Dal libro I de Le Confessioni di J. J. Rousseau – Einaudi, Torino, (1978)
Ecco il solo ritratto d’uomo, dipinto scrupolosamente dal vero e con assoluta fedeltà, che esiste, e che probabilmente esisterà mai. Chiunque siate voi, che il mio destino o la mia fiducia hanno reso arbitro di questo scritto, per le mie sventure, per le vostre viscere, e a nome dell’intera specie umana, vi scongiuro di non distruggere un’opera utile e unica, la quale può servire come prima pietra di paragone per quello studio degli uomini che certamente si deve ancora cominciare, e di non spogliare l’onore della mia memoria del solo documento sicuro sul mio carattere che i miei nemici non abbiamo sfigurato. E anche se foste voi, proprio voi, un mio nemico implacabile, smettete d’esser tale verso le mie ceneri, e non spingete la crudeltà della vostra ingiustizia sino al tempo in cui né io né voi saremo più in vita, affinché almeno una volta possiate offrirvi la nobile dimostrazione d’essere stato generoso e buono quando potevate essere maléfico e vendicativo: se il male non si fa a un uomo che non ne ha mai fatto o voluto fare possa pur prendere il nome di vendetta.
J.J. Rousseau
Libro primo
Intus et in cute.
M’impegno in un’impresa senza esempio, e la cui esecuzione non avrà imitatori. Voglio mostrare ai miei simili un uomo nella nuda verità della sua natura; e quest’uomo sarò io.
Io solo. Sento il mio cuore e conosco gli uomini. Non sono fatto come nessuno di quelli che ho incontrati; oso credere di non essere come nessuno di quanti esistono. Se non valgo di più, sono almeno diverso. Se la natura abbia fatto bene o male rompendo lo stampo nel quale mi ha colato, non si può giudicare che dopo avermi letto.
Suoni pure, quando vorrà, la tromba del giudizio finale: io mi presenterò al giudice supremo con questo libro fra le mani. Gli dirò fieramente: «Ecco che cosa ho fatto, che cosa ho pensato, che cosa fui. Ho detto il bene e il male con la stessa franchezza. Nulla ho taciuto di cattivo, nulla ho aggiunto di buono e, se ho usato qua e là qualche trascurabile ornamento, l’ho fatto solo per colmare le lacune della mia memoria: ho potuto supporre vero quanto sapevo che poteva esser stato tale, mai ciò che sapevo falso. Mi sono mostrato come fui, spregevole e vile quando lo sono stato, buono, generoso, sublime, quando lo sono stato: ho svelato il mio essere interiore come tu stesso lo hai veduto. Essere eterno, raduna intorno a me l’innumerevole turba dei miei simili: ascoltino le mie confessioni, piangono sulle mie bassezze, arrossiscano per le mie miserie. Ciascuno d’essi con la stessa sincerità scopra a sua volta il suo cuore ai piedi del tuo trono: e poi uno solo ti dica, se ne ha il coraggio: “Io fui migliore di quell’uomo“».
Sono nato a Ginevra nel 1712, da Isaac Rousseau, cittadino, e da Suzanne Bernard, cittadina. La divisione fra quindici figli d’un patrimonio men che mediocre avendo ridotto a nulla o quasi la parte di mio padre, questi non aveva per vivere che il suo mestiere di orologiaio, nel quale per la verità eccelleva. Mia madre, figlia del ministro Bernard, era più ricca: aveva onestà e bellezza, e mio padre non l’aveva ottenuta senza difficoltà. I loro amori avevano avuto inizio quasi con le loro esistenze: già fra gli otto e i nove anni andavano insieme ogni sera sulla Treille, a dieci anni non potevano più staccarsi. La simpatia, l’armonia delle anime approfondì il sentimento nato dall’abitudine. Entrambi, nati teneri e sensibili, non aspettavano che il momento di scoprire in un altro le stesse disposizioni o, meglio, quel momento attendeva loro; e ciascuno dei due riversò il suo cuore nel primo che si aprì a riceverlo. La sorte, che pareva opporsi alla loro passione, non fece che ravvivarla. Il giovane innamorato, non potendo ottenere la sua donna, si struggeva di dolore: lei gli consigliò di dimenticarla viaggiando. Egli viaggiò senza frutto, e tornò più innamorato di prima. Ritrovò tenera e fedele la ragazza che amava. Dopo simile prova, non restava che amarsi per la vita. Lo giurarono, e il cielo benedì il loro giuramento.
Grabriel Bernard, fratello di mia madre, s’innamorò di una sorella di mio padre. Ma la condizione posta da lei fu che avrebbe sposato il fratello solo se suo fratello ne avesse sposata la sorella.
L’amore pose rimedio a tutto, e i due matrimoni si celebrarono nello stesso giorno. Mio zio materno era perciò marito di mia zia paterna, e i loro figli furono doppiamente miei cugini germani. Ne nacque uno a entrambe le coppie in capo a un anno.
Poi bisognò ancora separarsi.
Mio zio Bernard era ingegnere: andò a servire nell’Impero e in Ungheria agli ordini del principe Eugenio. Si distinse nell’assedio e alla battaglia di Belgrado. Mio padre, dopo la nascita del mio unico fratello, partì per Costantinopoli, dov’era chiamato, e divenne orologiaio del Serraglio. Mentre era lontano, la bellezza di mia madre, la sua intelligenza, i suoi doni le attirarono vari omaggi. Il signor della Closure, residente in Francia, fu tra i più premurosi a offrirgliene. La sua passione doveva essere ardente davvero, se ancora trent’anni dopo l’ho visto commuoversi parlandomi di lei. Per difendersi, mia madre aveva uno scudo più sicuro della virtù: il suo tenero amore per il marito. Lo pregò di tornare: lui lasciò tutto e rimpatriò. Fui io il triste frutto di quel ritorno. Nacqui, dieci mesi dopo, debole e malaticcio; costai la vita a mia madre, e la mia nascita fu la prima delle mie sventure.
Non ho mai saputo come mio padre sopportò quella perdita, ma so che non se ne consolò mai. Credeva di rivederla in me, senza poter dimenticare che gliel’avevo tolta io: non mi abbracciò mai senza ch’io non sentissi dai suoi sospiri, dai suoi abbracci convulsi, che un rimpianto amaro s’insinuava nelle sue carezze: erano perciò anche più tenere. Quando mi diceva: «Jean-Jacques, parliamo di tua madre», io gli dicevo: «Ebbene, babbo, dunque ora piangeremo»; e bastava questa parola a strappargli le lagrime.
«Oh! – gemeva, ridammela, consolami di lei, colma il vuoto che mi ha lasciato nell’animo. Ti amerei così se tu non fossi che mio figlio?» Quarant’anni dopo che l’aveva perduta, egli morì fra le braccia di una seconda moglie, ma col nome della prima sulle labbra e la sua immagine nel profondo del cuore.
Tali furono gli autori della mia vita. Di tutti i doni che il cielo gli aveva accordati, un cuore sensibile è l’unico che essi mi trasmisero: ma esso aveva fatto la loro felicità, e fu la fonte di tutte le mie sventure.
Ero nato quasi morente: disperavano di salvarmi. Portai in me il germe di un male che poi gli anni rafforzarono, e che ora non mi dà quale momento di sollievo e per lasciarmi soffrire più crudelmente in un’altra maniera. Una sorella di mio padre, ragazza amabile e savia, mi curò tanto che mi salvò.
Nel momento in cui scrivo queste pagine, ella vive ancora, e, all’età di ottant’anni, assiste un marito più giovane, ma consumato dal vino. Cara zia, vi perdono di avermi costretto a vivere, e mi addolora non potervi ripagare, al termine della vostra vita, le cure che mi avete prodigato all’inizio della mia. Anche Jacqueline, la mia balia, vive ancora, sana e robusta. Le mani che mi aprirono gli occhi alla mia nascita potranno chiuderli alla mia morte.
Sentii prima di pensare: è la sorte comune degli uomini. Ne feci la prova più d’ogni altro. Non so quel che feci sino a cinque o sei anni, non so come imparai a leggere, ricordo soltanto le mie prime letture e l’effetto che produssero su me: è il tempo al quale faccio risalire senza più interruzioni la coscienza di me stesso. Mia madre aveva lasciato dei romanzi. Ci mettemmo a leggerli dopo cena, mio padre e io. Da principio, si trattava solo di esercitarmi alla lettura con qualche libro divertente; ma in breve l’interesse divenne così vivo che leggevamo alternandoci senza riposo, e trascorrevano le notti in quella occupazione. Non potevamo staccarcene che a volume finito. Qualche volta mio padre, sentendo al mattino le rondini, diceva tutto vergognoso: «Andiamo a letto: sono più bambino di te!»
In breve tempo, non tardai ad acquistare, con quel pericoloso metodo, non solo una facilità estrema di leggere e di capire me stesso, ma una intelligenza delle passioni unica per la mia età. Non avevo nessun’idea delle cose, e già conoscevo tutti i sentimenti.
Non avevo concepito nulla, e avevo sentito tutto. Le emozioni confuse, che provavo una dopo l’altra, non mi guastavano la ragione, che ancora non avevo; ma me ne plasmarono una d’una tempra diversa, e m’ispirarono intorno alla vita umana idee bizzarre e romanzesche, dalle quali esperienza e riflessione non mi hanno mai potuto guarire del tutto.
I romanzi finirono con l’estate del 1719. L’inverno seguente, ci fu ben altro. Esaurita la biblioteca di mia madre, ricorremmo alla parte di quella di suo padre ch’era toccata in eredità a noi.
Per nostra fortuna, vi si trovarono libri buoni, né poteva essere diversamente, trattandosi di una raccolta messa insieme bensì da un ministro e anche dotto, come allora era di moda, ma uomo di buon gusto e d’ingegno. La Storia della Chiesa e dell’Impero di Le Sueur, il Discorso sulla storia universale di Bossuet, gli Uomini illustri di Plutarco, la Storia di Venezia del Nani, le Metamorfosi di Ovidio, La Bruyère, i Mondi di Fontenelle, i suoi Dialoghi dei Morti e alcuni tomi di Molière furono trasportati nel laboratorio di mio padre, e io li leggevo ogni giorno, mentre lui lavorava. Vi presi un piacere raro, e forse unico per quell’età.
Plutarco soprattutto divenne la mia lettura favorita. Il godimento che ne provavo, non stancandomi di rileggerlo, mi guarì un po’ dai romanzi; e in breve preferii Agesilao, Bruto, Aristide a Orondate, Artamene e Giuba. Attraverso quelle letture appassionanti, e le discussioni che occasionavano fra mio padre e me, si formò quell’animo libero e repubblicano, quel carattere indomito e fiero, intollerante di giogo e di schiavitù, che mi ha tormentato tutto il tempo della mia vita nelle condizioni meno propizie a dargli impulso. Continuamente assorto in Roma e Atene, vivendo per così dire nella compagnia degli uomini grandi di quelle città, nato anch’io cittadino di una repubblica e figlio di un padre in cui l’amor di patria era la passione dominante, m’infiammavo al suo esempio, mi credevo Greco o Romano, diventavo il personaggio di cui leggevo la vita: il racconto degli episodi di costanza e di coraggio che mi avevano commosso mi faceva scintillare gli occhi e irrobustire la voce. Un giorno che raccontavo a tavola l’episodio di Muzio Scevola, restarono tutti impietriti dallo spavento vendendomi avanzare e mettere la mano sul braciere per rappresentare il suo gesto.
Avevo un fratello di sette anni maggiore di me; imparava il mestiere di mio padre. L’immenso affetto che aveva per me glielo faceva un po’ trascurare, e non è cosa che approvi. La sua educazione risentì di quella trascuratezza. Prese la china del libertinaggio, anche prima dell’età in cui si sia libertini davvero.
Lo misero a lavorare da un altro padrone, e anche di là continuava le sue scappatelle come dalla casa paterna. Non lo vedevo quasi mai, appena posso dire di averlo conosciuto. Non per questo lo amavo meno teneramente, e lui amava me come un monello può voler bene a qualche cosa. Mi ricordo che, una volta che mio padre lo puniva aspramente, e con ira, io mi lanciai impetuosamente fra quei due, abbracciandolo stretto. Così lo riparai col mio corpo, prendendo su di me le percosse destinate a lui, e mi ostinai in quella posizione finché mio padre dovè fargli grazia, sia perché disarmato dai miei strilli e dalle mie lagrime, sia per non malmenare me più di lui. Mio fratello finì poi talmente male che fuggì e scomparve per sempre. Qualche tempo dopo si seppe ch’era in Germania. Non scrisse una volta sola.
Da quel tempo non si ebbero più sue notizie, ed ecco come sono rimasto figlio unico.
Se l’educazione di quel povero ragazzo fu negletta, non fu così di suo fratello, e i figli dei re non potrebbero essere curati con maggior zelo di me, nei miei primi anni: idolatrato da tutti coloro che mi circondavano, e trattato sempre, caso molto più raso, ragazzo amato, mai da ragazzo viziato. Non una volta, finché non abbandonai la casa paterna, mi si lasciò correre solo nella strada con gli altri ragazzi; mai in me si dové reprimere o soddisfare qualcuno di quei fantastici capricci che vengono attribuiti alla natura e che nascono tutti solo dall’educazione. Avevo i difetti della mia età: ero chiacchierino, goloso, qualche volta bugiardo. Posso aver rubato frutta, dolciumi, roba da mangiare, ma non presi mai gusto a far del male, a rompere, a incolpare gli altri, a tormentare povere bestie. Ricordo, però, che una volta orinai nella pentola di una nostra vicina, la signora Clot, mentre lei era al sermone. Confesso anzi che il ricordo mi fa ridere tuttora, perché la signora Clot, buona diavola per il resto, era la donna più bisbetica che ho mai conosciuto. Ecco la breve e veridica storia di tutte le mie malefatte infantili.
E come sarei divenuto cattivo con gli esempi di dolcezza che avevo sempre sotto gli occhi e circondato dalla migliore gente del mondo?
Mio padre, mia zia, la mia «tata», i miei parenti, i nostri amici, i nostri vicini, tutto quel che mi circondava non obbediva a me, è vero, ma mi voleva bene, e io egualmente. Le mie volontà erano così poco eccitate e contrariate che neppure mi veniva in mente di averne. Posso giurare, che finché non mi si impose la soggezione a un padrone, non seppi che cosa fosse capriccio. Tolto il tempo che passavo a leggere o a scrivere presso mia padre e quello in cui la mia bambinaia mi portava a passeggio, stavo sempre con la zia a vederla ricamare, a sentirla cantare, seduto o in piedi vicino a lei, ed ero contento. La sua allegria, la sua dolcezza, la sua piacevole fisionomia, mi lasciarono sì forti impressioni, che ne vedo ancora l’espressione, lo sguardo, gli atteggiamenti: mi ricordo le sue brevi frasi carezzanti, saprei dire com’era vestita e pettinata, senza dimenticare i due uncinetti che i suoi capelli neri le facevano sulle tempie, alla moda di allora.
Sono convinto d’esserle debitore del gusto o, meglio, della passione per la musica, che in me si è sviluppata solo più tardi.
Ella conosceva una quantità straordinaria di ariette e di canzoni, che cantava con un esile filo di dolcissima voce. La serenità d’anima di quella ottima ragazza allontanava da lei e da tutto ciò che le stava intorno l’inquietudine e la tristezza. Per me l’attrattiva del suo canto fu tale che non solo molto sue canzoni mi son sempre rimaste nella memoria, ma, oggi che l’ho perduta, me ne tornano ancora altre che, totalmente dimenticare dopo l’infanzia, si ravvivano via via che invecchio, con un fascino che non so esprimere. Chi mai penserebbe che io, vecchio brontolone, tormentato da afflizioni e affanni, mi sorprendo qualche volta a piangere come un bambino canticchiando quelle ariette con una voce già spezzata e tremolante? Ce n‘è una, soprattutto, di cui mi è tornata per intero l’aria; ma la seconda metà delle parole si è ostinata a sfuggire ad ogni mio sforzo per riafferrarla, sebbene confusamente me ne tornino le rime. Ecco l’esordio, e quanto ho potuto ricordarmi del rimanente:
Tircis, je n’ose
Écouter ton chalumeau
Sous l’ormeau;
Car on en cause
Déjà dans notre hameau;
....................................
........................ un berger
........................ s’engager
........................ sans danger,
Et toujours l‘épine est sous la rose.
Cerco di capire dove sia il tenero incanto che il mio cuore sente in questa canzone: è un capriccio in cui non capisco un’acca, ma mi è impossibile cantarla sino all’ultimo senza che le lagrime mi fermino. Ho pensato cento volte di scrivere a Parigi per fa cercare il resto delle parole, se pure vi è qualcuno che ancora le conosce. Ma quasi sicuramente la gioia che provo a ricordarmi quest’aria svanirebbe in parte, se avessi la prova che altri l’hanno cantata, oltre alla povera zia Suzon.
Tali furono le prime passioni del mio ingresso nella vita: cominciava così a formarsi e a rivelarsi in me quel cuore a un tempo così fiero e così tenero, quel carattere effeminato eppure indomito, che, ondeggiando sempre fra timidezza e coraggio, fra debolezza e virtù, mi ha messo sino all’ultimo in contraddizione con me stesso, e ha fatto sì che l’astinenza e la voluttà, il piacere e la saggezza mi siano sfuggiti egualmente.
Questa specie di educazione fu interrotta da un accidente, le cui conseguenze influirono sul resto della mia vita. Mio padre ebbe un alterco con un certo signor Gautier, capitano in Francia e imparentato con gente del Consiglio. Gautier, uomo insolente e vile, ne uscì col sangue al naso e, per vendetta, accusò mio padre di aver messo mano alla spada nella cerchia cittadina. Mio padre, che volevano mandare in prigione, si ostinava a chiedere che, secondo la legge, l’accusatore vi si chiudesse anche lui: non avendolo ottenuto, preferì andar via da Ginevra, ed espatriare per il resto della sua vita piuttosto che cedere sopra un punto in cui gli parevano compromessi onore e libertà.
Restai sotto la tutela di mio zio Bernard, addetto allora alle fortificazioni di Ginevra. Sua figlia maggiore era morta, ma egli aveva un figlio della mia stessa età. Andammo insieme a Bossey, in pensione presso il ministro Lambercier, per impararvi, col la tino, tutta la minuta cianfrusaglia che l’accompagna col nome di educazione.
Due anni trascorsi in quel villaggio addolcirono un po’ la mia asperità romana, e mi riportarono alla condizione di fanciullo.
A Ginevra, dove nulla m’era imposto, mi piaceva leggere e studiare. Era il mio solo divertimento, o quasi. A Bossey il lavoro mi fece amare i giochi che gli servivano di ricreazione. La campagna era per me così nuova che non potevo stancarmi di goderne.
Ebbi per lei una passione che non si è potuta mai spegnere. Il ricordo dei giorni felici che vi trascorsi mi ha fatto rimpiangere quel soggiorno e le sue gioie, in ogni età, fino a quella che mi ci ha riportato. Il signor Lambercier era un uomo di gran buon senso, che, senza trascurare la nostra istruzione, non ci soffocava con doveri eccessivi. La sua abilità è attestata dal fatto che, nonostante il mio odio per ogni imposizione, non mi sono mai ricordato con disgusto le mie ore di studio e che, se non appresi da lui molte cose, quel che imparai lo imparai facilmente, e non l’ho mai dimenticato.
La semplicità della vita campestre mi procurò un beneficio inestimabile aprendo il mio cuore all’amicizia. Sino a quel momento non avevo conosciuto che sentimenti sublimi, ma immaginari. L’abitudine alla vita in comune, in uno stato pacifico, mi unì teneramente a mio cugino Bernard. In poco tempo ebbi per lui sentimenti più affettuosi di quelli già avuti per mio fratello, che non si sono mai più cancellati. Era un ragazzone alquanto magro e smilzo, d’animo mite quanto debole di corpo, e non abusava troppo della predilezione che si aveva per lui nella casa, come figlio del mio tutore. I nostri studi, i nostri svaghi, i nostri gusti erano gli stessi: eravamo soli, della stessa età, a ciascuno di noi due ci voleva un compagno: separarci era, in qualche modo, distruggerci. Benché avessimo scarse occasioni di metterlo alla prova, il nostro affetto reciproco era grandissimo, e non solo non potevamo vivere un istante separati, ma non immaginavamo neppure che potessimo esserlo mai. Entrambi facili alle carezze, compiacenti quando non si voleva costringerci, andavamo d’accordo su tutto. Se, favorito da coloro che ci educavano, egli conservava alla loro presenza qualche ascendente sopra di me, da soli ne avevo uno su di lui che ristabiliva l’equilibrio. Quando egli esitava, nelle ore di studio, gli suggerivo la lezione; quando il mio tema era pronto, lo aiutavo a fare il suo e, nei nostri svaghi, la mia passione più vivace gli serviva sempre da guida. Insomma, i nostri due caratteri si accordavano così, bene e l’amicizia che ci univa era così schietta che, nei cinque anni e più che fummo quasi inseparabili, sia a Bossey sia a Ginevra, spesso ci picchiammo, lo ammetto, ma non ci fu mai bisogno di dividerci, mai un nostro litigio durò più di un quarto d’ora, e mai una volta ci accusammo l’un l’altro d’una colpa. Queste considerazioni si potrebbero anche dir puerili; pure, ne balza un esempio forse unico da quando esistono ragazzi.
Il mondo in cui vivevo a Bossey mi conveniva talmente che solo il fatto di non esser durato più a lungo gl’impedì di fissare in maniera perenne il mio carattere. I sentimenti teneri, affettuosi, pacifici ne facevano il fondo. Credo che mai individuo della nostra specie ebbe per natura meno vanità di me. A balzi toccavo i sentimenti sublimi, ma subito ripiombavo nel mio torpore. Essere amato da chiunque mi avvicinasse era il mio più vivo desiderio.
Ero mite, mio cugino anche, e coloro che mi educavano parimenti.
Per due anni interi non fui né testimone né vittima di un eccesso di violenza. Tutto concorreva a nutrire nel mio cuore le disposizioni ricevute dalla natura. Non conoscevo nulla di più gradevole che veder tutti contenti di me e di tutto. Mi ricorderò sempre che al tempio, nel rispondere al catechismo, nulla mi turbava, se mi capitava di esitare, come il vedere segni di inquietudine e di pena sul viso della signorina Lambercier. Ciò solo bastava ad affliggermi, anche più della vergogna di sbagliare in pubblico, che pur mi accorava all’estremo. E, infatti, poco accessibile alle lodi, lo fui sempre molto alla vergogna; e posso qui dire che il timore dei rimproveri della signorina Lambercier mi angustiava meno del timore di rattristarla.
Ciò nonostante, ella non mancava all’occorrenza di severità, al pari di suo fratello. Ma, poiché questa severità, quasi sempre giusta, non era mai esagerata, me ne affliggevo, ma non mi ribellavo. Mi rincresceva più di scontentare che d’esser punito, e un segno di malcontento era per me una ferita più crudele d’un castigo corporale. È un vero imbarazzo spiegarmi meglio, eppure è necessario. Come si cambierebbe di metodi coi giovani, se si valutassero meglio gli effetti lontani di quello che si impiega senza discernimento e spesso indiscretamente! La grande lezione che si può ricavare da un caso comune quanto funesto mi convince a riferirlo.
La signoria Lambercier, che aveva per noi un affetto di madre, ne aveva anche l’autorità, e questo la induceva a darci qualche volta il castigo che si dà ai bambini, quando l’avevamo meritato. Si limitò lungamente alla minaccia, e questa minaccia di un castigo per me del tutto nuovo mi pareva spaventosa.
Ma, dopo averlo subito, lo trovai meno terribile di quanto non temessi, e più strano ancora è che quel castigo mi affezionò anche più a chi me l’aveva inflitto. Ci voleva proprio tutta la verità di questo affetto e tutta la mia mite natura per impedirmi di cercare di attirarmi ancora un tal castigo; perché nel dolore, nella stessa vergogna avevo scoperto un misto di voluttà che mi aveva lasciato più desiderio che timore di provarlo nuovamente per opera della stessa mano. Vero è che, insinuandosi in tutto ciò qualche precoce istinto del sesso, il medesimo castigo non mi sarebbe piaciuto egualmente riceverlo dalla mano del fratello di lei. Ma, dato il suo umore, non c’era da temere una tal sostituzione; e, se mi astenevo dal meritare la correzione, era unicamente per paura di scontentare la signorina Lambercier. Tale, infatti, è in me l’imperio della benevolenza, anche di quella che fanno nascere i sensi, ch’essa dettò sempre loro la legge nel mio cuore.
La recidiva, che allontanavo senza temerla, arrivò senza colpa mia o, meglio, senza mia volontà, e la gustai, posso dire, con la coscienza tranquilla. Ma la seconda fu anche l’ultima, perché la signorina Lambercier, essendosi indubbiamente accorta da qualche indizio che il castigo non otteneva lo scopo, dichiarò di rinunziarvi e che la stancava troppo. Fin lì avevamo dormito nella camera di lei, e qualche volta, d’inverno, persino nel suo letto.
Due giorni dopo ci trasferirono in una stanza a parte; e dal quel momento ebbi l’onore, di cui mi sarei privato volentieri, d’essere trattato da lei da ragazzo fatto.
Chi crederebbe che quel castigo da bambino, ricevuto a otto anni da una donna di trenta, abbia deciso dei miei gusti, dei miei desideri, delle mie passioni, di me, per il resto della mia vita, e precisamente in modo opposto a quello che sarebbe dovuto naturalmente derivarne? Nel momento in cui si accesero i miei sensi, i miei desideri caddero in tale inganno che, limitati alla sensazione già provata, non s’interessarono di cercare altra causa.
Con un sangue che bruciava di sensualità quasi dalla nascita, mi conservai puro da ogni macchia fino all’età in cui si manifestano i temperamenti più freddi e più tardivi. Lungamente tormentato senza saperne il motivo, divoravo con occhi ardenti le belle donne: la mia immaginazione non si stancava di richiamarmela, ma solamente per farle agire a mia guisa, e trasformarle in altre in altrettante signorine Lambercier.
Anche dopo l’età nubile, quel gusto bizzarro, sempre persistente e spinto sino alla depravazione, sino alla pazzia, mi ha sempre conservato onesti i costumi, di cui sembrerebbe che avesse dovuto privarmi. Se mai educazione fu modesta e casta, tale fu sicuramente quella che ricevetti io. Le mie tre zie non solo erano persone di esemplare onestà, ma di un riserbo da gran tempo sconosciuto alle donne. Mio padre, uomo godereccio, ma galante all’antica moda, non ha mai tenuto, con le donne che più gli piacevano, discorsi cui una vergine avesse potuto arrossire, e mai si è osservato come nella mia famiglia e alla mia presenza il rispetto dovuto ai fanciulli. Non trovai meno scrupolo sullo stesso soggetto in casa del signor Lambercier, e un’ottima domestica ne fu cacciata solo per una parola un po’ sboccata che si lasciò sfuggire davanti a noi. Non solo non ebbi sino alla adolescenza nessuna idea distinta sull’unione dei sessi, ma questa idea confusa non mi si presentò mai che sotto un’immagine odiosa e di disgusto.
Avevo per le donne pubbliche un orrore che mai si è cancellato.
Non potevo vedere un dissoluto senza sdegno, persino senza timore; e la mia avversione per la vita licenziosa giungeva sino a questo punto da quando, andando un giorno al Petit-Sacconex per una strada incassata, vidi sui due lati alcuni fossi nel terreno, dove mi dissero che le genti del luogo scendevano ad accoppiarsi.
Gli amori canini che avevo visti mi tornavano sempre in mente pensando agli altri, e mi sentivo stomacare al solo ricordo.
Questi pregiudizi dell’educazione, atti per sé a ritardare le prime esplosioni di un temperamento combustibile, furono aiutati, come ho detto, dalla diversione che operarono su di me le prime avvisaglie della sensualità. Non sapendo immaginare null’altro fuorché le sensazioni provate, nonostante alcune effervescenze di sangue assai moleste, rivolgevo i desideri solo verso il tipo di voluttà che mi era nota, senza mai pensare a quella che mi era stata resa odiosa, e che era così prossima all’altra senza che ne avessi il minimo sospetto. Nelle mie stolte fantasie, nei miei erotici furori, negli atti inconsueti ai quali essi mi spingevano qualche volta, prendevo in prestito con l’immaginazione l’aiuto dell’altro sesso, senza mai pensare che si prestasse a un uso diverso da quello che ardevo di ricavarne.
Non solo, dunque, con un temperamento più che ardente, lascivo e precoce, superai la pubertà senza desiderare, senza conoscere altri piaceri dei sensi tranne quelli che la signorina Lambercier mi aveva con assoluta innocenza rivelati; ma, quando finalmente il passar degli anni mi ebbe fatto uomo, fu ancora quel che doveva perdermi a salvarmi. Il mio vecchio vizio di ragazzo, anziché svanire, si fuse nell’altro al punto che non mi riuscì di rimuoverlo interamente dalle voglie accese dai miei sensi, e quella follia, congiunta alla mia naturale timidezza, mi rese sempre poco intraprendente con le donne, non osando dir tutto e non potendo osar tutto, giacché quel genere di godimento, di cui l’altro per me non era che il termine supremo, non può essere usurpato da chi lo desideri né immaginato da colei che può accordarlo. Così ho passato la mia vita struggendomi di brame e tacendo vicino alle persone che più amavo. Non osando mai confessare il mio gusto, lo lusingavo almeno con atti che me ne conservavo l’idea.
Gettarmi alle ginocchia d’un’amante imperiosa, obbedire ai suoi ordini, doverle chiedere spesso perdono, erano per me dolcissime gioie, e più la mia vivace immaginazione mi accendeva il sangue più avevo l’aria di un amante intimorito. È evidente che un tal modo di fare all’amore non porta a rapidissimi progressi, e non è troppo insidioso per la virtù delle persone che ne costruiscono l’oggetto. Ho, dunque, posseduto pochissime donne, ma non ho mancato di goder molto, a modo mio, ossia con l’immaginazione.
Ecco come i miei sensi, d’accordo col mio timido temperamento e con la mia fantasia romanzesca, mi hanno conservato sentimenti puri e costumi onesti, pur con i medesimi gusti che, accompagnati forse da un po’ più di disinvoltura, mi avrebbero travolto nei più brutali piaceri dei sensi.
Ho fatto il primo e più penoso passo nel buio e fangoso labirinto delle mie confessioni. Non quel che è delittuoso costa maggior fatica a dirsi, ma quel che è comico e vergognoso. D’ora in poi sono sicuro di me: dopo quanto ho osato dire, nulla può più fermarmi. Si valuterà quanto mi siano costate simili confessioni, considerando che, nell’intero corso della mia vita, travolto talora, accanto alle donne che amavo, dai furori di una passione che mi privava della facoltà di vedere, di udire, fuori di me e còlto da un tremito convulso in tutto il corpo, non mi riuscì mai a manifestare la mia pazzia e d’implorare da loro, nella più stretta intimità, il solo favore che mancasse agli altri. Questo mi capitò una volta sola nella mia infanzia, con una ragazza della mia età; e fu lei stessa a farmene la prima proposta.
Risalendo così ai primi indizi del mio essere sensibile, trovo elementi che, pur sembrando a volte inconciliabili, non mancarono di combinarsi insieme per produrre con forza un effetto semplice e uniforme; e ne trovo altri che, pur essendo in apparenza gli stessi, produssero, col concorso di talune circostanze, combinazioni così differenti che non ci s’immaginerebbe mai che ci fosse qualche rapporto tra loro. Chi crederebbe, ad esempio, che uno fra gli stimoli più energici nella mia anima sia scaturito dalla medesima sorgente dalla quale scesero nel mio sangue lussuria e mollezza? Senza allontanarsi dall’argomento di cui ho parlato, se ne vedrà nascere ora un’impressione ben diversa.
Un giorno, me ne stavo solo a studiare la mia lezione nella camera attigua alla cucina. La domestica aveva messo ad asciugare i pettini della signorina Lambercier sul frontone del camino.
Quando tornò a riprenderli, ne trovò occato il pettine. Il signore e la signorina Lambercier si mettono insieme, mi esortano, insistono, minacciano; io persisto, ostinato; ma l’evidenza era troppo palese, e l’ebbe vinta su ogni mia protesta, benché fosse la prima volta che mi trovassero tanta audacia nel mentire. La cosa venne presa sul serio e meritava di esserlo. La malvagità, la menzogna, l’ostinazione parvero egualmente degne di castigo; ma, questa volta, esso non mi venne inflitto dalla signorina Lambercier. Scrissero allo zio Bernard; egli venne.parvero egualmente degne di castigo; ma, questa volta, esso non mi venne inflitto dalla signorina Lambercier. Scrissero allo zio Bernard; egli venne.
Il mio povero cugino era sotto accusa per un altro reato non meno grave; fummo associati nella stessa esecuzione. Fu spaventosa. Se, cercando il rimedio nel male stesso, si fossero voluti smorzare per sempre i miei sensi depravati, non si sarebbe potuto far di meglio. E così essi mi lasciarono a lungo tranquillo.
Non si riuscì a strapparmi la confessione che si esigeva. Riafferrato a varie riprese e ridotto nello stato più atroce, fui irremovibile. Avrei preferito la morte, e vi ero deciso. La stessa violenza fu costretta a cedere alla diabolica testardaggine di un ragazzo, poiché non chiamarono altrimenti la mia costanza. Alla fine uscii da quella prova crudele a pezzi, ma trionfante.
Sono passati quasi cinquant’anni da quell’avventura, e non ho più paura, oggi, d’essere punito di nuovo per lo stesso peccato.
Ebbene, dichiaro, in cospetto del cielo, ch’ero innocente, che non avevo né spezzato né toccato il pettine, non mi era accostato al caminetto, non ci avevo pensato neppure. Non mi chiedete come fosse avvenuto il guasto: non so e non riesco a capirlo; so di certo ch’ero innocente.
Immagini il lettore un carattere timido e docile nella vita ordinaria, ma ardente, fiero, indomito nelle passioni, un ragazzo sempre educato dalla voce della ragione, sempre trattato con dolcezza, equità, compiacenza, che non concepiva neppure l’ingiustizia e che, per la prima volta, ne subisce una così terribile, e precisamente dalle persone che egli ama e rispetta di più: che capovolgimento di idee! Quale scompiglio di sentimenti! Quale sovvertimento nel suo cuore, nel suo cervello, in tutto il suo piccolo essere intelligente e morale. Vi invito a immaginare tutto ciò, se possibile, perché, quanto a me, non mi sento capace di spiegare, di seguire la minima traccia di quello che accadeva in me allora.
Non ero ancora abbastanza ragionevole per comprendere come le apparenze fossero contro di me, e per mettermi nei panni degli altri. Mi attenevo al mio giudizio, e sentivo solo il rigore di uno spaventoso castigo per un delitto non commesso. Il dolore fisico, benché vivo, lo sentivo poco: sentivo soltanto dispetto, rabbia, disperazione. Mio cugino, per un caso press’a poco simile, e ch’era stato punito per una colpa involontaria come per un atto premeditato, montava in furore sul mio esempio, e s’innalzava, per così dire, al mio unisono. Entrambi nello stesso letto, ci abbracciavamo in trasporti convulsi, ci soffocavamo, e, quando i nostri teneri cuori un po’ sollevati potevano sfogare la loro collera, ci alzavamo a sedere e ci mettevamo a gridare insieme cento volte con tutto il nostro fiato: carnifex, carnifex, carnifex!
Mentre scrivo, sento il polso che si eccita ancora: quei momenti mi saranno sempre davanti, vivessi centomila anni. Quella prima impressione della violenza e dell’ingiustizia mi è rimasta così profondamente scolpita nell’animo che ogni idea che vi si collega mi ridona la mia prima commozione, e quel sentimento, che riguarda me nella sua origine, ha preso in sé tale consistenza, e si è staccato così perfettamente da qualsiasi interesse personale, che il mio cuore s’infiamma alla visione o al racconto di un atto ingiusto, qualunque sia l’oggetto e dovunque sia connesso, come se l’effetto ricadesse su me. Quando leggo delle crudeltà di un feroce tiranno o delle sottili perfidie d’un prete birbante, andrei volentieri a pugnalare quei miserabili, dovessi soccombere cento volte. Spesso mi son messo in un bagno di sudore per inseguire o prendere a sassate un gallo, una vacca, un cane, una bestia che vedevo tormentare un’altra, unicamente perché si sentiva più forte. Questo impulso può essere in me naturale, e presumo sia tale; ma il ricordo profondo della prima ingiustizia da me sofferta vi fu troppo a lungo e troppo fortemente legato per non averlo rinforzato di molto.
Ebbe termine così la serenità della mia vita infantile. Da quel momento cessai di godere d’una pura felicità, e ancora oggi sento che il ricordo dei piaceri della mia infanzia si ferma lì. Restammo ancora a Bossey qualche mese. Vi fummo come ci viene rappresentato il primo uomo: vivente ancora nel paradiso terrestre, di cui ha però cessato di godere: in apparenza era la stessa situazione di prima, ma in realtà essa era radicalmente diversa.
L’affetto, il rispetto, l’intimità, la confidenza non legavano più gli allievi ai maestri. Non li consideravamo più come dèi che leggevano nei nostri cuori: avevamo meno vergogna di far male e maggiore timore d’essere accusati; cominciavamo a dissimulare, a ribellarci, a mentire. Tutti i vizi della nostra età corrompevano la nostra innocenza e disabbellivano i nostri giochi. Persino dalla campagna sfumò ai nostri occhi quell’attrattiva di dolcezza e di semplicità che va dritto al cuore: ci pareva cupa e deserta, s’era come coperta d’un velo che ce ne nascondeva le bellezze. Smettemmo di coltivare i nostri orticelli, le nostre erbette, i nostri fiori. Non andavamo più a raspare per terra, gridando di gioia quando scoprivamo il germe del grano che avevamo seminato.
Ci disgustammo di quella vita; essi si disgustarono di noi; mio zio venne a riprenderci. Ci separammo dal signore e dalla signorina Lambercier sazi gli uni degli altri, e senza grande rimpianto…
J.J. Rousseau
Dal Libro Ottavo de Le Confessioni di Agostino
12.29 – Così parlavo e piangevo nell’amarezza sconfinata del mio cuore affranto. A un tratto dalla casa vicina mi giunge una voce, come di fanciullo o fanciulla, non so, che diceva cantando e ripetendo più volte: «Prendi e leggi, prendi e leggi». Mutai d’aspetto all’istante e cominciai a riflettere con la massima cura se fosse una cantilena usata in qualche gioco di ragazzi, ma non ricordavo affatto di averla udita da nessuna parte. Arginata la piena delle lacrime, mi alzai. L’unica interpretazione possibile era per me che si trattasse di un comando divino ad aprire il libro e a leggere il primo verso che vi avrei trovato. Avevo sentito dire di Antonio che ricevette un monito dal Vangelo, sopraggiungendo per caso mentre si leggeva: «Va’, vendi tutte le cose che hai, dàlle ai poveri e avrai un tesoro nei cieli, e vieni, seguimi». Egli lo interpretò come un oracolo indirizzato a se stesso e immediatamente si rivolse a te.
Così tornai conciato al luogo dove stava seduto Alipio e dove avevo lasciato il libro dell’Apostolo all’atto di alzarmi. Lo afferrai, lo aprii e lessi tacito il primo versetto su cui mi caddero gli occhi. Diceva: «Non nelle crapule e nell’ebbrezze, non negli amplessi e nelle impudicizie, non nelle contese e nelle invidie, ma rivestitevi del Signore Gesù Cristo né assecondate la carne nelle sue concupiscenze». Non volli leggere oltre, né mi occorreva.
Appena terminata infatti la lettura di questa frase, una luce, quasi, di certezza penetrò nel mio cuore e tutte le tenebre del dubbio si dissiparono.
12.30 – Chiuso il libro, tenendovi all’interno il dito o forse un altro segno, già rasserenato in volto, rivelai ad Alipio l’accaduto. Ma egli mi rivelò allo stesso modo ciò che a mia insaputa accadeva in lui. Chiese di vedere il testo che aveva letto. Glielo porsi, e portò gli occhi anche oltre il punto ove mi ero arrestato io, ignaro del seguito. Il seguito diceva: «E accogliete chi è debole nella fede». Lo riferì a se stesso, e me lo disse. In ogni caso l’ammonimento rafforzò dentro di lui una decisione e un proposito onesto, pienamente conforme alla sua condotta, che l’aveva portato già da tempo ben lontano da me e più innanzi sulla via del bene. Senza turbamento o esitazione si unì a me.
Immediatamente ci rechiamo da mia madre e le riveliamo la decisione presa: ne gioisce; le raccontiamo lo svolgimento dei fatti: esulta e trionfa. E cominciò a benedirti perché puoi fare più di quanto chiediamo e comprendiamo. Vedeva che le avevi concesso a mio riguardo molto più di quanto ti aveva chiesto con tutti i suoi gemiti e le sue lacrime pietose. Infatti mi rivolgesti a te così appieno, che non cercavo più né moglie né avanzamenti in questo secolo, stando ritto ormai su quel regolo della fede, ove mi avevi mostrato a lei tanti anni prima nel corso di una rivelazione; e mutasti il suo duolo in gaudio molto più abbondante dei suoi desideri, molto più prezioso e puro di quello atteso dai nipoti della mia carne.
Agostino d’Ippona
Da Vita, Epoca III, cap. XV di Vittorio Alfieri
Tornato io una tal sera dell’opera (insulso e tediosissimo divertimento di tutta l’Italia) dove per molte ore mi era trattenuto nel palco dell’odiosamata Signora, mi trovai così esuberantemente stufo che formai la immutabile risoluzione di rompere sì fatti legami per sempre. Ed avendo io visto per prova che il correre per le poste qua e là non mi avea prestato forza di proponimento, che anzi me l’avea subito indebolita e poi tolta, mi volli mettere a maggior prova, lusingandomi che in uno sforzo più difficile riuscirei forse meglio, stante l’ostinazione naturale del mio ferreo carattere. Fermai dunque in me stesso di non mi muovere di casa mia, che come dissi le stava per l’appunto di faccia; di vedere e guardare ogni giorno le di lei finestre, di vederla passare; di udirne in qualunque modo parlare; e con tutto ciò, di non cedere oramai a nulla, né ad ambasciate dirette o indirette, né alle reminiscenze, né a cosa che fosse al mondo, a vedere se ci creperei, il che poco importavami, o se alla fin fine la vincerei. Formato in me tal proponimento, per legarmivi contraendo con una qualche persona come un obbligo di vergogna, scrissi un bigliettino ad un amico mio coetaneo, che molto mi amava, con chi s’era fatta l’adolescenza, e che allora da parecchi mesi non mi vedea più, compiangendomi molto di essere naufrago, in quella Cariddi, e non potendomene cavar egli, né volendomi perciò parer d’approvare. Nel bigliettino gli dava conto in due righe della mia immutabile risoluzione, e gli acchiudevo un involtone della lunga e ricca treccia de’ miei rossissimi capelli, come un pegno di questo mio subitaneo partito, ed un impedimento quasi che invincibile al mostrarmi in nessun luogo così tosone, non essendo allora tollerato un tale assetto, fuorché ne’ villani, e marinari. Finiva il biglietto col pregarlo di assistermi di sua presenza e coraggio, per rinfrancare il mio.
Isolato in tal guisa in casa mia, proibiti tutti i messaggi, urlando e ruggendo passai i primi quindici giorni di questa mia strana liberazione. Alcuni amici mi visitavano; e mi parve anco mi compatissero; forse appunto perché io non diceva parola per lamentarmi, ma il mio contegno ed il volto parlavano in vece mia.
Mi andava provando di leggere qualche cosuccia, ma non intendeva neppur la gazzetta, non che alcun menomo libro; e mi accadeva di aver letto delle pagine intere cogli occhi, e talor con le labbra, senza pure saper una parola di quel ch’avessi letto. Andava bensì cavalcando nei luoghi solitarj, e questo soltanto mi giovava un poco sì allo spirito che al corpo. In questo semifrenetico stato passai più di due mesi sino al finir di Marzo del ’75; finché ad un tratto un’idea nuovamente insortami cominciò finalmente a svolgermi alquanto e la mente ed il cuore da quell’unico e spiacevole e prosciugante pensiero di un sì fatto amore.
Fantasticando un tal giorno così fra me stesso, se non sarei forse in tempo ancora di darmi al poetare, me n’era venuto, a stento ed a pezzi, fatto un piccolo saggio in quattordici rime, che io, riputandole un sonetto, inviava al gentile e dotto padre Paciaudi, che trattavami di quando in quando, e mi si era sempre mostrato ben affetto, e rincrescente di vedermi così ammazzare il tempo e me stesso nell’ozo, ricordatosi ch’io gli avea detto parermi quello un oggetto di tragedia, e che lo avrei voluto tentare, (senza pure avergli mai mostrato quel mio primo aborto, di cui ho mostrato qui addietro il soggetto) egli me la comprò e donò. Io in un momento di lucido intervallo avea avuta la pazienza di leggerla, e di postillarla; e glie l’avea così rimandata, stimandola in me stesso assai peggiore della mia quanto al piano e agli affetti, se io veniva mai a proseguirla, come di tempo in tempo me ne rinasceva il pensiere. Intanto il Paciaudi, per non farmi smarrire d’animo, finse di trovar buono il mio sonetto, benché né egli il credesse, né effettivamente lo fosse. Ed io poi, di lì a pochi mesi ingolfatomi davvero nello studio dei nostri ottimi poeti, tosto imparai a stimare codesto mio sonetto per quel giusto nulla ch’egli valeva. Professo con tutto ciò un grand’obbligo a quelle prime lodi non vere, e a chi cortesemente le mi donò, poiché molto mi incoraggirono a cercare di meritarne delle vere.odesto mio sonetto per quel giusto nulla ch’egli valeva. Professo con tutto ciò un grand’obbligo a quelle prime lodi non vere, e a chi cortesemente le mi donò, poiché molto mi incoraggirono a cercare di meritarne delle vere.
Già parecchi giorni prima della rottura con la Signora, vedendola io indispensabile ed imminente, mi era sovvenuto di ripescare di sotto al cuscino della poltroncina quella mia mezza Cleopatra, stata ivi in macero quasi che un anno.
Venne poi dunque quel giorno, in cui, fra quelle mie smanie e solitudine quasi che continua, buttandovi gli occhi su, ed allora soltanto quasi come un lampo insortami la somiglianza del mio stato di cuore con quello di Antonio, dissi fra me stesso: «Va proseguita quest’impresa; rifarla, se non può star così; ma in somma sviluppare in questa tragedia gli affetti che mi divorano, e farla recitare questa primavera dai comici che ci verranno». Appena mi entrò questa idea, ch’io (quasiché vi avessi ritrovata la mia guarigione) cominciai a schiccherar fogli, rappezzare, rimutare, troncare, aggiungere, proseguire, ricominciare, ed in somma a impazzare in altro modo intorno a quella sventurata e mal nata mia Cleopatra.
Vittorio Alfieri
La Prefazione delle Memorie di Carlo Goldoni
Non c‘è autore, buono o cattivo, la cui vita non si ritrovi o in capo alle sue opere o nelle memorie del suo tempo.
È vero che la vita d’un uomo non dovrebbe essere edita se non dopo la sua morte; ma questi ritratti tardivi somigliano proprio agli originali? Se è un amico che se ne assume l’incarico, la verità risulta alterata dalle lodi; se è un nemico, la censura prende il posto di una critica onesta.
La mia vita non offre interesse; ma può darsi che, in capo a qualche tempo, si scopra in qualche angolo d’una vecchia biblioteca una collezione delle mie opere. E allora potrà nascere la curiosità di sapere chi fu quest’uomo singolare che si è proposto la riforma del teatro del suo paese, che ha messo in scena e sotto i torchi centocinquanta commedie, sia in versi, sia in prosa, di carattere e d’intreccio, e che ha visto, lui vivo, diciotto edizioni del suo teatro. Si dirà senza dubbio: «Quest’uomo doveva essere molto ricco; per qual ragione ha lasciato il suo paese?» Ahimè, bisogna pur far sapere ai posteri che Goldoni non ha trovato se non in terra di Francia il riposo, la tranquillità, il benessere, e ch’egli ha terminato il corso della sua vita d’artista con una sua commedia scritta in francese, che, sulla scena di Francia, ha avuto la fortuna d’un incontro felice.
Io ho pensato che solo l’autore fosse in grado di dare un’idea compiuta e sicura della sua indole, degli aneddoti di cui è ricca la sua vita e delle sue opere; e mi è parso che se egli pubblicasse, da vivo, le sue memorie, e non ricevesse smentita dai suoi contemporanei, i posteri potrebbero far fondamento sulla sua sincerità.
Seguendo questa idea, nel 1760, poiché vedevo che dopo la mia prima edizione di Firenze dappertutto si saccheggiava il mio teatro, e già se n’erano fatte quindici edizioni, non solo senza il mio consenso, ma senza che neppure me ne fosse data comunicazione e – per rincaro dei mali – tutte erano stampate perfidamente, venni nel pensiero di farne una seconda a mie spese e di porre in ciascun volume, in vece di prefazione, una parte della mia vita. Pensavo così che, alla fine dell’opera, la storia delle mie vicende personali e quella del mio teatro avrebbero potuto di pari passo essere compiute.
Mi sono ingannato. Quando incominciai a Venezia l’edizione di Pasquali – in ottavo con illustrazioni – non potevo immaginarmi che il mio destino fosse quello di varcare le Alpi.
Chiamato in Francia nel 1761, continuai a trasmettere i dati per i mutamenti e le correzioni che mi ero proposto per l’edizione di Venezia; ma la vita turbinosa di Parigi, le mie nuove occupazioni e la distanza dei luoghi hanno diminuito la mia attività e hanno rallentato l’esecuzione della stampa, cosicché un’opera che doveva abbracciare trenta volumi e che doveva esser compiuta nello spazio di otto anni, non era ancora, in vent’anni, che al tomo diciassettesimo; né io certo spero di vivere abbastanza per vedere questa edizione terminata.
Ciò che per il momento m’inquieta e mi sta a cuore è la storia della mia vita. Ripeto, essa non offre singolari attrattive; ma quel tanto ch’io ne ho dato fino a oggi nei primi diciassette volumi, è stato accolto così bene che il pubblico m’invoglia a continuare, tanto più che ciò che io ho detto fin qui non riguarda che la mia persona, e ciò che mi resta a dire deve trattare del mio teatro in ispecie, di quello degli italiani in genere, e in parte di quello dei francesi, che io ho potuto vedere da vicino. I costumi delle due nazioni, i loro gusti messi a confronto fra loro, tutto quello che ho veduto, e tutto quello che ho osservato, potrebbe diventar divertente e al tempo stesso istruttivo per gli appassionati di questa materia.
Io mi assumo dunque il compito di lavorare per quel tanto che potrò, e lo faccio con parere indicibile per arrivare al più presto a parlare della mia cara Parigi, che mi ha fatto così buone accoglienze e mi ha offerto tanti divertimenti e così utili occupazioni.
Comincio col rifondere e col mettere in francese tutto ciò che si trova nelle prefazioni storiche dei diciassette volumi di Pasquali. È il compendio della mia vita, dalla nascita fino agli inizi di ciò che si chiama in Italia la riforma del teatro italiano. Si vedrà in qual modo questa inclinazione al comico, da cui mi sono sempre sentito dominare, abbia dato i primi annunci di sé, in qual modo si sia svolta; si vedranno gli inutili sforzi che altri ha fatto per distogliermi dal mio cammino e i sacrifici da me offerti a quest’idolo imperioso da cui mi son sentito trascinare; Questo formerà la prima parte delle mie Memorie.
La seconda parte deve comprendere tutto ciò che si riferisce alla storia delle mie commedie, l’ispirazione segreta che mi ha indotto a scriverle, la loro riuscita, buona o cattiva, le rivalità che i miei successi hanno suscitato, le cabale che ho disprezzato, le critiche che ho rispettato, le «satire» che ho sopportato in silenzio, gli intrighi del palcoscenico che ho sventato. Si vedrà che l’umanità è la medesima dappertutto, che dappertutto s’incontrano gelosie, che l’uomo pacifico e di sangue freddo riesce a farsi amare dal pubblico e a stancare la perfidia dei suoi nemici.
La terza parte di queste Memorie comprenderà il tempo del mio soggiorno in Francia. Io sono così felice di poterne parlare in libertà che ho provato la tentazione di cominciare di qui l’opera mia; ma in tutto ci vuole metodo. Sarei stato forse costretto a ritoccare le due parti precedenti, e io non amo ritornare su ciò che ho fatto.
Ecco ciò che avevo da dire ai miei lettori. Io li prego di leggermi e di usarmi la cortesia di credermi. La sincerità è sempre stata la mia virtù preferita, e mi sono sempre trovato a mio agio con lei, perché essa mi ha risparmiato la pena di architettare la menzogna, e mi ha evitato il dispiacere di dover arrossire.
Carlo Goldoni