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In copertina: “Altare della Patria – Roma” © fusolino – fotolia.com
Prefazione
“Cent’anni dopo”, raccolta di racconti magistralmente resi vivi e pulsanti da Bruno Longanesi, rappresenta la testimonianza, profondamente sentita e fortemente simbolica, dell’immane sofferenza patita dalla generazione che ha vissuto la prima guerra mondiale, offerta da Bruno Longanesi con grande capacità nel rendere vibranti le narrazioni che riportano vicende umane con le emozioni e gli stati d’animo di coloro che sono stati artefici e vittime delle dolorose e tragiche esperienze della guerra.
I racconti riportati in questo libro narrano, nello specifico, gli avvenimenti militari della guerra che è stata combattuta sulle nostre montagne dell’arco alpino e che hanno visto, come protagonisti, “uomini umili e semplici”, ma capaci di offrire tutto il loro cuore con esempi di coraggio e gesti di grande e generosa umanità.
Le storie raccontate vedono come protagonisti proprio questi uomini che furono “soldati” votati al compimento del loro dovere in un ambiente, come quello delle Alpi, sicuramente arduo e difficile da sopportare a causa del freddo intenso e delle disumane condizioni nelle quali dovevano combattere e, a dire il vero, il più delle volte, cercare solo di sopravvivere contrastando le atroci condizioni tra i ghiacciai perenni e le alte quote dove, come scrive Bruno Longanesi, regna solo il “silenzio” e domina incontrastata la forza della Natura.
Sulle alte vette hanno affrontato situazioni disperate ed hanno lottato contro la drammaticità di eventi che, giorno dopo giorno, rendevano la vita ancor più tragica a causa delle difficoltà del combattimento in una sorta di tragedia umana senza fine, che ha visto la perdita di milioni di vite, nelle varie regioni fra l’Europa, la Penisola Arabica e le colonie d’Africa, durante il conflitto della prima guerra mondiale.
Il pretesto narrativo, dal quale prendono il via i racconti di questo libro, è la consegna al direttore d’un giornale di alcune lettere scritte da un soldato dal fronte di guerra e indirizzate al suo sacerdote.
Il giornalista inizia a leggere le lettere scritte dal soldato Marco, primo protagonista dei racconti, con le sue lettere datate maggio 1916, pervase da sconforto e dalla paura del fuoco nemico: nascosto in un anfratto di roccia, in una “trincea sporca e piena di soldati” che si ritrovano fra montagne sconosciute ed in un luogo isolato dal resto del mondo.
La consapevolezza che la morte è sempre in agguato domina sovrana ed i soldati sono impauriti e devono eseguire gli ordini impartiti senza discutere: le ragioni della guerra prendono il sopravvento e incitano all’odio, ma, nel frattempo, i compagni di sventura muoiono ed il terrore soffoca ormai il respiro durante le interminabili giornate di attesa.
Nel corso degli avvenimenti v’è l’amara considerazione che anche il nemico si trova nelle stesse indicibili condizioni e non vi sono differenze: sono tutti sotto lo scacco della follia della guerra e devono fare i conti con gli assalti alla baionetta e l’orrore delle vicende militari.
Emerge chiaramente il resoconto realistico della effettiva, dura e cruda vita di trincea al bando dalle ipocrisie e dalla propaganda militare che esaltava gli “eroi” della Patria: la realtà era stata ben altra cosa e faceva tornare alla mente, ad esempio, l’ordine folle di sferrare un’offensiva con la neve così alta che non permetteva di camminare.
L’alpino Marco racconta la sua fierezza di appartenenza e ricorda la solidarietà del corpo degli “uomini della montagna”: la sua profonda umanità, la sua convinta fede ed il senso del dovere diventano le uniche possibilità per sentirsi ancora un essere umano.
Alle tragiche e struggenti lettere dell’alpino Marco seguiranno le storie di due fratelli, Leonardo e Francesco, il primo arruolato nel reparto di fanteria di montagna per l’esercito austriaco ed il secondo assegnato, come ufficiale di complemento, al reparto del genio militare italiano.
La vicenda narrata è collegata ad un leggendario episodio avvenuto sul Col di Lana, che era in mano agli austriaci ed era posto a difesa degli attacchi dell’esercito italiano. La storia dei due fratelli, che si ritrovano a combattere su fronti opposti, è simbolico esempio della follia e della ignominia della guerra che, come un demone spietato, porta a versare il proprio sangue. Solo la fortuna porterà i due fratelli a ritrovarsi e Bruno Longanesi, facendo appello ad un senso d’umanità, grazie a questo racconto, pare offrire uno spiraglio di speranza all’Uomo che riesce a rimanere tale anche nelle situazioni più atroci.
I racconti si susseguono e Bruno Longanesi è bravo a miscelare le sofferte vicissitudini con il costante recupero memoriale ed esistenziale.
Nel continuo divenire narrativo ritroviamo la storia del tenente Giulio, Ufficiale del Reggimento Alpini, impegnato nella difesa, fino “all’ultimo uomo”, di una posizione strategica sulla vetta delle Tofane; poi, l’episodio di un giovane ufficiale di plotone, impegnato nell’assalto per la conquista di un costone di montagna nelle vicinanze del Monte Piana; quindi, il triste destino di un giovane alpino nel budello della trincea sulla sommità del Passo della Sentinella, occupato dagli Austriaci, che sarà ucciso da un cecchino; poi, la storia di Luciano, il “bravo sminatore”, del Reggimento di fanteria della Brigata Arno, obbligato a scegliere tra fucilazione o “redenzione” nel battaglione di bonifica dei terreni minati; al quale seguirà l’ultima lettera inviata ai genitori da parte di un medico impegnato, al fronte, nel reparto di chirurgia.
Bruno Longanesi ricorda, poi, le vicende nella Val Sassovecchio, dove esisteva un torrione roccioso che era caposaldo per dominare le posizioni austriache e poter causare forti perdite grazie ai temibili cecchini, che si collega al ricordo di un meraviglioso gesto d’umanità al quale seguirà la storia di Giovanni e Paolo, due grandi amici, chiamati alle armi quando, nel maggio del 1915, l’Italia dichiara guerra all’Austria e, sull’altopiano di Asiago, si assisterà ad un gesto eroico, proprio come quello di don Giuseppe che, ancora studente, era stato inviato al fronte con il grado di sergente nell’inferno dell’Ortigara, che salvò Antonio, ormai considerato un ferito spacciato, portandolo sulle sue spalle fino nelle retrovie dove poteva trovare assistenza medica.
Gli eventi bellici ed i continui pericoli, gli episodi generosi e nobili anche nei momenti più difficili della guerra, in alcuni racconti, riescono ad accomunare i protagonisti ed a creare forte solidarietà che viene resa nel miglior modo possibile da Bruno Longanesi sempre attento a fissare i risvolti dell’animo umano.
Il flusso narrativo è tremendamente coinvolgente e riporta al tragico periodo della prima guerra mondiale con numerose vicende umane che riescono ad elevare alla dimensione letteraria alcune vicende che hanno sconvolto le esistenze di milioni di esseri umani.
Bruno Longanesi riesce ad illuminare le zone oscure dell’animo umano, sempre attingendo alla sua capacità di scrittura che, con sguardo critico, riesce ad alimentare anche l’ultimo barlume di speranza che sopravvive nel cuore dell’Uomo.
La testimonianza diventa un dono offerto da Bruno Longanesi proprio a quegli “uomini” che hanno fatto la storia ed hanno combattuto fino al sacrifico estremo: un semplice gesto di gratitudine per coloro che sono stati protagonisti di quel tragico periodo storico ed un segno tangibile che vuole rendere onore a coloro che, purtroppo, “non sono tornati”.
Massimo Barile
Introduzione dell’autore
Un secolo fa iniziava quel conflitto che, in seguito, verrà denominato: Prima Guerra Mondiale.
Un avvenimento che sconvolse il nostro Pianeta perché interessò tutti i Continenti, in una lotta che costò all’Umanità milioni e milioni di vite umane.
Anche lo scacchiere dove si svolse questa tragedia risultò colossale: la guerra interessò per novemila chilometri fra Europa ed Asia, dalle rive del Mare del Nord, fino alle sabbie dei deserti dell’Arabia ed alle boscaglie delle colonie tedesche in Africa.
Anche il nostro Paese ne fu coinvolto.
La guerra combattuta dall’Italia si svolse, prevalentemente, sulle montagne e spesso nelle alte vette dell’arco alpino.
Questo libro narrerà, con racconti, le vicende della vita e delle battaglie che si svolsero lassù con protagonisti umili come sanno essere gli uomini che vivono a contatto con le montagne.
Storie semplici d’uomini e soldati nel compimento del loro dovere, in quel teatro naturale delle Alpi pieno d’asperità in tempi normali, reso ancora più drammatico dagli eventi di un conflitto armato ad altezze oltre le quali si spegne ogni forma di vita e la stessa natura si fa nemica dell’uomo.
Storie che, spesso hanno dell’inverosimile, perché avvenute dove i monti si elevano verso il cielo, oltre i tremila metri, con la nuda roccia ed i ghiacciai perenni, dove regna incontrastato e infinito il silenzio e si scatenano le grandi forze della Natura.
I nonni e bisnonni dei nostri giovani si cimentarono in questa duplice lotta: le avversità della Natura e la difficoltà estrema del combattimento, dando prova eccezionale d’uomini e soldati chiamati ad adempiere un dovere.
È un libro che parla di guerra ma non vuole essere un incentivo alla guerra.
Vuole essere, semplicemente, una testimonianza della sofferenza di una gioventù che la guerra ha vissuto, per quasi quattro anni.
Un segno di gratitudine verso quelli che tornarono, ma soprattutto per quelli che, lassù, resteranno in eterno.
Buona lettura!
Cent’anni dopo
A mio fratello caduto eroicamente in guerra
LA CROCE SUL MONTE
“A volte penso che dovrebbe esserci una regola di guerra per cui bisogna vedere qualcuno da vicino e conoscerlo prima di sparargli”
(dal film M*A*S*H*)
C’era un’afa fastidiosa nella trincea quel pomeriggio del mese di luglio del 1916.
Un’aria immobile, inerte, che favoriva il rilassamento delle membra per stanchezza.
Che giorno era?
Tu non ricordavi la data esatta, verso la metà del mese, giorno più giorno meno.
Le giornate non le contavi più, tanto che senso aveva: i cambi, in prima linea, non venivano più programmati.
Il tempo non era più regolato dal normale calendario.
Trascorreva solo in attesa di eventi quasi sempre drammatici.
Quel “buco” angusto nell’anfratto della roccia e quel tortuoso budello di trincea, erano la tua abitazione da parecchi mesi, lassù, oltre i duemila metri, sul ghiaione antistante la sommità del Passo della Sentinella, occupato dagli Austriaci.
Ci vivevi malamente e avevi ragione.
Sognavi gli agi che avevi goduto a casa tua, una misera casa di campagna, priva di ogni elementare servizio igienico, ma con il privilegio che l’acqua del torrente abbondava e l’aria era fresca, respirabile e non eri costretto a sopportare, in continuazione, i miasmi dei morti dissepolti nella terra di nessuno e quelli, nauseabondi, dei vostri escrementi.
Passava lento il il tempo, lassù, apparentemente tanto vicino al cielo!
Assalti non se ne erano verificati negli ultimi giorni e quell’inedia, se procurava un po’ di tranquillità, accentuava il disagio di quello sfasciume materiale e morale.
Quel giorno il sole era opprimente, batteva veramente forte.
“Scottava” come al tuo paese, in Romagna (“Romagna solatia…” diceva il poeta di casa tua, ma tu non conoscevi i versi del Pascoli, non li avevi mai letti!).
Tu e i tuoi camerati, non sapevate come passare le ore e allora cantavate perché, nonostante ciò che vi circondava e la morte fosse sempre in agguato, avevate solo vent’anni e a vent’anni si ha la forza, quasi il dovere, di cantare, in qualsiasi situazione!
Cantavi, ma era solo una voce che usciva dalla bocca.
Avevi imparato a conoscere la tristezza, quella cupa e diffusa malinconia che attanaglia l’intimo e che provoca amarezza e pensieri spiacevoli.
I tuoi occhi erano alla ricerca di qualcosa che potesse distrarre la mente, allontanare, o sottrarre momentaneamente, qualsiasi dolorosa situazione.
Vedesti una piccola lucertola, immobile, che si crogiolava al sole.
Era lì… proprio vicino al reticolato, con le sue minuscole zampette aggrappate al terreno.
Ti guardò sorpresa e incominciò a roteare gli occhi.
Da bambino ti piaceva pigliarle per la coda, vero?
Ti venne spontaneo quel gesto, era un gesto suggerito da nostalgici ricordi.
Ma fu un movimento imprudente!
Sporgesti appena la testa, oltre i sacchetti di sabbia che proteggevano la trincea, per afferrarla.
Non sentisti neanche lo scoppio.
Fu un attimo, fra una nota e l’altra della canzone.
Ti avevano insegnano quella canzone perché dovevi cantarla insieme agli altri, mentre marciavi verso il nemico e anche quando la nostalgia ti portava a pensare a casa.
Non dovevi pensare a casa! Mai!
La tua casa, ora, era quella lurida trincea!
Non conoscevi neanche il nemico.
Non avevi nemici, tu!
Ma dovevi odiare quelli che ti stavano di fronte perché, ti assicuravano, loro odiavano te!
”Ma se non li conosco neppure!” obiettavi.
Avevi vissuto in quel paesino sperduto nella grande pianura ed al bar eri amico di tutti.
Non ti interessavi dei problemi delle persone istruite.
Tu, sapevi appena leggere!
La politica non la capivi: la consideravi riservata a quelli che usavano certe parole difficili, incomprensibili per te, e a quelli che sfogliavano il giornale.
E molti litigavano per questo.
Tu certamente non partecipavi a quei discorsi.
Un giorno, però, a causa di queste chiacchiere, ti trovasti una cartolina rosa fra le mani: dovesti presentarti al tuo distretto militare, fosti costretto a partire per la guerra.
“Che c’entro io con la guerra?” ti chiedesti.
Nessuno ti dette una risposta.
Ti imposero di partire e basta!
E tu dovesti ubbidire!
Era la prima volta che ti allontanavi dal paese.
Ti trovasti con tanti giovani come te, spaesati e frastornati, in un’ampia caserma, un ambiente tetro e grigio, dove era imposta una rigida disciplina.
Ti consegnarono una divisa grigio-verde, un berretto con una penna.
“Sei un Alpino” precisarono.
Non sapevi dove erano le Alpi, ma non era un problema di geografia.
Neanche in montagna eri mai stato… Ma diventasti, ugualmente, un Alpino… addirittura un Alpino del valoroso Terzo Reggimento.
“Un onore. – ti dissero: – Devi andarne fiero!”
Ma tu non capisti il perché!
Ti insegnarono a marciare, a tenere il passo con gli altri, a cantare inni pieni di entusiasmo, di gloria, ma tu non riuscisti ad esaltarti.
Non ti riusciva di concentrarti sulle parole della canzone e, contemporaneamente sincronizzare il passo di marcia.
Avevi sempre il piede fuori posto e il tuo sergente ti rimproverava e ti chiamava lavativo, ma non eri uno scansafatiche: tu ce la mettevi tutta ma non ti riusciva quel compito difficile.
Eri abituato ad un passo diverso: quello scandito dalle tue mucche quando eri intento ad arare i campi… era il vostro passo, perbacco, e nessuno ve lo criticava!
E poi, non eri abituato a marciare con quegli scarponi chiodati a quattordici punte, con quelle pezze ai piedi al posto dei piedi nudi, con le fasce a striscio da adattare strettamente alle gambe, con le giberne che ti stringevano la cintola.
Eri molto impacciato.
Troppe cose da controllare: il fucile a tracolla che tendeva sempre a scivolare dalla spalla, quella baionetta che sbatacchiava al fianco, quello zaino che gravava sulla schiena, la gavetta, la borraccia sempre fuori posto, la maschera anti-gas e per di più con quel cappello troppo largo per la tua testa e che tendeva a caderti sulle ventitré.
Sì… eri veramente un po’ ridicolo, non eri marziale come si pretendeva da te.
Ma ti ritennero ugualmente capace per la guerra e ti spedirono al fronte.
Ricordi quel lungo treno? Sì: “Quel lungo treno, che porta al confine…” come diceva la canzone che ti insegnarono subito.
Lo chiamavano tradotta, ma tu, quei vagoni, li conoscevi come carri merci.
Ci vollero parecchi giorni per arrivare in quel piccolo paesino delle montagne cadorine dal nome strano.
Ti fecero scendere in fretta.
C’erano tanti graduati che urlavano di far presto.
Udisti per la prima volta degli scoppi e ne avesti paura, la stessa paura di quando, bambino, vedevi i lampi e udivi i tuoni dei temporali e chiedevi protezione da tua mamma.
Ma adesso avevi vent’anni! Eri considerato un uomo, un soldato, perdio!
Un “Alpino del Terzo!” addirittura!
Ti mandarono lassù, dove quei nuovi temporali non avevano tregua.
Salisti faticosamente con lo spavento impresso nel volto!
Ti inerpicasti, con i tuoi amici di tradotta, in una lunga fila, su per un sentiero impervio.
Cantavate un’altra canzone: “Dopo tre giorni di lungo cammino…”
Ogni tanto un bagliore, uno scoppio e qualcuno di voi urlava di dolore, ma bisognava continuare a camminare e a cantare anche se lo spavento seccava la gola!
Incontrasti dei feriti che tornavano verso le retrovie. Urlarono a te e ai tuoi compagni: “Tornate indietro finché siete in tempo… Lassù è l’inferno!”
Lassù c’era l’odiato nemico”.
Dovevate snidarlo, combatterlo, ucciderlo.
Così ordinavano i tuoi “superiori” e tu ricordavi le parole di tuo padre (“Dà sempre retta a chi ti comanda”) e quelle della signora Tonolli, la tua maestra: (Devi sempre ubbidire!”).
Avevi imparato poco a scuola, ma a ubbidire sì.
Addirittura, lassù, in quella trincea, imparasti anche la parola “sissignore”, la parola che non ammetteva repliche.
Arrivasti su quella pietraia; lavorasti di vanga e badile per costruire quella trincea, quel camminamento, quella nicchia: la tua nuova casa, insomma, con attorno alte cime di sasso, guglie granitiche che ti chiudevano il panorama.
Da che parte era il tuo paese? La tua vecchia casa? Esistevano ancora?
Da quanto tempo li avevi lasciati? Sembravano ricordi lontani… da favola!
Come avresti desiderato sentire una voce amica che si esprimesse nel tuo dialetto, che ti parlasse della tua campagna, delle tue mucche; la voce di alcune ragazze, di una in particolare; sentire le dolci parole di tua madre quando ti coccolava… quelle di tuo padre che ti portava a caccia e ti faceva sentire la sua benevola protezione.
Invece, sempre quel parlare aspro e ruvido del sergente…
Avresti voluto scrivere al tuo parroco per dirgli che un giorno era arrivato in prima linea un sacerdote, un Cappellano militare.
Era la prima volta che vedevi un Cappellano Militare: un Ufficiale con la divisa militare e con una “croce rossa” sul petto.
Aveva chiesto se qualcuno sapeva servire la Messa.
Tu ti eri offerto perché, da ragazzino, eri il miglior chierichetto della Parrocchia.
Ti sentisti orgoglioso, quel giorno, e avresti desiderato farlo sapere a don Giulio.
Ma in che modo? Come si faceva a comunicare con qualcuno?
Lassù, nessuno veniva chiamato per nome: eravate soltanto dei paesi, delle Regioni, tu, ad esempio, eri “Romagna” per tutti.
“A chi tocca il turno di sentinella? Romagna, tocca a te” e tu correvi al richiamo.
E scrutavi, attraverso una piccola feritoia, il terreno davanti fino a quei reticolati, oltre ai quali c’era il nemico. Non dovevi permettere che si avvicinasse. Guai!
Ma che faccia aveva il nemico? Ne avevi visto qualcuno, catturato prigioniero, e ti erano sembrati come te, sporchi e laceri, solo che parlavano in un modo incomprensibile, più o meno come «Calabria», il tuo amico di trincea.
Avevano volti spettrali, emaciati, con barbe lunghe; ridotti a larve di uomini, avvolti in divise stracciate, inzaccherate di fango.
Uno di loro ti guardò, con sguardo infantile: era un tuo coetaneo: vent’anni!
“Hai fame?” gli chiedesti.
Lui, abbassò gli occhi e rispose, timidamente, “Ja”.
Capisti il senso della risposta e replicasti: “Anch’io ho fame!”
Ma gli consegnasti la tua pagnotta di pane secco che avevi tenuto di riserva per i casi eccezionali.
“Non stanno meglio di noi…” pensasti.
Però ti erano sembrati felici di essere prigionieri, sorridevano con le mani alzate.
Non avevano torto: per loro la guerra era finita!
Una volta ti fecero uscire di notte, in pattuglia isolata.
Ti precisarono che era una missione importante.
Ti comandarono di avvicinarti al nemico il più possibile, strisciando sul terreno, ma non ti dissero il motivo perché dovevi farlo.
Ti andò bene… nessuno ti vide in quell’oscurità e tornasti alla trincea facilmente.
Ti dissero che, in quell’occasione, eri stato bravo, che avevi compiuto benissimo la missione, ricevesti tante pacche sulle spalle, anche se a te era sembrato di non aver fatto niente di particolare per meritare tanti elogi e tanti complimenti.
Sapesti, poi (te lo disse il tuo sergente) che avevi accertato che la terra di nessuno non era minata.
“Ma se era minata come me la sarei cavata? – ti chiedesti – Non sapevano i miei superiori di quel pericolo?”
Come eri sempliciotto! Certo che lo sapevano, e con questo?
Eri solo… “Romagna”, niente di più!
Non portavi più il berretto di feltro da Alpino: te l’avevano sostituito con un elmetto di metallo ma anche tu, come i tuoi compagni, riuscisti a introdurre, con un apposito foro, la “penna nera” perché si vedesse bene!
Ti piaceva, ormai, l’idea di essere un Alpino, vero?
Ne eri orgoglioso!
Come avresti voluto mandare a casa una foto con impresso un atteggiamento guerriero, quell’espressione che studiavi da tempo, su quella scheggia di specchio che ti serviva per sbarbarti ogni tanto. Ora, poi, che la barba incominciava a infoltirsi…
Come sarebbe stato bello, per le ragazze del paese, vederti così trasformato!
Incominciasti a cantare le canzoni degli uomini della montagna, in coro.
Ti pigliava un nodo alla gola alla sera quando, riuniti nella trincea in attesa di sdraiarvi in terra per dormire, cantavate: “Noi sem Alpin… ce piase el vin…”
Tu, proprio tu che eri astemio, cantavi che “te piasea el vin”.
Avevi vent’anni e a vent’anni si possono cantare anche queste innocenti bugie.
Poi, quando calava il buio, e le stelle incominciavano a brillare in cielo, veniva a mancare la voce e il coro si dissolveva: subentravano altri nostalgici ricordi!
Ognuno si rinserrava nei propri pensieri e sembravate di colpo invecchiati!
Dei vecchi ventenni!
Una orribile realtà che era uno schiaffo alla vostra giovinezza!
Dormivi poco la notte… non era facile addormentarsi trascurando le esigenze dei pidocchi o altri parassiti che ti succhiavano continuamente il sangue, oppure annullare il fetore che si materializzava sui vostri corpi.
Non ti toglievi la divisa da tanti giorni!
Sentivi il bisogno di una bella nuotata nel fiume del tuo paese, senza abiti addosso.
Il tuo paese…
Esisteva ancora? I tuoi amici del bar si ricordavano di te?
Ora avevi altri amici a cui eri legato da un vincolo che non sapevi spiegarti, ma che ti affratellava in maniera particolare.
Alla mattina, di solito, ti svegliava il martellare dei colpi dei cecchini austriaci.
Possibile che non dormissero dall’altra parte?
Sparavano sulla sussistenza che veniva a portare i rifornimenti necessari.
Tante volte riuscivano a fermarli quei soldati che provvedevano al cibo della tua trincea e allora, per quel giorno, la dieta era più ristretta.
Quel giorno avresti sofferto la sete, più che la fame.
L’acqua razionata che ti davano era cattiva: sapeva di disinfettante.
Quando pioveva, invece, era piacevole soddisfare, in parte, l’arsura: raccoglievi l’acqua piovana nell’elmetto e la bevevi avidamente!
Avevi ripreso a recitare le preghiere che ti aveva insegnato la mamma, da bambino: “Padre nostro… che sei nei cieli… sia fatta la tua volontà…” dicevi a voce bassa.
Era bello pregare! Ti sembrava di parlare ad un caro amico.
Credevi in Dio e ti disturbavano quelle imprecazioni, tutte quelle bestemmie che sentivi urlare in giro, durante il giorno.
Dicevano, per giustificarsi, che la colpa di quella situazione terribile era tutta di Dio, non degli uomini!
“Ma Dio predicava l’amore…” obiettavi ai tuoi amici di trincea.
Scuotevano il capo.
Ti facevi il segno della croce quando vedevi un tuo compagno con il lenzuolo steso sul viso e recitavi, con la mente, un Requiem.
“Ma credi ancora a queste cose?” chiedeva il tuo sergente e tu, ingenuamente, rispondevi: “Sì… sergente… ci credo… me le ha insegnate mia mamma! Mi diceva che mi sarebbero servite nella vita, nei momenti difficili…”
E il sergente ti guardava stupito, ma con ammirazione: intuiva che eri l’unico essere incorrotto in quella misera bruttezza!
E ti invidiava… Come ti invidiava!
Da mesi eri in quel camminamento, in quella lurida trincea, in quel letamaio umano.
La tua vita era priva di ogni sensazione gradevole: di felicità, di gioia, di allegria.
Sentivi il bisogno di uno stimolo che permettesse di far emergere i sentimenti.
Cercavi qualcosa a cui aggrapparti per farti sentire ancora un essere vivente, non abbruttito dagli eventi circostanti, un uomo che aveva ancora mantenuto la sensibilità che possedeva da fanciullo per le cose belle, tenere, delicate…
E quel giorno, quell’afoso pomeriggio, vedesti sul ciglio della trincea quel piccolo essere vivente, incapace di nuocere, quella piccola lucertola…
Si era fermata e ti guardava incuriosita, con insistenza…
Poteva essere un’occasione di piacere prenderla per la coda, farla sobbalzare, vederla avvitarsi su se stessa per sfuggire alla morsa, mentre tu già assaporavi il compiacimento dell’attimo successivo, quando l’avresti liberata…
Ricordasti il divertimento che provavi da bambino.
Non l’avresti certamente uccisa, non ne avevi mai uccisa una, tu!
Ora poi…
Avresti desiderato solo riprovare quel malinconico e struggente contatto con quel piccolo e indifeso essere e assaporare la piacevole sensazione al momento del rilascio.
Insomma, avresti voluto, per un momento, ritornare a quei bei tempi.
Perciò, alzasti appena la testa oltre i sacchetti di sabbia che proteggevano la trincea.
I tuoi occhi brillarono dalla contentezza.
Allungasti un braccio, lentamente… sempre più lentamente, perché la bestiola non fuggisse al tuo rapido gesto di presa…
“Sono svelte le lucertole” pensasti.
A un centinaio di metri, su un’altra trincea, un nemico, un cecchino, ti stava inquadrando col suo fucile di precisione e, con meticolosa lentezza, ma con inesorabile precisione, ti stava centrando come bersaglio.
Tu, facesti scattare fulminea la mano per agguantare la preda, lui premette fulmineo il grilletto della sua arma…
Furono rapidi i vostri gesti… un attimo appena!
Ma fu, comunque, un attimo fatale per te!
Ora non sei che:
“Una Croce,
una Croce sul monte,
che dura nel turbine e tace!”
[continua]
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