Nalubi.
«Sono valide entrambe le deduzioni. A parte questa cosa…»
Erik smise di parlare per lanciare un’occhiata gelida a Olem. Lui si accorse del fastidio causato nello sfogliare un ramo usando il coltello. Non stava mai fermo. Stava cercando di costruire una specie di spiedo, in modo da evitare di tenere in mano un legno con gli stivaletti appesi. Infine, avvicinò un sasso al fuoco, decise di posarli sopra e si sedette accanto a loro.
Erik stava riprendendo il dialogo ma Olem lo interruppe: «Ecco perché Lupus ha tanto potere! Ha il libro dei pensieri che conterrà la preparazione di sortilegi, chiamati dal monaco proponimenti oscuri».
«Salerio, infatti, voleva usufruire dei poteri usando le formule, o cosa erano in realtà».
«Certamente conosceva la preparazione di Lupus Nalubi. Sapeva inoltre a cosa servivano i triangoli, tanto da rubarli per portarglieli» disse Sandra.
«Meno male che l’hanno confinato, almeno da solo nell’isola non ha potuto creare danni» asserì Erik.
Dopo aver smesso di trafficare con le scarpe, Olem lanciava dei sassolini sul fuoco. Si divertiva a guardare le faville volare nell’aria anziché seguire i discorsi. Appena sentì le parole di Erik, cessò di lanciarli. «Mi hai fatto sorgere un dubbio, quando hai pronunciato “confinato”». Poi domandò perplesso: «Lupus sapeva l’intenzione dei monaci, perché era andato a nascondere il libro ed era ritornato al monastero?»
“Vai a sapere cosa gli girava in testa, quell’uomo non è tanto a posto” pensò Erik, ma si limitò a rispondere battendo l’indice sulla tempia.
«Intendi perché non ha rubato anche i triangoli prima di sparire?»
«Sì Nalubi».
«Forse non è riuscito a impadronirsene. La sala dei pensieri oltremodo, la sorvegliavano i monaci» proseguì Nalubi.
«Bella sorveglianza! Picam non sosteneva che dormissero?» criticò Erik. «Oppure non sono essenziali nei suoi riti» aggiunse.
Olem cercava di capire lo strano comportamento di Lupus, ma non gli veniva una risposta plausibile. Finì con il sollevare le spalle concordando la teoria di Erik. «Hai ragione».
Prima di esporre la sua opinione, Sandra indolenzita raddrizzò la schiena, incrociò le dita e le schioccò. «Invece ha ragione Nalubi. I triangoli gli servivano ma non ha potuto prenderli. Lui stesso ha affermato di non poterne fare a meno. Senza non poteva usare le formule dei proponimenti oscuri in modo da liberarsi da quelli di luce».
«Avrà sentito il sistema per trattenerlo nell’isola utilizzando un proponimento di luce?»
«Certamente Erik» rispose Sandra. «Se i monaci parlavano di confinarlo, stabilivano anche come non farlo fuggire».
Nalubi pensò all’uso improprio dei triangoli, rabbrividì e disse: «Purtroppo abbiamo scoperto il loro utilizzo a fini benevoli, o malvagi. Cambia solo il modo di usarli del possessore».
«È così».
Dopo l’affermazione di Sandra, ognuno si immerse nei propri pensieri. Scese il silenzio per alcuni minuti, poi Erik si alzò ad aggiungere un pezzo di legno nel fuoco.
Una piccola scheggia partì dalle fiamme, colpì il dorso di una mano, si bagnò un dito di saliva che appoggiò sull’ustione per calmare il bruciore. Con un paio di salti, raggiunse gli amici e riprese il dialogo. «Tornando a Lupus: il furbo ha studiato bene il piano! Sapeva di finire a Ruocos, e ha nascosto il libro in una grotta dell’isola prima dell’esilio».
Con un rapido movimento del capo, come sorpresa, Nalubi si girò a guardarlo. In quell’istante la mente si liberò dalle mille domande che si poneva, e disse: «Probabilmente sapeva di subire una perquisizione prima di scortarlo in esilio a Ruocos. Se lo nascondeva da qualche altra parte, non poteva recuperarlo».
«La sua bravura non si è limitata a questo. Picam scrive la capacità di costruire l’interno della sala dei pensieri, esattamente opposta a quella di Verifall. Solo la reliquia era d’oro, chissà mai perché» fece Sandra.
Immaginandosi al lavoro, Olem cominciò a fare i gesti con la mano simulando il lancio della calce sui muri. «Picam ha raccontato di non aver più visto Lupus da quattro anni. Questo significa che in quel periodo, ha costruito all’interno della grotta un luogo simile alla sala dei pensieri. È veramente un bravo costruttore, ma anche una persona malvagia. In altri casi avrei suggerito a mio padre di assumerlo: un mastro muratore sarebbe stato molto utile».
«Smettila di lanciarmi la calce» brontolò Erik mettendo la mano davanti al viso per scherzare. «Anche se io non sono un muratore, capisco perfettamente che è impossibile costruire da solo in così poco tempo, una struttura del genere. Non ha usato secondo me legname, pietre, calce e cazzuola, come avresti fatto tu per realizzarle».
Olem lo guardò cinico e disse: «Senza quei materiali e gli attrezzi giusti, è impossibile costruire altari, colonne ecc.»
«A parte il legname, nell’isola non credo esistano cave di marmo. Altrimenti non era disabitata, perciò ha usato un altro metodo» replicò Erik.
Nalubi titubante chiese: «Potrebbe averla creata usando il bastone legato a qualche proponimento oscuro?»
La risata di Olem anticipò la sua risposta. «Figuriamoci se attraverso il bastone ha potuto trasformare la pietra in marmo pregiato, poi usarlo per costruire le colonne».
Nemmeno Sandra condivideva l’ipotesi di Nalubi. La guardò dubbiosa, e disse: «Non può aver usato proponimenti oscuri. Il luogo forse esisteva prima di ricevere i triangoli, dove poteva praticare quelle cose».
«Hai ragione, servono i triangoli incastrati nell’altare, altrimenti non si possono scrivere i proponimenti oscuri sulle pergamene» condivise Nalubi.
L’aria sognante del viso sorridente di Olem traspariva. «Sarebbe bello usare un bastone comodamente seduti, per realizzare costruzioni. Si risparmierebbe tempo, oltre a una buona somma di denaro».
«Se avesse quella facoltà, vorresti averne uno anche tu, vero?»
Lui si vedeva già all’opera, intento a ordinare al bastone di mescolare la calce per unire i mattoni. «Trovami chi non lo vorrebbe Nalubi. Sarebbe molto utile, guadagneresti parecchio a trasformare le rocce in blocchi di marmo. È stupendo solo pensare di poterli tagliare su misura».
Olem prendeva sempre alla lettera le metafore o i proverbi all’interno di una frase, che chiamava “modi di dire”. Gli amici cercavano di non inserirli, se non per divertirsi alle sue spalle. Tuttavia alcune volte scappavano, e si spazientivano se dava risposte stupide.
«“Non fare di tutta l’erba, un fascio”. Io ad esempio non ho interesse ad averlo, ancor meno usarlo associato a un proponimento oscuro».
«Ti capisco Nalubi. La famiglia reale non ha problemi economici perciò può costruirla, grazie ai proventi delle vendite dei fasci d’erba».
«Non abbiamo problemi economici? Che vai blaterando, ma di quali proventi parli? Spiegami chi comprerebbe fasci d’erba, quando puoi averne quanta ne vuoi nei prati senza pagarla. Il proverbio significa che non tutti ragioniamo allo stesso modo».
Dopo aver riflettuto un attimo, Olem si rese conto di aver frainteso ma cercò di salvarsi. «Avevo capito che la vendita di fasci d’erba era solo una bugia. Volevo solo punzecchiarti un po’, così se ti arrabbiavi si ravvivava l’ambiente monotono delle supposizioni».
Dopo la risposta di Olem scoppiarono a ridere. Quando Nalubi ritornò seria, affettuosamente gli disse: «A momenti riuscivi. Smettila però, di dare risposte stupide. Se non capisci il senso di una frase, chiedi spiegazioni al posto di dire stupidaggini».
«Smettila di continuare a prendere per il naso con la storia dei proverbi!» strepitò Erik, in tono severo.
«Nalubi ha detto stupidaggini! Io ho solo precisato…»
Alzando la tonalità della voce, Erik non gli diede il tempo di completare la frase. «Il tuo grado d’inettitudine grammaticale!»
Nel frattempo Sandra si era distratta. Nalubi vedendola estraniata, schioccò le dita attirando la sua attenzione e chiese: «Sandra stai bene?»
Lei sollevò le sopracciglia, la fissò con gli occhi rassicuranti, e appoggiò delicatamente la mano su quella di Nalubi. «Sto bene Nalubi. Ero assorta nell’immaginare la sala dei pensieri di Verifall».
«Non starai bene per molto! Se continuerai a stremare la mente, ti verrà il mal di capo» sbottò Olem. «Possibile che tu devi a ogni costo sapere tutto subito? Rimanere nell’ignoranza a volte porta benefici».
Nalubi notò l’espressione minacciosa del viso di Sandra pronta a rispondere, e l’anticipò: «Mi dici come l’hai immaginata?»
Lei lasciò correre il rimprovero di Olem, e rispose: «Dal racconto di Picam, era sicuramente un luogo mistico affascinante. La grotta dove Lupus l’ha ricavata parla d’interno lugubre, quindi credo di colore scuro. La sala dei pensieri al contrario forse era chiara. I particolari degli arredi, i suoi colori autentici tuttavia mi sfuggono».
«Sono arrivata alle tue stesse conclusioni, ispirata dalle descrizioni. Mi dispiace comunque, non aver capito com’è fatto il bacile. Oltre a dubitare sul modo di sentire i dialoghi» disse Nalubi.
«Parla di un bacile. Sarà sicuramente di forma tonda tipo un catino riempito di un liquido acquoso. Mostra immagini tipo uno specchio magico mentre le parole si sentono attraverso il vetro».
«Sai Olem, che senza la tua descrizione è difficile immaginare la forma di un bacile tonda» ironizzò Erik. «Inoltre, il vedere e parlare, non ti sembra somiglino vagamente ad alcune favole molto conosciute, o forse è solo una coincidenza?»
«Quali favole! Basta riflettere un attimo per capirlo» rispose Olem senza percepire la beffa dell’amico.
«Fammi il piacere…»
«Fermi!» esclamò Nalubi sollevando la mano. «Non cominciate a beccarvi inutilmente. Se sarà utile in seguito, ne descriverà la forma».
«Lo penso anch’io» condivise Sandra spalleggiando l’amica. «Il bacile è un oggetto importante nella sala dei pensieri. A quanto pare tante cose le ha sapute solo interrogandolo. Tornando alle memorie, spero di non sentirti leggere la situazione già grave peggiorare».
Erik cambiò l’espressione del viso che divenne preoccupato. Con le dita iniziò a tamburellare le ginocchia, dopo disse: «Invece sentiremo altre brutte notizie. Salerio e Lupus vogliono portare a termine il loro terribile piano a tutti i costi».
Temendo la reazione degli amici, Olem abbassò leggermente la testa e quasi bisbigliò: «I fatti descritti da Picam non sono veramente capitati. In quel libro racconta solo storie».
«Le memorie sono vere purtroppo, perché le ha scritte un monaco» replicò Sandra, con lo sguardo triste.
«Non riesco a immaginarmi Abisuat, vivere in pace come scrive Picam, se considero la rivalità di oggi tra i regni» disse Nalubi. Poi in uno scatto di nervosismo si alzò in piedi e ruggì: «I miei genitori non mi hanno raccontato nulla in proposito!»
Olem le prese la mano e la tirò per invitarla a sedersi. «Anch’io non sapevo nulla dei fatti accaduti, ancor meno di lupi e monaci oscuri. A causa di questi motivi, in certi momenti dubito sulla veridicità dei racconti».
«Mio padre la parola “lupo”, non la vuole sentire» confidò Sandra. «Difatti li chiama “cani rabbiosi”. Figuriamoci parlarmi del resto».
«Alcune volte sento i miei parlare di fatti accaduti in Abisuat. È impossibile comunque capire cosa si dicono. Bisbigliano apposta in modo da non farmi sentire» affermò Erik scocciato.
Un senso di disgusto salì dallo stomaco di Nalubi, appena immaginò il rito di cui scriveva Picam. «Non riesco a capacitarmi come Salerio, pur di ottenere il potere, sia arrivato ad accettare un patto di sangue con un lupo».
Le sue parole si trasformarono in visioni anche in Erik. Lui preferì deglutire la saliva, non commentare la sua sensazione e cambiare discorso. «Adesso ho capito perché, pene severe proteggono i lupi da chi osa ucciderli o fargli del male».
«Da chi l’hai saputo? Non ho mai sentito parlare di questa legge».
«Me l’ha detto mio padre Olem. Una volta a caccia ne abbiamo incontrati un paio. Stavo per scoccare una freccia, lui mi ha dato una spallata impedendomi di farlo, poi ha spiegato il motivo».
«Perché non l’hai mai detto?»
«Abbiamo qualche volta incontrato lupi? Solo di notte, alcune volte si sentono ululare» rispose. Una preoccupazione subito dopo invase la sua mente. «A parte questo: secondo il vostro parere, a chi stipula un patto del genere, potrebbero cambiare le sembianze umane?»
Olem restituì la battuta precedente a Erik: «Noto che non sono il solo a leggere le favole». Sorrise e lo rassicurò: «Non drammatizzare! Al massimo farà crescere il pelo folto simile ai lupi».
Erik prima di replicare strofinò le dita sul mento. «Allora dovresti farlo anche tu il rito, giacché al posto della barba hai quattro peli messi in croce. È possibile addirittura contarli a uno a uno».
Olem, in effetti, aveva una barba leggera poco folta anche se ispida. La lasciava crescere perché credeva di dimostrare un’età superiore. Ma trovò subito il sistema di ricambiare. «Sentilo! Ha il coraggio di criticare. L’hai meno folta della mia, malgrado mangi di nascosto il crescione, perché l’hai letto nella favola dell’orco malvagio. Mi stupisce la tua convinzione nel credere funzioni veramente…»
La favola, era la solita storiella raccontata ai bambini nella speranza di farli stare buoni. Parlava di un orco dall’aspetto orrido dotato di un folto pelame, ottenuto cibandosi di quel tipo d’erba colta negli acquitrini, o sui bordi di qualche torrente, perché pare avesse la proprietà di incrementarne la crescita. Ne aveva bisogno di grossi quantitativi, e la sua malvagità consisteva nel rapire quelli birichini obbligandoli a coglierla…
Dopo una piccola pausa proseguì: «Smetti di mangiare il crescione», e lo canzonò: «altrimenti oltre a infoltirsi la barba, diventerai pure tu un orco malvagio!»
Erik rimase male e si alzò per dargli uno spintone provocatorio con la mano sulla spalla. Olem aveva svelato compiaciuto un suo segreto, e decise di restituirgli il torto appena subito. Si avvicinò al fuoco, raccolse gli stivaletti, la polsiera di cuoio senza borchie, che l’amico usava portare ad asciugare sulla pietra, li lanciò nel fango, poi attese la reazione a braccia conserte.
Olem guardò le ragazze, nella speranza che una di loro andasse a prenderli per evitare di sporcarsi i piedi, ma nessuna si mosse. Indifferente sollevò le spalle. Erik lo fissò perplesso, perché attendeva una rapida ripicca.
Lui se ne accorse, ma si limitò a scorrere alcune volte la lunghezza dell’indice sotto il mento.
Nalubi sorrise del “me ne frego” pacifico di Olem e riprese a parlare. «Potrebbe trarne vantaggio se lo diventasse, almeno finalmente l’avrebbe più lunga e folta della tua».
«Vieni a sederti Erik» disse Sandra sorridente. «Sappiamo tutti, che quando siamo a caccia vedi in qualche ruscello il crescione, fingi di doverti allontanare per mangiarlo di nascosto».
Lui capì di nascondere un segreto di Pulcinella. Con un paio di salti, andò a recuperare gli stivaletti, la polsiera di Olem e li risistemò ad asciugare. Sollevò la mano in segno di scusa, abbassò il capo, e tornò accanto a loro.
Sandra allargò a Erik un dolce sorriso. Lo guardò teneramente roteando appena gli occhi, associati al movimento del capo con aria deliziata. Poi gli disse: «Anche se eri arrabbiato, hai fatto un nobile gesto nel bagnarti ad andare a riprendere stivaletti e polsiera».
Olem si alzò seccato. Prese la mano di Sandra, e quasi la obbligò ad alzarsi. Avvicinò il suo viso pressoché a toccare quello di lei e disse: «Nobile gesto? Non doveva neppure permettersi di gettarli nel fango. Tutto quello che fa, giusto o sbagliato, dimmi perché lo elogi sempre?»
Lei lo fissò negli occhi fingendosi incantata. Gli diede un tenero pizzicotto sulla guancia, fece scivolare la mano sul suo viso in una morbida carezza, e rispose: «Il modo gentile nel porgere le scuse, ti fa dimenticare all’istante il torto subito».
Olem non la sopportava quando faceva, secondo lui, la gatta morta nei confronti di Erik. Contrariato prese il sacco a tracolla, cominciò a ritirare le sue cose pronto ad andarsene.
«Olem fammi il favore! Non te la prendere, sono solo sciocchezze» lo rincuorò Erik, poi per rimettere il buon umore disse: «scherzi a parte, lo mangio solo ogni tanto perché non è facile da trovare».
Riuscì nel suo intento, risero, a fatica tornarono seri, Olem posò il sacco, si sistemò al fianco di Nalubi, ma prima strofinò il pugno chiuso sulla guancia di Erik che gli sorrise.
«Mi sono chiesto come mai Lupus, che teneva tanto al suo lupo, perché l’ha usato per fare quell’orrendo rito?» riprese il dialogo Olem.
«Picam ha specificato che forse era il suo lupo, anche se la scelta potrebbe aver senso» rispose Sandra.
«È un furbacchione! Legandoli, solo lui sa la necessità di eliminare entrambi nell’eventualità di liberarsi di Salerio».
«Olem! Ha ragione Erik che fai sempre esempi riguardanti le favole. Non credo sia possibile associare la vita umana a quella di un animale».
«Ho dato la risposta più credibile Nalubi, in pratica, per farli morire bisogna eliminare entrambi».
«Quel patto avrà di sicuro un motivo Olem. Dubito però che serva a legare la vita di Salerio al lupo» considerò Sandra.
«Tu hai capito lo scopo?»
«Per il momento no» rispose. Dando l’impressione di atteggiarsi proseguì: «Ma non ci metterò tanto a capirlo appena avrò un indizio».
In alcuni casi l’espressione assunta da Sandra nel dare la risposta scontata, la faceva apparire altezzosa. A Nalubi ed Erik non dava fastidio, invece a Olem urtava e reagiva, in quel caso, facendole vistose smorfie. Una delle più ricorrenti era di pizzicarsi un lobo o entrambi delle orecchie, tirare fuori la lingua fingendosi disgustato.
Lei sapeva il modo di irritarlo senza offendere. Le bastava prima apprezzarlo, poi pungerlo sul lato estetico. «Ogni tanto hai delle espressioni simpatiche Olem, che ti fanno assumere un particolare carisma. Alcune volte mi chiedo se mentre fai quei versi aumentino il fascino del tuo viso. Poi rifletto un attimo, e mi rendo conto che, in effetti, mi attrae molto di più quando assumi quell’atteggiamento da idiota».
Tutti risero, Olem compreso, perché difficilmente si offendevano nello scambiarsi battute, a volte anche pesanti.
«Sicché ti piaccio quando faccio i versi e modifico l’aspetto del viso? Se mai un giorno mi verrà il desiderio di farti la corte, lo terrò a mente».
Sandra anche se sembrò incassare il colpo, rise. Olem si sentiva soddisfatto, ma durò poco. Appena tornò seria sollevò il mento, altezzosa lo fisso e gli disse: «Ho solo espresso il migliorare della tua fisionomia, non che mi piaci. In entrambi i casi resti comunque inferiore al livello delle mie attese, in fatto di veri “uomini”».
Risero ancora per la replica di Sandra e la tensione cessò del tutto.
«Basta facciamo i seri. Riprendiamo a leggere le memorie, o veramente si fa notte»
[continua]