(Articolo di Massimo Barile pubblicato nella Rivista Il Club degli autori 184-185-186 Agosto 2008)
Boris Leonidovic Pasternak
«L’arte è nell’erba e bisogna avere l’umiltà di chinarsi a raccoglierla»
Ricordo ancora, come fosse davanti ai miei occhi, la vecchia casa colonica, una fattoria d’un paesino della bergamasca, panni stesi ad asciugare, animali e profumo di cucina che invadeva il giardino e mio nonno, seduto sulla sua poltrona preferita, l’immancabile pipa con quel profumo dolciastro d’un tabacco che veniva chissà da dove, il cappello stile Borsalino e la “sua” giacca di velluto nero. Davanti a noi il camino acceso, a fianco una vecchia pendola che rompeva le scatole e frantumava lo scoppiettio armonioso della legna, e lui, con tono pacato, che mi raccontava, facendo appello ai ricordi, le vicissitudini e i drammi nella terra di Russia: lui, Battista, era uno dei pochi sopravvissuti a quel suicidio guerresco. Portava sulla pelle e nelle ossa le ferite e i congelamenti subiti in quel freddo alieno e, mentre i suoi ricordi fluivano e diventavano storie inimmaginabili per me che ero ancora un bambino, ogni tanto, quasi a cercare di ritornare alla realtà, mi recitava alcune poesie di Pasternak, anzi, faceva molto di più, prima me le cantilenava in lingua russa. Per me erano solo suoni che diventavano poesia quando le recitava in italiano. Non ho mai saputo in quale occasione le abbia fissate indelebilmente nella sua memoria e, come abbia fatto ad impararle in russo, per me è sempre stato un mistero.
I suoi amici si interessavano più che altro alle ultime novità in vendita al vecchio consorzio agrario, le sementi, le coltivazioni, qualche malattia del grano, e poi, una buona parte del tempo lo passavano in compagnia con grandi bevute al bar e, tutto al più, leggevano qualche giallo con uno dei tanti investigatori che risolvevano sempre anche il delitto più oscuro.
Lui no, mio nonno leggeva Pasternak. Non disdegnava le bevute in compagnia ma… recitava Pasternak. A memoria.
Tra una storia e l’altra, la poesia ridava passione, entusiasmo, senso della vita, ad un uomo che era tornato vivo dopo essere stato all’inferno. Una di quelle volte, rimasi abbagliato dalle sue parole, estasiato davanti al fuoco di quel camino antico e pensavo e ripensavo a quello che stavo ascoltando: «l’arte è nell’erba e bisogna avere l’umiltà di chinarsi a raccoglierla» che era l’idea espressa da Pasternak. E poi a me piacevano le cravatte di Pasternak. (Qualche anno fa è stato pubblicato anche un libro che ripercorre la storia di mio nonno e dei suoi compagni: lui è uno dei pochissimi ad essere tornati).
Da allora è passato il tempo, veloce e rapinatore: qualche mese fa ho ritrovato una delle prime edizioni de Il Dottor Zivago, prima in italiano nel 1957 e poi in lingua russa nel 1959, pubblicate da Feltrinelli. Inutile ricordare che il romanzo, in quell’anno, non era stato ancora pubblicato nell’URSS, rifiutato perché giudicato ostile.
Il successo del Dottor Zivago, per coloro che hanno letto veramente ed attentamente Pasternak, non ha mai messo in secondo piano la sua poesia: anzi, ha confermato ancor più il valore e la ricchezza delle raccolte poetiche che rappresentano il fertile terreno su cui cresce il romanzo di Jurij Zivàgo.
Ecco la fedele immagine, la figura completa dello scrittore, la solitudine di Zivago e la solitudine del poeta Pasternak, lo sguardo al mondo da un’apertura d’un solaio o dalla finestra d’una cucina, l’allontanamento dalle dispute, l’inquietudine d’un poeta che restò molto distante dalle parole d’ordine e dalle entusiasmanti esortazioni rivoluzionarie, con la volontà d’una fedele conservazione, all’interno del proprio cosmo lirico, del desiderio del sogno.
Nel 1924 Pasternak scrive: «Io non sono nato per guardare le cose tre volte in maniera diversa».
Nella storia e nell’esperienza di Pasternak, il Dottor Zivago, in larga parte, rappresenta una sorta di summa poetica delle precedenti liriche e della frammentarietà narrativa di alcuni decenni che vengono assorbiti in un’opera organica e, come afferma nell’Autobiografia, pubblicata da Feltrinelli nel 1958, «le poesie disperse lungo tutti gli anni della mia vita, sono i gradi preparatori del romanzo» e poi, quasi ad allontanarsi dalle precedenti esperienze poetiche, «da poco ho terminato la mia fatica principale, più importante, l’unica di cui non mi vergogno, di cui rispondo senza paura, Il dottor Zivago».
Non v‘è dubbio che la frammentarietà della sua poesia esisteva veramente oltre ad un legame con le proposte d’avanguardia, ed ora era in atto la conclusione, un romanzo che miscelava riflessioni storiche e filosofiche, esigenze estetiche e riferimenti autobiografici, eppure, come onda sottoposta al riflusso, il Dottor Zivago era un romanzo da definirsi legato alle forme letterarie tradizionali anzi definito anti rivoluzionario dalla rivista Novyj mir.
Pasternak fu sempre estraneo alle classificazioni ed etichettature letterarie e, a questo proposito, basta ricordare ciò che espresse sempre in Sovremennik, rivista di letteratura, politica e arte, pubblicata a Pietroburgo dal 1911 al 1915: «Mi sembra che l’estetica non esista, in punizione del fatto che essa mente, scusa, incoraggia, accondiscende. Che, senza saper niente dell’uomo, intreccia Boris Leonidovic Pasternak, scrittore sovietico e grande poeta universalmente noto per il suo romanzo «Il dottor Zivago» (tradotto in ventinove lingue e venduto in milioni di copie), nacque a Mosca il 10 febbraio 1890 da una famiglia di intellettuali di origine ebrea. i pettegolezzi sulle specializzazioni. Ritrattista, paesaggista, generista, naturmortista? Simbolista, futurista, acmeista? Che gergo micidiale! E’ chiaro che si tratta di una scienza che classifica le sfere aeree secondo categorie di questo tipo: dove e come vi si dispongono le falle che impediscono loro di librarsi in aria. Inseparabili l’una dall’altra, poesia e prosa sono come due poli. In virtù di un senso innato dell’udito, la poesia cerca la melodia della natura tra il rumore del vocabolario, e tiratala fuori, un po’ come si scelgono i motivi, si abbandona poi a improvvisare su quel tema. A fiuto, di proprio impulso, la prosa cerca e trova l’uomo nella categoria del discorso, e se il presente ne è privo, allora lo crea con la memoria, lo mette in piazza e poi per il bene dell’umanità fa finta di averlo trovato nell’oggi. Questi due principi non esistono separatamente». Secondo Pasternak è fantasticamente “viva” la poesia che si imbatte nella natura e lo sguardo deve essere sempre profondo, sempre appassionato nello stesso modo: il poeta non ne rimarrà deluso.
Vivere senza “guardare” è una “pazzia” e solo i nostri occhi, colpo dietro colpo, “sveglieranno” la coscienza fino a «tendere naturalmente alla purezza».
Solo così si approda alla «pura essenza della poesia»... «inquieta come il sinistro roteare di una decina di mulini sul limitare di un campo spoglio, in un’annata tetra, affamata».
In verità, Pasternak continuò a scrivere poesie, anzi, continuò a lavorarvi fino alla morte. Credo sia sufficiente per capire chi fu Pasternak.
Nella poesia Oltre le barriere si sente la parola: «Poesia! Spugna greca con ventose / sii tu e, fra la verzura vischiosa, / io ti metterei sull’asse bagnata / della verde panchina del giardino./ Fatti crescere ricche gorgere e faldiglie, / assorbi le nuvole e i burroni, / e di notte, poesia, io ti strizzerò / per il bene dell’avida carta». Poi dirà «l’arte è una spugna, non una fonte».
Le parole contano: se chi le pronuncia possiede un valore morale, le parole sono pesanti, sono taglienti come lame.
La forza di quelle parole inciderà segni indelebili sulla pelle, la sostanza si insinuerà nella mente, i ricordi si alimenteranno quando saranno rilette.
Coloro che leggono Pasternak devono avvicinarsi prima alle sue poesie, entrare in contatto, mettersi in ascolto della sua voce, avere pazienza, leggere e rileggere, con cautela ed attenzione, quasi a giungere ad una fusione scrittore-lettore.
Un viaggio letterario che ha come mèta l’agganciamento alla sua ispirazione, al momento della creazione, proprio alla fase in cui le parole e le idee, si sono impadronite dello scrittore: poi, sono state fissate per sempre su fogli sparsi, scritti a mano.
Pasternak è poeta che porta con sé la «calda umanità», la voce, forte e sicura, della coscienza d’un uomo che sente sulla propria pelle le suggestioni di tutti i giorni, di tutto ciò che la vita può offrire.
Un poeta sommesso, una voce solitaria che crea ed alimenta stupori. Un uomo che con coerenza persegue la sua visione della vita, senza distogliersi mai da essa, con orgoglio e dignità.
Nella poesia Essere rinomati non è bello, Pasternak calca ancora di più la mano, «non è così che ci si leva in alto./ Non c‘è bisogno di tenere archivi,/di trepidare per i manoscritti./Scopo della creazione è il restituirsi,/non il clamore, non il gran successo./È vergognoso, non contando nulla,/essere favola in bocca di tutti./Ma occorre vivere senza impostura,/viver così da cattivarsi in fine/l’amore dello spazio, da sentire/il lontano richiamo del futuro». Quasi a lasciare le «lacune nel destino», annotando i luoghi di tutta una vita; occorre «tuffarsi nell’ignoto e nascondere in esso i propri passi». Saranno altri, che seguendo le tracce, «faranno la tua strada a palmo a palmo,/ma non sei tu che devi sceverare/dalla vittoria tutte le sconfitte». E poi la sublime chiusura: «E non devi recedere d’un solo/briciolo dalla tua persona umana,/ma essere vivo, nient’altro che vivo,/vivo e nient’altro sino alla fine».
Ecco allora che risulta tremendamente evocativo ciò che ricorda Pasternak nella Autobiografia: «Sgomento e entusiasmo erano all’origine delle sensazioni della mia prima infanzia. Con tinte favolose risalivano a due immagini centrali, che tutto dominavano e tutto abbracciavano: l’immagine degli orsi impagliati nelle rimesse di carrozze del Karetnyj Rjad e l’immagine di un gigante bonario, curvo, irsuto, dalla sorda voce di basso, l’editore Koncalovskij, con la sua famiglia… Il quartiere era quanto mai sospetto… continuamente mi trascinavano via per mano: non dovevo sapere questo, non dovevo ascoltare quest’altro. Ma le balie e le nutrici non sopportavano la solitudine, e quindi ci trovavamo in compagnia di gente di tutti i colori. A mezzogiorno, poi, c’erano le esercitazioni dei gendarmi a cavallo sulla piazza d’armi delle caserme della Znamenskaja. Questo contatto con i mendicanti e le pellegrine, questa vicinanza con il mondo dei reietti, con le loro storie e con le loro isteriche esibizioni sulle vie lì attorno, mi fece provare prematuramente, e poi per tutta la vita, una sgomenta piètà per le donne, e una pietà ancor più profonda per i miei genitori, che sarebbero morti prima di me e che dovevo salvare dalle pene dell’inferno compiendo qualcosa di eccezionalmente luminoso, senza precedenti». Da allora comincia a svolgersi, senza intervalli e lacune, il lavorìo della coscienza.
Il suono del pianoforte suonato dalla madre, quel colore nero come i «vestiti da sera degli uomini», il fumo delle candele, le campane che suonavano tristi, la mostra degli ambulanti, la famosa finestra della cucina che dava direttamente nello studio dello scultore Pavel Trubeckoj e permetteva di sbirciare il suo lavoro mentre ritraeva bambini, ballerine e cosacchi; e poi, le illustrazioni del padre per Resurrezione ( Voskresenij del 1899) di Lev Nikolaevic Tolstoj, sempre fatte di fretta e inseguendo i tempi di Tolstoj che «si teneva a lungo le bozze e le rimaneggiava completamente»... e «sul fornello cuoceva la colla da falegname» per fissare i disegni su cartone, poi impacchettarli e sigillare i pacchi con ceralacca e finalmente consegnarli al capotreno degli espressi della linea Nikolaevskaja.
Poi conoscerà Majakovskij, Brjusov, Belyj, Baltrusajtis, Blok, Aseev, Esenin e Marina Ivanovna Cvetaeva.
È importante ricordare alcune considerazioni rilasciate da Pasternak e pubblicate in Sovremennik nel 1922, nonché verificare come queste riflessioni sono di un’attualità sconcertante: «Le correnti contemporanee hanno immaginato l’arte come una fontana, mentre essa è una spugna. Hanno deciso che l’arte deve zampillare, mentre deve succhiare e lasciarsi impregnare. Hanno ritenuto che l’arte si può scomporre in metodi di rappresentazione, mentre è formata dagli organi di percezione. Deve sempre essere tra gli spettatori, e guardare ogni cosa in maniera sempre più pura, sempre più ricettiva, sempre più fedele; ma ai giorni nostri l’arte ha conosciuto la cipria, il camerino, e si esibisce sul palcoscenico del varietà: come se al mondo ci fossero due specie di arte, e una di esse potesse permettersi il lusso – visto che c‘è l’altra di riserva – di autotravisarsi, che è poi suicidarsi. Essa si esibisce: invece dovrebbe affondare nel loggione, nell’anonimità, quasi senza sapere che si fa comunque riconoscere, e che anche lasciata in un angolo essa viene incendiata dalle trasparenze luminose e dalla fosforescenza, come una malattia».
E noi non possiamo fare altro che leggere la poesia In ogni cosa ho voglia di arrivare dalla raccolta Quando il tempo si rasserena: «In ogni cosa ho voglia di arrivare/sino alla sostanza./Nel lavoro, cercando la mia strada,/nel tumulto del cuore./Sino all’essenza dei giorni passati,/sino alla loro ragione,/ sino ai motivi, sino alle radici,/sino al midollo./Eternamente aggrappandomi al filo/dei destini, degli avvenimenti,/ sentire, amare, vivere, pensare,/effettuare scoperte./ Oh, se mi fosse dato, se potessi/almeno in parte,/ mi piacerebbe scrivere otto versi/ sulle proprietà della passione./Sulle trasgressioni, sui peccati,/sulle fughe, sugli inseguimenti,/ sulle inavvertenze frettolose,/sui gòmiti, sui palmi./Dedurrei la sua legge,/ il suo cominciamento,/dei suoi nomi verrei ripetendo/le lettere iniziali./I miei versi sarebbero un giardino./Con tutto il brivido delle nervature/vi fiorirebbero i tigli a spalliera,/in fila indiana, l’uno dietro l’altro./Introdurrei nei versi la fragranza/delle rose, un alito di menta,/ ed il fieno tagliato, i prati, i biodi,/ gli schianti della tempesta./Così Chopin immise in altri tempi/un vivente prodigio/ di ville, di avelli, di parchi, di selve/ nei propri studi./Giuoco e martirio/del trionfo raggiunto,/corda incoccata/di un arco teso».
La parola di Pasternak è pura intensità evocativa, stupefatto ed inebriante assorbimento delle emozioni: ogni poesia sorge come umile fiore dalle zone d’ombra della vita fino a guardare nei minimi particolari, a perdersi in una contemplazione della natura, delle immagini, delle cose, dell’Uomo sempre intento in una sua personale investigazione.
Tutto diventa miscela poetica: aroma di tiglio, cielo azzurro, acquavite all’anice, profumo di terra, la nebbia dei prati come latte con salnitro, la natura, il mondo, un «cantuccio del cosmo»: «sognavo l’autunno nella penombra dei vetri… e come dai cieli un falco sazio di sangue/scendeva il mio cuore sulla tua mano» e ancora «io resterò con lacrime di gioia,/penetrato da un brivido recondito». La notte, la fiamma, la pioggia sul viale, il viavai delle strade, il destino degli uomini soli: la neve cade, «non fai tempo a girarti dattorno, ed è Natale», la vita stringe e gli anni si succedono «come la neve o come la parole d’un poema».
E nel momento specifico della creazione: «Di notte, non riuscendo a prendere sonno,/ in un attimo lucido balzando dal divano,/mettere un mondo intero nella pagina,/situarsi nei confini della strofa»... «Sulla carta innalzare un oceano di tetti,/un mondo intero, un’intera città fra la neve».
La serietà dell’uomo, il suo sguardo che riesce ad estrapolare l’essenza delle cose, tutto assume una trasparenza primordiale, in una visione che rende cristalline le immagini, simboli del tempo che emergono dalla neve, dalla terra bagnata dalla pioggia, dalla nebbia, dalle oscurità, dalle acque gelide… quasi per magia. Da un lato, la sua mite timidezza, la sua discrezione, il suo appartamento dalle diatribe, la sua lontananza dalle polemiche, dai conflitti ideologici, culturali e letterari e, dall’altro lato, quel meraviglioso stupore “da bambino”, la sua facilità all’entusiasmo, la capacità d’incantarsi davanti alla vertigine immane della natura: le immagini e le metafore nascono dalle riflessioni, da un dialogo intimo, ed emerge sempre quella propensione, che durerà fino alla fine dei suoi giorni, ad una semplice vita appartata.
In Znamja nel 1940, Lilja Brik ha scritto di Majakovskij: «...era tutto imbevuto di Pasternak. Lo diceva poeta stupendo, oltremarino. Con Asèev egli era più intimo, ma non fu mai invaghito di lui come del delizioso, attraente e un po’ enigmatico Pasternak. Lo conosceva tutto a memoria, lo recitò per lunghi anni…».
L’arte deve essere libera, intoccabile il diritto dell’Uomo a vivere come “individuo” e non diventare una insignificante parte d’un meccanismo che, senza pietà, lo annienterà. Prima o poi. La parola di Pasternak è molto più fedele alla realtà e ai mutamenti che sconvolgevano la terra russa, le sue parole più vere di coloro che erano i poeti ufficiali.
Pensare a ciò che scrive Pasternak quando racconta dove e come scrisse il suo primo libro di poesie può essere molto utile per coloro che stanno ancora a dubitare «su una parola che spieghi meglio ciò che vogliono dire»: fatica inutile se «la sostanza ha perso valore», se non si è capaci di creare un «proprio stile», di essere riconoscibili da un lettore dopo solo due righe, se non si è capaci fare altro che scimmiottare ciò che un altro essere umano ha creato dopo lunga fatica. Ecco allora che si ha a che fare con dei cloni che cercano disperatamente di catalogare i vocaboli che più utilizzi, le aperture e le chiusure, le metafore e i simboli, la tessitura personalissima che solo uno scrittore originale riesce ad ottenere: eppure, neanche impegnandosi fino al sudore, riescono a “suscitare l’anima” come l’originale. Il motivo del loro fallimento risiede nel fatto che non vivono la “tua” estasi. Quando si scrive è necessario far ribollire il sangue, arpionare ciò che passa velocemente nella mente, liquefarsi nelle parole, diventare uguale sostanza. Il dramma deve essere vissuto. Questo è il mio percorso, queste sono le mie virate estreme, le mie acrobazie rabbiose nella vertigine immane.
Qui habet aures audiendi, audiat. Come non ripensare al giovane Pasternak quando scrive nell’Autobiografia: «Ai margini d’un parco serpeggiava un ruscello dai rapidi gorghi. Su uno dei vortici si protendeva mezzo sradicata, e continuava a crescere all’ingiù, una grande, vecchia betulla… Il groviglio verde dei suoi rami formava una pergola sospesa sull’acqua. Nel loro solido intreccio ci si poteva accomodare a piacere, seduti o semisdraiati.
Qui stabilii il mio cantuccio per lavorare… Nel folto di quell’albero, per due o tre mesi dell’estate, scrissi le poesie del mio primo libro… Scrivere questi versi, cancellarli, riscriverli, era una esigenza profonda per me, e mi procurava una incomparabile soddisfazione, fino alle lacrime». E poi ancora «non sentivo alcun bisogno di gridare i miei versi da un palco… non sentivo alcun bisogno che le modeste grazie dei miei versi mandassero in deliquio le mosche e le mogli dei professori… Io non esprimevo nulla, non rispecchiavo, non raffiguravo, non rappresentavo nulla. In seguito, mi scoprirono doti d’oratore e declamatore. È falso. Non ne ho più di chiunque parli» ... «Al contrario, mia preoccupazione costante era il contenuto, mio sogno costante era che la poesia in sé contenesse qualcosa, un nuovo pensiero o una nuova immagine; che fosse incisa in ogni suo particolare all’interno del libro, che parlasse dalle sue pagine con tutto il suo silenzio e tutti i colori della sua nera stampa incolore». L’unica cosa in nostro potere è di «saper non travisare la voce della Vita che risuona in noi. Non essere capaci di trovare la verità, è una colpa che non può mascherare nessuna abilità a dire la non-verità. Il libro è un’essenza viva». Nel 1958, due anni prima della sua morte, a Pasternak viene assegnato il premio Nobel per la letteratura. Il romanzo Il Dottor Zivago non è stato ancora pubblicato nell’URSS e la premiazione dello scrittore viene considerata un atto politico ostile. La possibile espulsione dall’URSS, il suo sconcerto, il linciaggio morale, l’esclusione dall’Unione degli scrittori sovietici, la sua amarezza per la reazione violenta contro l’assegnazione del premio Nobel, inducono Pasternak a rinunciare.
Molte sono le cose che Pasternak ha perso: «Nella vita, perdere è più necessario che acquistare. Il grano non germoglia se non muore. Bisogna vivere senza stancarsi, guardare avanti e nutrirsi delle riserve vive elaborate dall’oblìo in collaborazione con la memoria». «Addio a tutti gli altri miei ricordi» erano state le ultime parole dell’Autobiografia.
Nel mese di maggio del 1960 Pasternak muore. La stampa sovietica ignora la notizia. Si racconta che una grande folla di amici, giovani e poeti abbia assistito ai funerali. Zakljàtie smèchom. Smech.
Massimo Barile