In copertina: diploma del 1108 col quale la contessa Adelaide dona all’Abate Ambrogio di San Bartolomeo le decime degli ebrei di Termini (con sigillo di ceralacca).
(Per gentile concessione dell’Archivio Capitolare di Patti).
Nota introduttiva
Questo lavoro di Benedetto Lo Iacono viene a far parte della Collana Apollonia il cui obiettivo, come si legge nell’enunciato della stessa, è quello di “dare visibilità e importanza” alle cose, anche minime, che fanno parte del trinomio “lingua, storia e letteratura” delle minoranze e isole linguistiche, nel nostro caso quella alloglotta di San Fratello.
Lo scopo della raccolta Nta li sträri e li cunträri è dichiarato espressamente dall’Autore nella poesia “Ai miei scritti”:
(…) quänn iea dich
a quoi chi son i miei scritt
ni son ditt e scritt pi bravura,
ma p’arricamper checch tantìan
di quoda chi è la nascia cultura. (…)
(…quando io dico / a quelli che sono i miei scritti / non sono detti e scritti per bravura, / ma per raccogliere parte / di quella che è la nostra cultura…).
L’Autore si pone quindi lateralmente al discorso poetico in senso stretto e ci presenta una raccolta copiosa di termini lessicali, legati all’allevamento del bestiame e all’agricoltura, che finora la parlata sanfratellana non aveva registrato per iscritto. Detti termini ormai in disuso, avrebbero subito il destino inesorabile dell’oblio a causa della scomparsa della civiltà pastorale e contadina, con l’abbandono delle campagne da parte delle giovani generazioni che, facendo uso dei moderni mezzi tecnologici di lavoro e di trasporto, hanno cambiato i sistemi lavorativi tradizionali e i rapporti tra gli individui appartenenti alla stessa categoria lavorativa.
Ma al di là di tutto, nei componimenti di Lo Iacono notiamo il tempo che fugge. Lo riscontriamo nell’utilizzo persistente dei verbi al passato, nel continuo resuscitare di persone e situazioni che hanno costellato la vita dell’Autore, quasi a volerne rendere giustizia dell’ingiusto silenzio, in un confronto di comportamenti generazionali. C’è nostalgia per la tramontata civiltà dei padri, ma principalmente c’è rimpianto per la perdita di una fanciullezza vissuta spensieratamente accanto a chi ha faticato forte per permettere ai figli una vita migliore. E l’Autore si rivolge ai figli di seconda generazione ammonendoli che l’epoca delle vacche grasse non dura sempre e solo la solidarietà e la ricerca continua del bene comune, praticata dai padri, può salvare l’umanità.
La raccolta si compone di due sillogi delle quali la prima è dedicata principalmente al territorio e alla vita quotidiana del passato, al contatto con la natura; la seconda è riservata al sentimento religioso, che in verità aleggia sull’intera raccolta, e che l’Autore ostenta in modo spontaneo e sincero. Ne emerge una particolare visione del rapporto dell’uomo con Dio che si concretizza nella gioia di vivere dell’individuo come parte integrante dell’universo e che Lo Iacono identifica con la parola sanfratellana “Crijèa” (creato), al quale attribuisce il significato di causa-effetto, di Dio-Natura. Una visione che richiama un’idea filosofica non più di moda agli inizi del Terzo Millennio e che molte dispute filosofiche e teologiche generò in passato. Comunque sia, è innegabile che Lo Iacono si fa portatore di messaggi positivi, tra i quali quello di vivere secondo Natura, il rispetto della quale è condizione necessaria per un vivere sano, ma diventa pure la condizione affinché il linguaggio di riferimento non vada perduto. E in primis, questo vuole essere il fine di questo libro.
Benedetto Di Pietro
Prefazione
In un’epoca caoticamente convulsa, come la nostra, dominata sempre più dall’affermazione preponderante dei disvalori, la poesia può giocare un ruolo di primissimo piano nella ricerca della verità, nella scoperta della solidarietà e nell’apprezzamento dell’autostima. E la poesia dialettale possiede prerogative tali da essere presa sul serio.
Non fa certo eccezione la produzione di Benedetto Lo Iacono che manifesta, in modo più o meno celato, un intento didascalico: si tratta dell’asserzione dell’ethos come esperienza umana al servizio degli altri. Da uomo a uomo, da autentico sanfratellano, cantore dell’Amore, Lo Iacono sa destare nel lettore valori oggi sopiti ed obsoleti. Egli trae il suo principale alimento dalla cultura che geneticamente gli appartiene: la cultura sanfratellana. Da essa gli vengono esempi di vita vissuta, atteggiamenti, condizioni, visioni del mondo e un universo stilistico (modi di dire, aforismi, similitudini, paradossi) che rappresentano un’àncora di salvezza in mezzo a tanto livore e tracotanza.
Una soffusa, ma palese, malinconica nostalgia avvolge l’intera raccolta poetica, Nta li sträri e li cunträri (Per le strade e le contrade) di Benedetto Lo Iacono, autenticamente ispirata dall’amore per San Fratello (sua città natale). Infatti, il primo elemento che salta subito agli occhi, fin dal titolo, è il tentativo di mantenere il legame con la propria memoria, con le persone, i luoghi, le tradizioni, i momenti, le situazioni, gli eventi che non sono più, ma continuano a vivere nella sua mente e soprattutto nel suo cuore.
Avvincente risulta il titolo della silloge che comprende liriche di diversa ampiezza. Mediante i suoi versi semplici ma ricchi di contenuti, egli accompagna il lettore nelle strade della vita, della fede, del sacro, della natura, ma soprattutto negli spazi immensi delle campagne, negli ambiti ristretti delle case, nei quartieri seducenti e nelle piazze dinamiche del paese di San Fratello e nelle contrade del territorio nebroideo, nelle distese profumate dei campi e negli angoli più reconditi in cui si susseguono eventi straordinari i cui protagonisti sono singolari uomini audaci e mordenti che denotano altresì un’inconfondibile saggezza popolare.
Alla stregua del precedente lavoro La curnisg dû passea (La cornice del passato), in questa nuova raccolta, l’autore adopera la lingua galloitalica di San Fratello perché è conscio che l’uso del vernacolo permette di esprimere elegantemente e perspicacemente emozioni, sentimenti e rimembranze di cui è stato attento osservatore nel corso della sua fanciullezza e giovinezza. Inoltre, è convinto che U nasc parder (la nostra parlata) rispecchia il condensato del patrimonio umano e culturale di un popolo, rappresenta l’identità etnica che custodisce in sé gli ancestrali e imperscrutabili codici linguistici che resistendo al tempo ne trasmettono i ricordi.
Quelli di Lo Iacono sono versi “intimi” che emanano vera genuinità, autentica sincerità, delicatezza d’animo, serafica umiltà, fervente impegno, sottile ironia e forte testimonianza; versi coinvolgenti in cui il poeta ci prende per mano per condurci in ambienti dove il paesaggio si fa tacito invito ad una luminosa serenità.
Le sue liriche si possono definire frammenti di sanfratellanità, gocce di memoria, immagini nitide, bozzetti di uno spaccato in cui l’autore rivisitando il passato (dur passea), intessuto di connotati positivi ed anche negativi, fa riflettere il lettore sulla situazione del presente e lo proietta nelle dimensioni umane della vita grondanti di fede e coraggio.
Così dal suo stile misurato e pacato scaturiscono le liriche che celebrano il mondo che ruota attorno alla pastorizia (Quänn si staghjieva, La vecchia pasturizia, I vecchj merch a chieud, I vecchj merch patrunei, Ai tamp chi si quagghjieva, Quänn si dasgiaia apress, Li malattìi di ghj’animei), l’ambiente bucolico (Pinsann a Siliria, Quänn s’acciantäva u tabäch, I tamp dû ddìan, U sciar di zeagara, U nasc tirrituori), il passato (Ô miea dur passea, I rrigard dû passea), i vecchi mestieri (I barbier d’aier, I vecchj mistieri, Ê tamp dî carcarer), gli scorci di vita paesana (La birvaraura dû Macell, I parrì di na vauta, Ô graniaus crest, Sach iea stät San Frareu, U Venardì Sänt du 2010, I faunach di na vauta), le tradizioni locali (U matrimauni di quoi tamp, U pean di na vauta, Cau burrascaus diesg di mei), lo scorrere inesorabile del tempo (U camian dû tamp). Di natura prettamente religiosa sono le poesie contenute nella seconda parte della raccolta, tra le quali è doveroso segnalare La Parada di Diea, Ô Santissim Curcifizzi, Ô grean Diea, A la crausg di Diea, A la misiricardia di Diea. In realtà il sacro diviene una costante per l’autore e si configura come salvaguardia etnica contro la disintegrazione sociale.
L’autore non poteva sottacere l’evento calamitoso che si è abbattuto su San Fratello il 14 febbraio 2010 provocando danni e disagi ed egli declama la sua mestizia affermando: Pavr paies miea / chi brutta sart chi t’atucchiea / quänn ti voch ddea stunicchjiea! / Iea ti stäch scrivann ngustijiea / e mi sant ndulurea / pi quänti tu n iei passea. Soffermandosi sull’emigrazione, egli tratteggia le relazioni che San Fratello ha stabilito con Viggiù in provincia di Varese e ne loda le qualità del paese lombardo che ha accolto tantissimi sanfratellani: Graniaus e giniraus Viggiù / quoss sai tu / paies gränn e ccian di virtù / chi ni pulist avar di cchjù / e sau tu u sei / cau bai chi ghj fei / a quosc nasc ginirausg sanfrardei…
Ciò che più eccelle nella presente pubblicazione è l’aspetto lessicale: mediante l’utilizzo di termini arcaici, di espressioni in disuso, di modi di dire, la raccolta acquisisce un alto valore linguistico e dignità etnico-antropologica poiché “il dettatto fortemente espressivo” è teso a recuperare il dialetto come lingua quale patrimonio immateriale di un popolo e codice che merita un posto dignitoso anche in ambito letterario.
Benedetto Iraci