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In copertina: «Bonsai» di Diego Buonsangue
“A tutti la pazzia, dona, io ho deciso di donare al Tempo”.
Prefazione
“Ethos” di Barbara Ippolito è un libro che scandisce il tempo dell’uomo in una complessa e articolata riflessione sull’esistenza dell’essere umano, sull’autentica sostanza interiore che plasma il nostro modo di vivere, i nostri codici comportamentali.
Siamo tutti alla ricerca della nostra vera identità e, sovente, siamo avvolti dal desiderio di allontanarci da tutto per cercare le risposte ai nostri interrogativi, per vivere il senso autentico delle cose, per innalzare i nostri sentimenti fino a vette irraggiungibili, in sintesi, per ricostruire noi stessi.
Il percorso può essere periglioso ed estremamente faticoso, le esperienze possono essere laceranti e si devono fare i conti con le false apparenze, con le convenzioni e le difficoltà della mente di “andare oltre” ciò che si vede e si tocca.
Barbara Ippolito si inoltra nella “voragine del tempo che logora il corpo”, si insinua negli abissi di silenzi insondabili delle figure simboliche di Nina ed Ernest, che mettono a nudo la loro vita, sezionando il più labile pensiero, il più elementare bisogno di rivivere il vissuto per capire che il cammino va percorso interamente, nella sua pienezza fino a dimenticare il peso della fuga dal dolore, della mancanza che strazia il cuore, delle parole gettate nel mondo per “ricrearsi un posto da vivere” dopo aver percepito la vanità, dopo aver conosciuto l’amaro “gusto di perdersi negli inganni del mondo”.
“Ogni vita scandisce il suo corso, si gusta il dolce e si soffre l’amaro, sperando in un vero perdono”: ecco la necessità vitale di carpire il senso delle cose, di “dirigere il proprio passo” seguendo la scia d’amore, “dell’essere amante d’amore”.
Ecco allora che il mare magnum di pensieri, che si sovrappongono e si scompongono, detta i tempi di una cronologia delle emozioni che Barbara Ippolito offre coraggiosamente, addentrandosi in una dimensione di transizione tra la “follia del fantastico e l’amarezza del reale” in una magica sequenza di incontri di anime fino a miscelare “alibi imperfetti” e il continuo “mescolarsi di sensi” per “sorseggiare ogni cosa” in un sigillo senza tempo.
“Ethos” di Barbara Ippolito è un libro che deve essere letto con attenzione, compreso parola dopo parola, vissuto dall’interno come a gustare il silenzio della notte, il profumo di ginestra dei Nina, il freddo ghiacciante del dolore, la perdita del sogno, le lunghe giornate a rincorrere i progetti e il coraggio di “non credere agli inganni”.
Barbara Ippolito alimenta la sua capacità evocativa, attualizza le esperienze del passato e riversa il torrente impetuoso delle agitazioni dell’essere che diventano universali: in un lento e costante abbandono alla fluidità interiore, per ricercare ciò che di più fecondo esiste, fino a vivere con una deflagrante intensità le esperienze e le agitazioni intime dell’esistenza che conducono alla pienezza, alla “coscienza di sé”.
Massimo Barile
PREMESSA
C’è un margine di incredulità in questa realtà che spinge, quanti non sono saldi nei propri ideali, a pensare che la vita si risolva in ciò che l’orecchio sente e l’occhio vede. La “libera corsa” verso il futuro diviene una chimera e induce a pensare, quanti si spingono oltre il muro del’apparenza, che un ideale auspicato potrebbe realizzarsi solo per il tramite di una “coscienza pulita”, epurata dalle consuetudini convinzioni e convenzioni ancorate, ancora purtroppo, al clientelismo estirpabile ma folgorante. La realtà ci parla chiaramente di un mondo ambiguo: per la pace ma che persegue la guerra, solidale ma socialmente autoritario, fraterno ma sostanzialmente patriarcale. Dove il vero spirito sociale regna maestro in ogni anima ma l’egoismo trionfa ed ognuno è pronto a “sacrificare” il prossimo piuttosto che sé stesso. Questo non è l’istinto di uno o di tutti, semplicemente perché è improprio etichettarlo quale “istinto”, è voglia selvaggia di ognuno di perpetrare le comode convinzioni comuni e l’insegnamento che la mente assuefatta ci impone. Il vero frutto da cogliere non è ancora maturo e chissà quando lo sarà, se lo sarà.
Ethos è un libro nato da una riflessione sull’esistenza umana, su ciò che si è interiormente e su come gli eventi riescono a modificare l’apparire tanto da convincere la mente che non c’è “alternativa”. Un libro che narra le diverse storie di un’unica vita, elemento essenziale dell’umanità. Un continuo “inizio”, il ricrearsi di quel “posto da vivere” dopo che tutto sembra essere vano, dopo che il senso delle cose sembra svanito. È la manifestazione della coscienza umana nei suoi caratteri e temperamenti più svariati. È la “teoria del vivere” che l’uomo tenta scientificamente di ipotizzare ma che diverrebbe universale solo se epurata dalla superficialità dei giorni. Ciò che è, non ciò che si crede delle cose prima di carpirne il senso.
Io pazza, io poeta,
io che mi fingo attenta
e mi scopro infante,
tra le bende dei ricordi.
Io con la mia sete di vendetta,
di vergogna,
io con la mia brama di sconfitta,
per riarmarmi alla vittoria…
Io vedo la mia lingua biforcuta
che si insinua in ogni raggio
superstizioso di menzogna
e mento a me,
al mio cuore,
al mio corpo,
che imbrigliato dagli anelli della mente,
si dimena faticoso per sfuggire alla sua presa;
io mi vedo fingitrice,
creatrice di menzogne,
io pazza
nel credere nelle fresche melodie della sera
nell’assaporare estasiata
le conquiste delle ore
giunte all’imbrunir perfetto
dei miei giorni.
Lo so che malinconia è fede.
Felpata d’odio nostalgico,
la sento gocciolare sui miei piedi
mentre inonda le mie scarpe:
zattere su un fiume di stronzate
che osservo sbalordita
dal fittizio mio cammino.
Vergine sorgiva di contrasti
che alimento con parole
leggermente ritoccate.
Assetata, sanguinante
con polmoni di pietra
ed un cuore di carta.
Maledetta sognatrice,
sono pazza,
sì, anch’io pavimento la mia strada
con mattoni di cartone
e dipingo le mie ali
sulle scapole del tempo…
ma vivo,
vivo così intensamente
che la follia è linfa
ai miei sensi.
A tutti la pazzia dona… io ho deciso di donare al tempo!
Barbara Ippolito
Ethos
A mio padre
1
LA GIGANTE MERAVIGLIA
Il ticchettio dell’orologio rompeva il silenzio in quella grande stanza in penombra dove sedeva assorto nei suoi pensieri un vecchio uomo dal viso turbato. L’alba sembrava non arrivare e la luce della luna irrompeva con veemente prepotenza attraverso una saracinesca socchiusa. La stanza era gelida di ricordi che trapelavano attraverso quegli occhi opachi, così sicuri e spaventati, che fissavano, senza riuscire a vederlo, il lucchetto di un baule contenente momenti già vissuti, difficili da dimenticare e dolorosi da rivivere. Era solo in quella stanza con la voglia di essere ascoltato, voleva che tutti lo immaginassero li seduto di fianco ad un termosifone spento, circondato dal disordine delle sue giornate, dal profumo che accompagna ogni gesto, da ricordi che riaffiorano, da oggetti che ricordano momenti lontanamente vissuti. Lettere che narrano le ragioni di ogni passo, fotografie che impediscono di dimenticare i suoi compagni di viaggio, libri che hanno formato la sua coscienza e libri che hanno arricchito la sua conoscenza. Tutto un mondo che spiega gli anni trascorsi a lottare per colmare un eterno vuoto. Cavalcando le sue giornate con una forza e una rabbia che gli hanno permesso di affrontare la vita a testa alta, adesso abbraccia ogni realtà per non annegare nella paura, nella vergogna, percorrendo le sue esperienze con tranquillità e ripercorrendole criticamente per appurarne, non senza errori, gli sbagli. Ora salta la staffa senza farsi inibire dal perbenismo, respingendo il tutto e sempre per ascendere la conquista di qualcosa che solo in questo modo sarà veramente suo. Guardando da lontano, si scava dentro al cuore per estrapolarne i sensi di azioni poco chiare. Per se stesso o per nessuno, per chiarezza e tanto orgoglio, per rispondere al suo mondo. Perché Foscolo diceva che la morte non è vana se ne lasci qualche cosa che ti tiene ancora in vita.
“Adesso ti dico cosa sta succedendo, (che t’interessi o meno) non mi ritrovo più. Non so che cosa sono, né cosa ci faccio qui a scrivere di me,a te. Sto cercando forse la mia identità ma mi trovo confuso e vagante. Non sono artista, né credo di poter vivere senza arte. Ho scelto strade diverse e sto inventando la forza ed il modo per conciliarle e continuare a vivere tutto, a scrivere tutto! Con i miei anni mi chiedo se questo schifo abbia un senso, perché non riesco a giocare con i giorni come non sono riuscito a truccarmi di momenti. Me stesso, non posso esserlo, perché non ci riesco. Sono ancora un pesce fuori dal mio oceano. Ho nuovamente voglia di allontanarmi, sta volta per non sbagliare, per non farmi del male e non farne a nessuno. Se prima ignoravo chi fossi, ora ho capito chi sei e questo rende tutto così difficile! Rido di me in questo momento, solo e pazzo! Non rinuncerei a niente tra ciò che ho costruito in questi anni ma sento che manca l’attimo perfetto per completarne il ciclo! Ho visto te, ho visto il tuo mondo e ho sentito quanto tutto questo mi manca… quanto vorrei tornare a vivere, perfettamente ribelle, ogni momento. Il mio silenzio è semplice attesa, sfumata vergogna per quello che ho epurato da me stesso. Avevo dimenticato quanto fosse difficile rendersi conto delle proprie insicurezze, in un modo o nell’altro rileggendomi ho riaperto gli occhi. Qual è la mia strada, non lo so ancora ma credo che non ci sia modo migliore per capirlo che attraversarla, tutta e intensamente! Se sapessi, se tutti quanti sapessero a quale mondo dono il mio cuore, se anch’io lo sapessi… beh, non starei qui a chiedermi risposte! Le innumerevoli cose che ho vissuto, sento di averle vissute per me… quale rimpianto, quale promessa, quale sconfitta può rallegrare l’orecchio insolente? Non mi mostro perché mi sto scoprendo adesso, uguale ma diverso, testardamente protetto dalla mia coltre di ansiosa speranza. Calcolo e fatalità, creoli momenti di inconciliabile passione… io la vivo! È facile chiedere urlando in silenzio cosa siamo del mondo per esso e per gli altri, è semplice odiare e poi amare tutto ciò che vediamo, ma conformi a noi stessi non potremo esserlo se non costruendo su macerie e macerie la ribelle credenza che tutto un giorno sarà vendicato!”
Abbracciami e stringi forte a te tutto il bello dei miei confusi anni, scopri cosa vuol dire vivere cercando di varcare l’ostile muro che ti protegge dal passato. Credici, credi in te e non lasciare al sole il compito di crescermi. Apri gli occhi e fa che i tuoi sogni siano sostanza del reale. Bacia il tempo e le sue mille sfaccettature arrampicandoti su quegl’ammassi di creta e pietra calcarea che limitano il tuo sguardo così attento e curioso… io sono qui e ti ascolto.
Le velleità del giorno stordiscono con il loro fruscio la mente che distratta assapora il suono del vento. Guardando da lontano l’orizzonte frastagliato che si infrange su distese di follia, il corpo sembra distrarsi e vagare maestoso in un profondo abisso di silenzio. Scendendo i mille scalini che portano dentro la grotta della gigante meraviglia, l’orecchio resta attento ai rumori del silenzioso muoversi delle onde. Il tragitto, lungo e intenso mostra strati di vittorie e di sconfitte. Un’ascesa, non discesa, verso un mondo ricordato ma mai visto. Crepe fradice di vergogna, gocce asciutte di un sudore centenario, rocce intatte ormai da anni che nessuno ha disturbato col suo pianto. Il cemento lentamente si scompone e la nebbia col suo pallido colore avvolge piedi e gambe trascinando tutto il corpo che non sente più il dolore faticoso della strada. Anche il cielo ormai è distante, impegnato a distrarre quella gente che impaurita dal frenetico presente, preferisce del suo tempo una vita più sicura. Tuoni e lampi rimangono sospesi a ferire il suolo caldo mentre in fondo a quelle scale non si sente più il silenzio della resa ma la statica follia di tormenti e ribellioni. Piano, dolcemente, l’aria sia ammorbidisce e il coro della notte buia e intensa sradica ogni cespo di menzogna lasciando libera la mente di scoprire il vero senso delle cose. Giunti in fondo a quel cammino la smarrita coerenza spande fioca la sua luce ed è come rivestirsi di vendetta verso un vago senso di sconfitta inflitta da quel mondo che ambiguamente si scompone nei suoi tratti più dolosi.
“Se neanche in quest’oceano riuscirò a trovare il tempo che ho perduto riflettendo su quel niente che ho incontrato in superficie, potrò solo abbandonarmi al ghiacciante mio destino. Ho voltato troppe volte le mie spalle per vedere e ho toccato con i denti i più ardenti miei timori, per trovarmi a raccontare quel che scopro, di quel mondo. Ora che la presunzione ha lasciato la mia casa, io la leggo nei miei giorni, quelli che ha sotteso alla sua grinta come preda alla sua presa. Ho pensato di tornare a rimpiangere i miei sogni ma sapevo, in fondo al cuore, che non tutto era perduto. Solo lei sembra svanita come pioggia sopra un lago. Quasi non so dove trovo la forza… forse il mistero che sorge dentro i miei giorni o la paura di perdere tutto, ho bisogno del mondo per realizzare utopie, ho bisogno del tempo per sorreggerne il peso. Ma non so se il coraggio sia davvero mio amico. Ora vedo orizzonti, dietro le sbiadite gocce che mi coprono gli occhi. Credi forse che i viaggi già fatti non abbiano dato i suoi frutti?”
Ernest fu bambino, adolescente, ragazzo, uomo e forse mai maturo. Ha raccolto speranze e ha votato chimere ma ancora non sa cos’ha perso dei giorni. Ormai vaga maestro con i suoi troppi anni. Ha imparato già molto ma non riesce ad insegnare. Sente il freddo ghiacciante della morte vicina e vorrebbe mostrarsi come mai prima d’ora. Il suo corpo rugoso mostra i tratti del tempo e silente la mente abbandona la stanza per tornare il quei posti dove ha perso il coraggio. Sta cercando risposte ma non vuole trovarle, ha paura di accorgersi di aver perso occasioni. Sta tornando nel suo grembo… è un bambino, coi suoi occhi affascinati dal mistero, sembra un angelo caduto nelle trappole del mondo che nel sonno si ritrova a combattere il suo tempo. Non ci sono più vulcani, né tempeste da evitare, solo alberi piantati ed un verde camminare. Vede maschere perfette incollate ad ogni viso ed appicca un nuovo fuoco per farne sciogliere la cera. Con le mani un po’ bagnate dalla smania del sudore, accarezza quella corda che lo lega ai suoi ricordi. Non si volta per guardare, sa dov’era, cosa è stato, sa del tempo, sa del mondo, sa del triste suo passato. Cosa cerca dei suoi giorni, cosa ha perso del suo tempo? La più intensa sua paura è di rendersene conto. Che crudele misfatto! Ogni vita scolpisce, scandisce il suo corso, strappando dagl’alberi frutti proibiti gustandone il dolce e soffrendo d’amaro, sperando in un vero e paziente perdono. Non è semplice alzarsi e gridare vittoria, il più impavido muore sgozzato in battaglia ed il più temerario perisce sconfitto dagl’anni. È la storia del mondo, è la vita dell’uomo, è l’assurda vendetta di quell’albero ignaro. Il fruscio dei suoi rami è tormento per l’uomo che ha distrutto certezze, ma è soave richiamo del vento, al tempo. Melodia di vergogna e temuta coscienza, in natura logicamente scelta, calibro innato di inconciliabili difetti. Lento il cielo s’intorpidisce aumentando il suo peso e s’innalzano case e palazzi di pietra, grigia, fumante d’incenso. Le auto, come urlatrici spente, ammassate su lastre di cemento, sfuggono veloci allo sguardo dei suoi occhi. Mentre il verde che era, ora attraversa i colori più sbiaditi.
Questo è il tempo che ha distrutto, che ha ridotto nella cenere anni ed anni di vittorie. La sconfitta più crudele: ricordarselo perfetto risentendo quelle grida. Latrati scomposti di uomini in gabbia, il dolore del corpo per la sua calma rinuncia. “Cosa stai facendo? Cosa hai fatto?” Già… cosa ho fatto! Sono nato in un cupo mattino e ho cercato di trarre energia dal mio moto riuscendo ad accendere un triste brillio che ancora non è così chiaro alla vista! Sembra un gioco. È la mia vita. Con ribellione da infante adoravo camminare sopra l’orlo di quei pozzi incavati nella terra, cadendo nel fondo senza strie d’equilibrio… mi riempivo di forza scavando coi piedi e incavando le mani sui tondi gradini che traevo dal fango. A volte era grande quel peso che per mia presunzione ho voluto cucirmi ed i tristi scalini al mio corpo cedevano. Dopo anni ed anni la mia forza d’azione è ormai divenuta presunta ma cadendo nel pozzo sono molto più vento che aria inquinata. Ed allora, questo ho fatto? Solo cenere d’inganni? Ed il verde e azzurro mondo che ho adesso alle mie spalle cosa vuole dirmi, suggerirmi, mostrarmi?
L’avevo vista camminare sul bordo di un lago, lo stesso lago in cui quel giorno mi trovavo. Ero andato col mio taccuino e una matita per immortalare i pensieri che spesso fugacemente vanno senza più tornare. C’era un albero, era un salice bambino, la sua ombra la rubai per sentire meglio il fresco delle ore. Era estate, sì, ricordo, perché il caldo era insistente e, in quei giorni, le mura delle case ribollivano col suolo. Portavo sempre dietro almeno un foglio e, fortuna o sfortuna volle, che quel giorno lo ebbi a usare. Era sola lei, e anch’io. Inquadrai il suo giaciglio, avvicinai il mio corpo al tronco, con la destra le sfioravo da lontano il suo profilo mentre l’altra mano lo stendeva sopra il foglio. Canticchiavo una canzone dedicavo a lei quel suono. Lei lontana sorrideva e con grazia si spogliava. Era sola nel suo mondo, non vedeva altro che acqua e sabbia e sale. Poi poggiò il suo corpo al sole ed un brivido bussò tra le mie gambe. Avrei voluto stendermi al suo fianco e sfiorarle un po’ i capelli. Ma si accorse che guardavo e spostò il suo corpo in acqua. Non seguii col passo il tuffo ma restai a spiarla ancora fino a quando la sua scia era quasi irraggiungibile. Persi tempo nel fermarla, la lasciai fuggire ancora. Mai una nota del mio pianto risuonò tra i suoi ricordi. Distrassi la mia angoscia volteggiando nel passato ricordandomi com’ero bravo a stupire col mio tratto, le lasciai sull’erba, al sole, accanto al suo vestito ocra e leggero, la sua immagine sperando che al ritorno avrebbe visto in quel foglio il suo riflesso. Ripresi il cammino con le braccia tese e i pugni stretti, non capivo se era stata fantasia o realmente lei esisteva. Non chiesi altro ai miei pensieri volli subito cambiar la fine di quel giorno. Ma lei sorrideva sempre ogni volta che le palpebre coprivano i miei occhi. Non riuscivo più a distrarmi, a sostare tra altra gente, riuscii solo ad immaginarla accanto, in silenzio, col vestito ocra e leggero e cominciai a parlarle da quel giorno fino a questo.
[continua]
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