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Le stelle nella stanza
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In copertina: fotografia dell’autore
Prefazione
Bruno Longanesi, con questo nuovo libro che rappresenta l’ulteriore gemma da aggiungere alla sua opera letteraria, offre una narrazione pervasa di profonda umanità e costantemente irrorata con la sua estrema sensibilità, capace di cogliere le più labili percezioni e di indagare nell’imo dell’animo, nelle zone più segrete e celate.
Nel dispiegarsi del percorso, partendo da alcune vicende collegate al suo immenso amore per la montagna e, in una visione cosmica, per la Natura che avvolge l’Uomo, pagina dopo pagina, inserisce racconti che esaltano il concetto dell’amore, nel suo significato più autentico, e, ancor più, alimentano la sua visione della vita, profondamente sentita, intimamente vissuta, umanamente amata e sofferta.
Bruno Longanesi dimostra di essere “scrittore dell’anima”, sempre bravo a raccontare, anzi, direi quasi ad affabulare, con le sue narrazioni multiformi che si miscelano ed intersecano in un meraviglioso “racconto della vita”.
Bruno Longanesi scrive con il cuore e, in alcune pagine, pare di sentire il sangue pulsante dello scrittore che mette in gioco tutto se stesso, che si pone, senza artifici e false maschere, davanti al lettore e lo ammalia, coinvolge ed affascina.
Si avverte il desiderio dell’Autore di voler scrivere tutto ciò che nella sua mente diventa importante e merita di essere fatto conoscere al lettore: in alcuni casi, ma questo è il suo vizio primigenio, che ben conosco, tende a divagare con riferimenti e riflessioni che sgorgano inarrestabili dalla sua fonte esistenziale.
“Le stelle nella stanza” rappresenta fedelmente il mare magnum emozionale e memoriale di un uomo che, all’età di ottantotto anni, offre in dono la collezione di ricordi legati a persone conosciute, a vicende ed avvenimenti, accaduti o ascoltati nella sua dinamica, direi avventurosa, vita: e Lui, di esperienza per raccontare e raccontarsi ne ha da vendere.
Il viaggio dell’animo in questo oceano memoriale ha inizio dal meraviglioso scenario del massiccio del Monte Rosa, luogo che l’ha affascinato fin da quando lo vide la prima volta, ammaliato dalla sua misteriosa potenza, estasiato davanti a quel capolavoro del Creato.
Il ricordo conduce la mente a quel giorno in cui arrivò, con una vecchia corriera, a Gressoney la Trinitè e, ad aspettarlo, c’era Carlo con il suo inseparabile mulo, per condurlo al sentiero sassoso tracciato dai montanari, a fianco della chiesa, che conduceva alla famosa Villa Rosa, un tempo signorile casa di montagna dei conti Peccoz e che, dopo la guerra, era diventata un ostello, un albergo per i giovani.
Ed ora che Bruno Longanesi sta ritornando in quel luogo con la sua bella macchina dotata di ogni comfort, rivede le sue montagne che sono state tremendamente modificate dall’uomo: alberghi che deturpano la visione, negozi modernissimi, nuovi impianti di risalita, parcheggi enormi che inficiano la “pura bellezza” di quei luoghi e sono un atto sacrilego che si esprime con il tremendo rumore e vociare, a differenza del silenzio che regnava al tempo della sua gioventù.
L’unico modo che lui ha per ribellarsi a questa modernità che ha stravolto l’antico paesaggio è scrivere e rievocare le emozioni, far riaffiorare i ricordi come in un viaggio a ritroso nel tempo: e nulla importa che il famoso ostello Villa Rosa, il rifugio per “sognatori romantici”, sia diventato un residence di lusso perché, nel suo cuore, è ancora vivo il ricordo di quel meraviglioso “scintillio” provocato dai raggi della luna, che si riflettevano sul ghiaccio delle pareti di quelle fredde stanze, facendo da specchio ed emettendo un “brillio” che creava l’idea di “tante piccole stelle splendenti che illuminavano le stanze”, generando uno spettacolo unico.
Ecco allora che le famose “stelle nella stanza” spiegano il titolo del libro e diventano il simbolo di quella “felicità” d’un tempo andato, ma che non s’è mai spenta, anzi, è ancora tremendamente viva e pulsante.
In altri racconti emerge ancora la passione per la montagna, per le scalate alle vette, per quel mondo dove “il vento sussurra” ed il silenzio è compagno di cordata: ecco emergere la figura di Oscar, la guida che gli insegnò i segreti della montagna ed il profondo amore per essa, fino a fondersi in una comunione naturale; la scalata del “Castore” con don Angelo, un giovane sacerdote e, ancora, il mitico dongiovanni Mario, ufficialmente gestore del rifugio Lys, ma, in realtà, corteggiatore di turiste straniere e rubacuori, senza dimenticare il giovane Stefano, costretto su una carrozzella, che viene portato sulla cima del “Corno dei Camosci”.
Nella seconda parte del libro, “Spruzzate di ricordi”, Bruno Longanesi richiama alla mente le numerose avventure vissute in alcuni luoghi delle sue molteplici esperienze professionali che lo hanno visto, per decenni, girovagare nel mondo.
Dallo scrigno memoriale emergono, come fuochi d’artificio, vicende legate a persone conosciute “ai piedi dell’Himalaya” negli anni Cinquanta; le famose notti di Baghdad dalle “mille e una notte” che si riveleranno, al contrario, semplici meste passeggiate e frequentazioni di locali a luci rosse con ingenue “danze del ventre”; in seguito, la vicenda dai risvolti divertenti avvenuta in India, nella dogana dell’aeroporto di New Delhi, causata dalla “strana polverina bianca”, nient’altro che la famosa “Magnesia San Pellegrino”; e, poi, lo struggente ricordo di Leopoldina, chiamata affettuosamente Garisenda, il nome di una delle due torri di Bologna, alla quale era legato, fin dall’infanzia, da una fraterna amicizia, che avrebbe potuto essere “grande amore” con l’aiuto benevolo del destino: ma il fato li allontanò “sempre”.
Nella simbolica valigia dei ricordi sono custoditi altri racconti sempre pervasi di profonda umanità e uniti dal filo conduttore che è l’amore, nelle sue molteplici manifestazioni: l’amore di un padre per la figlia che implicherà grande dolore; l’amore fraterno tra Leonhard ed il gemello Arnold che pareva dissolto e, durante una scalata in montagna, viene ritrovato; e, infine, voglio ricordare anche l’immenso amore tra una donna e un uomo, che viene negato a causa del “pregiudizio” che sovente avvelena il cuore dell’essere umano.
Il libro si chiude con l’affettuoso ricordo del cugino Leopoldo Longanesi, conosciuto come Leo, famoso scrittore e giornalista, disegnatore e pubblicitario, autentico intellettuale che ha spaziato in ogni campo delle attività letterarie ed artistiche.
Il ricordo di Bruno Longanesi fa rivivere l’immagine di un uomo dallo “spirito bizzarro” e scontroso, sovente lunatico e corrosivo, sempre pronto a lanciare frecciate avvelenate con il suo “ironico sarcasmo” eppure dimostratosi, nel corso della sua vita, un uomo sincero e assai generoso proprio con coloro che lo dimenticarono “presto”.
Massimo Barile
Le stelle nella stanza
“Signore misericordioso,
una grazie ti chiedo:
finché ti piace lasciarmi in vita,
fammi camminare fra le mie montagne…”
(Manara Valgimigli)
È iniziato da poco un nuovo millennio: data precisa se riportata ai nostri calendari, ma punto di riferimento astratto se valutato alla realtà dell’esistenza umana, avvolta nell’infinito dei tempi e dello spazio cosmico.
Pure nel tempo sono avvolte, come meraviglioso scenario del Creato, queste montagne del Monte Rosa che, da milioni e milioni di anni, assistono imperturbabili al susseguirsi degli eventi umani: nei giorni, nei mesi, nelle stagioni, negli anni.
Tante, tante cose cambiano al loro cospetto, e loro restano impassibili.
Anche per me sono cambiate molte cose in quei luoghi, ma non ho saputo restare indifferente e insensibile a questi mutamenti.
Il mio spirito si è ribellato!
Parte Prima
Il “nuovo paesaggio”
Gressoney la Trinitè è lì davanti a me.
Dopo una serie di curve e di tornanti, che iniziano a Gressoney Saint Jean attraversando piccolissimi centri abitati come Dresal, Parletoa e Castel, improvvisamente appaiono il campanile della Chiesa e il poderoso edificio dell’ex albergo Busca, incastonati in uno scenario che ha, come sfondo, la parte meridionale del massiccio del Monte Rosa.
Un panorama a me familiare da oltre sessant’anni.
Questo fondale, questo quadro della natura, mi incuriosisce, mi affascina sempre e mi seduce come la prima volta che lo vidi.
La distribuzione di cime, viste da diverse angolazioni; la veduta meravigliosa di ghiacciai cristallini che nascondono seracchi, crepacci dai colori variegati e abbaglianti; le torri e le voragini, danno un rilievo maestoso, imponente, solenne, a questo sterminato palcoscenico naturale!
Questo imponente, grandioso muro, come appare il “Monte Rosa” a chi proviene da Pont S. Martin, eccita la mente per la sua misteriosa potenza e per la sua piacevole attrattiva.
È un invito lusinghiero, che affascina ed esalta sicuramente chi ama la montagna e sa che questo capolavoro del Creato, non può avere che un Regista, un Direttore di scena sovrumano, soprannaturale, altissimo e perfetto: Dio!
Ma ogni anno, purtroppo, cambia qualcosa del, proscenio.
L’uomo, interviene con presunzione di poter correggere il Creato!
Nascono, così, nuovi mastodontici alberghi e costruzioni abitative non sempre inserite con buon gusto nell’ambiente; vengono riproposti negozi moderni, si arricchisce il luogo di nuovi mezzi di risalita e nuovi parcheggi per far fronte ad un assalto irrefrenabile di persone.
Parcheggi enormi, con colonnine per acquistare il biglietto a tempo, che ti dà il diritto di poter sostare, pagando, ad ammirare il paesaggio, per un periodo calcolato.
Se la sosta si prolunga, beh! Paghi una multa!
Ma cosa hanno distrutto questi ampi “Parcheggi”?
I Parking (anche le parole vanno cambiate!) di oggi, una volta erano sconfinati prati, immense distese di verde che, in primavera e in estate, si trasformavano in giardini di fiori multicolori.
Era una visione fresca, riposante e serena.
Questa fioritura, ben curata, poteva essere considerata un gentile bouquet che la terra esibiva ed offriva al candore dei ghiacciai i quali, a loro volta, con la loro bianchezza lucente, si tramutavano in veri e propri veli sponsali sulle cime del Monte Rosa!
Erano stati predisposti dalla Natura e curati dall’uomo!
Ora è solo un agglomerato di auto, anche loro multicolori se vogliamo, ma con quanto più squallore, desolazione, con quanta meno poesia.
Prima erano prati silenziosi, pieni di bellezza poetica, ora invece sono un ammasso di lamiere, un luogo risuonante di grida, canti, clakcson, trombe, sirene in un assordante e rimbombante clamore che ricorda le fiere e i luna park di paese.
Tale dissonante pacchianeria non può integrarsi con la pura bellezza e l’ordine operante in quell’Universo creato per il silenzio!
Non voglio fare considerazioni che porterebbero lontano il discorso.
Voglio solo inserire una nota riflessiva, personalissima.
Questa modifica d’ambiente, la trasformazione, la distruzione di una natura incontaminata è, per me, una pugnalata ai miei primi ricordi legati a quell’idilliaco tappeto floreale che sembrava messo apposta, come regale pedana, prima di accedere a quelle vette.
Ti accingevi ad entrare in quel mondo misterioso dei ghiacci in punta di piedi, acquistavi cognizione del rispetto che si deve a quelle cime, imparavi a venerare la montagna, perché io ho sempre creduto che le grandi montagne aumentassero il valore degli uomini che le salgono, altrimenti non sarebbero che un cumulo di sassi!
Così sognavo quand’ero giovane!
Ora ho la consapevolezza di sbagliare, inserito come sono anch’io nel mondo attuale.
So che la mia era un’illusione, una speranza vana, un sogno utopistico, un inutile egoismo, uno sfrenato amore per questi luoghi, ma avrei preferito che non fossero stati mai profanati così selvaggiamente come lo sono ora.
Adesso è subentrato un diverso regista in questo naturale palcoscenico: l’uomo, non il singolo individuo come allora, ma la folla vociante.
Avevo certe teorie sull’amore che il vero alpinista nutriva verso la montagna: un amore idealizzato, incondizionato, esclusivo, quasi personalizzato.
E, mi sia concessa, in questa relazione includevo anche la gelosia quel sentimento che non ammette interferenze nel possesso
È stato rimpiazzato dall’agglomerato, dalla moltitudine, dalla massa, una turba, oserei definire, questa folla, uno, sciame!
Queste teorie mi costringono a considerare il nuovo rapporto uomo-montagna nella maniera di certe situazioni sentimentali fra esseri umani con la soluzione, dell’amore di gruppo!
Mi rendo conto che sto sbagliando perché questa è la logica conseguenza di una evoluzione dei tempi, ma credo di aver diritto di difendere quei valori e quegli ideali che, da giovane, sapevamo rendere fantastici.
Per questi ideali, per i quali ho speso l’energia, l’esuberanza, l’entusiasmo e il mio fervore in quella meravigliosa età che è la giovinezza.
L’età dei sogni che vorresti realizzare da adulto, l’età dei miraggi, delle lusinghe, delle fantasie, della bizzarra creatività, del mondo incantevole che si aspetta un ragazzo.
Purtroppo, l’incalzare del tempo, che scorre sempre in avanti, porta a dover affrontare la realtà della vita e, il ragazzo spensierato di ieri, è venuto a trovarsi proiettato, come adulto, in un contesto sociale che, spesso, non corrisponde ai giovanili desideri, e scopre un mondo di rimpianti, di rammarichi e di sogni irrealizzati che si traducono in nostalgici, malinconici e dolorosi struggimenti.
Mi resta una consolazione: grazie alla mia giovinezza e al mio entusiasmo di allora, ho potuto salire lassù e realizzare il mio sogno.
Sono arrivato a Gressoney La Trinitè, per soggiornare qualche giorno, non con il mezzo di trasporto di allora: una scassatissima corriera di linea che si fermava ad ogni richiesta del cliente.
Ora, sono arrivato in una comoda e lussuosa automobile, con aria condizionata, lo stereo che rilassa con le musiche desiderate: basta schiacciare un bottone.
Airbag per la sicurezza, tendine contro il sole, telefono con viva voce.
Mi ha portato alla meta, addirittura, il navigatore di bordo.
Con la sua voce monotona mi ha consigliato: “dopo cento metri svolta a destra, nella rotonda (la rotonda! Cos’è questa novità?) seconda strada a destra…” e, alla fine, “Sei arrivato alla destinazione. Sei a Gressoney…”
(Non puoi nemmeno ringraziarlo perché, quello, non ti sente)
Quella strada la conoscevo metro per metro e ora questo strumento me l’insegna!
Sono arrivato, cerco e trovo un comodo albergo, con portieri, una lussuosa reception, un accogliente bar.
La stanza riservata è ampia e luminosa, riscaldata a tuo piacimento: anche qui basta girare una piccola apparecchiatura e si ha la temperatura voluta.
Le pareti sono ben tappezzate da quadri che rappresentano scene eroiche di alpinismo di altri tempi (ti sembra siano passati dei secoli, ma erano tuoi coetanei quegli uomini impegnati in ripide scalate!).
Tende e tapparelle a comando di pulsanti, ti permettono di vedere un’alba e un tramonto standotene tranquillamente sdraiato a letto, fumandoti una sigaretta.
Divani, poltrone, cuscini, televisione, citofoni, frigobar, doccia, vasche a massaggi vibranti, computer ed altre comodità, completano il confort.
Cartelli, in ogni angolo, ti invitano a lasciare gli scarponi in deposito e ti fanno trovare delicate, soffici, morbide e silenziose pantofole felpate.
Per i corridoi bisogna camminare con passi attutiti (dove sono andati a finire quei bei scarponi, a quattordici chiodi, che facevano rimbombare il piancito di legno e ti facevano sentire che eri un “uomo di montagna”?).
Respingo queste comodità? Le condanno?
No! Non posso e non voglio!
Ed è qui il mio rammarico!
Questo è il mio rimpianto, ma anche il mio disappunto!
Sento che ormai hanno vinto loro e fanno parte della mia vita, ma dentro, dentro resta sempre un tarlo, una struggente nostalgia, un irresistibile desiderio di cose genuine e semplici sparite definitivamente nel tempo.
Così mi arrendo, accondiscendo al progresso che è stato più forte degli ideali e che ha imposto le sue leggi.
Comprendo che non ci si ribella al progresso che deve avanzare, ma io posso mantenere nella mia mente i ricordi, quello sì mi è permesso, e i ricordi mi fanno compagnia, si ripropongono nella loro genuinità e, ogni tanto, mi sussurrano: ribellati!
No! Ripeto: questo non è possibile!
Al massimo, al massimo posso riproporli alla mente, rievocarli, approvarli, e lo faccio volentieri; rimpiangerli non solo col pensiero, ma anche con gli scritti!
È questa la mia, vendetta!
Guardo il cronometro (c’è di tutto: data, lunazioni, temperatura, sveglia, memoria, sì, c’è anche, l’ora!).
La giornata mi riserva ancora qualche ora di luce naturale e ammiro il sole che sta scendendo dietro la Testa grigia.
Attraverso la piazza (come mi sembra diventata piccola!) e mi dirigo verso la Chiesa.
Anche quella, è sempre la stessa: ridotta e severa come si deve a un piccolo paese sperduto nella vallata del Lys.
I soliti quadri alle pareti: “Santi” particolarmente venerati nella zona.
È un ambiente austero che invita alla meditazione e impone alla mente di riflettere sopra alcune cose con particolare attenzione.
La penombra del crepuscolo stimola la concentrazione e il raccoglimento.
Mi attira subito, quel luogo appartato, vicino alla navata principale.
Quanta tristezza mi procurava in gioventù!
È il punto più buio della Chiesa, il più raccolto e fa riandare subito il pensiero a certi avvenimenti gravi di tragicità legati a quell’angolo, in quel preciso punto venivano posti i catafalchi che sarebbero serviti per deporre le bare delle vittime della montagna.
Era un mesto cerimoniale: lì avveniva il riconoscimento delle salme da parte dei parenti e lì veniva dedicata a loro l’ultima preghiera che era sommessamente recitata dall’officiante, in maniera molto tenera e affettiva quasi come fosse un bisbiglio del vento delle cime, perché il vento, sì, il vento, quando non è arrabbiato, sapeva sussurrare dolcemente a quelle giovani vite spezzate e trasmettere loro l’ultimo abbraccio del cielo e delle nuvole!
Quell’angolo era l’ultimo bivacco di arditi e sfortunati amanti, che avevano affrontato la montagna per conquistarla, e si erano accostati a lei per ammirare le sue misteriose bellezze e goderne l’esultanza e l’eccitazione spirituale che essa regalava.
Erano giovani dalle facce livide per la morte, quasi di cera, con gli occhi chiusi; quegli occhi che prima di morire avevano ammirato, per l’ultima volta le loro cime.
Era sincero amore il loro, non un cimento o una competizione!
Una breve cerimonia, una benedizione e poi questi sfortunati alpinisti lasciavano per sempre quella montagna, quasi con rimpianto, quasi con invidia, per i molti che erano rimasti insepolti, immersi nelle sue viscere, nei suoi crepacci, in un recondito sepolcro, avvinti, in un eterno amplesso all’amata, che li incorporava in sé, in un abbraccio pieno di ideale e mistica spiritualità!
Retorica? Enfasi?
Può essere!
Sta di fatto che la montagna è sempre là e aspetta i suoi corteggiatori!
Diminuiranno gli spasimanti, questo può accadere: le comodità moderne non facilitano la ricerca della fatica e dei pericoli, ma ci saranno sempre quelli che la desidereranno!
E moriranno, per Lei!
Ne vale la pena?
Chi se lo chiede non lo saprà mai!
Ma oggi quel sentiero che iniziava a fianco della Chiesa, dov’è?
Quella stretta carraia, sassosa, tracciata da tante generazioni di montanari e diretta verso quei ghiacciai che abbagliavano, attiravano e atterrivano l’uomo, è forse stata trasformata in questa strada asfaltata, a doppia corsia, con la segnaletica più avanzata, che ho davanti a me?
Sì, quel sentiero, ora, è una superstrada.
Lo riconosco quel viottolo, lo identifico da quel monolito alto un paio di centinaia di metri che gli sta a fianco (la Sgnifola) e che serviva a noi giovani come palestra d’allenamento nei giorni piovosi.
Io, quel sentiero, appena tracciato, l’ho sempre percorso a piedi in compagnia di Carlo e del suo inseparabile mulo.
Carlo!
Lo rivedo nella mente.
Che strano personaggio!
Io ho sempre pensato che la sua attività di mulattiere fosse stata tramandata dai suoi avi e iniziata un secolo prima, quando i primi esploratori inglesi scoprirono la bellezza del massiccio del Monte Rosa.
Ai miei tempi, come arrivavano le poche corriere nella piazza di Gressoney La Trinitè, Carlo era lì che aspettava i rari viaggiatori per portarli a destinazione nella parte alta della valle, lassù, fino alla frazione di Staffal.
Io ero un suo abituale cliente, da anni.
Carlo mi aspettava col suo mulo, entrambi imperturbabili.
La testa di Carlo era immersa in un ampio cappello a tesa larga; la testa del mulo, invece, era sempre introdotta in una sacca con la biada e si muoveva con il ritmo con cui la barbozza e la ganascia tritavano il foraggio.
Carlo non parlava italiano, conosceva solo il patois, il dialetto locale del Walser di origine tedesca e antichi abitanti della vallata.
Un saluto con la mano sulla tesa del cappello era tutto il suo cerimoniale, il suo benvenuto, il piacere di rivederti!
Sapeva dove ero diretto, non erano necessarie precisazioni.
La meta era Villa Rosa.
Caricava la mia valigia sul dorso del mulo e la assicurava con una fune.
Mi piaceva osservare con quanta abilità approntava i nodi per rendere stabile il bagaglio contro il continuo sussultare dello stesso per il terreno impervio e per le impennate, le scalpitate, le calcitrate del suo collaboratore.
Con parole mozzate, incitava il mulo a partire.
Il mulo con una ragliata, di discorde alternanza di toni (in patois?) sembrava dicesse: “Andiamo!”.
E partiva deciso.
Il padrone lo seguiva e io seguivo Carlo.
Per un paio d’ore avremmo camminato in fila indiana senza scambiarci una parola.
È proprio vero: la montagna insegna a contemplare i paesaggi e i monti sono maestri muti che creano discepoli silenziosi.
Carlo masticava continuamente un mozzicone di sigaro spento che toglieva solo per sputare frequentemente o, qualche volta, soffiarsi il naso.
I baffi, abbastanza voluminosi spioventi sulla bocca e poco curati erano diventati, col tempo e a contatto con il tabacco dello stesso colore: un biondo rossiccio in contrasto con i capelli di una tonalità molto più chiara.
Carlo aveva la stessa andatura del mulo, un sincronismo incredibile!
Spesse volte, curvi com’erano entrambi, ho immaginato di avere davanti a me un essere vivente a sei gambe!
Non vorrei offendere la sua memoria, ma oserei direi che la coabitazione prolungata, la confidenza, la dimestichezza, arriverei a dire la, familiarità col mulo, avevano creato una certa rassomiglianza pur mantenendo, logicamente, i tratti fondamentalmente umani.
Comunque, Carlo e il suo mulo, si assomigliavano, non c’è che dire!
Ci volevano due ore abbondanti per raggiungere la località Staffal e precisamente Villa Rosa, la mia destinazione abituale.
A metà strada una sosta prima di affrontare la ripida salita di Orsia.
In questo punto, Carlo, afferrava la coda del mulo e si faceva trainare.
Come segno di rispetto, prima invitava il cliente ad aggrapparsi alla coda dell’animale per rendere meno faticosa l’erta.
Chi aveva già esperimentato quel tragitto e quell’esperienza, rifiutava categoricamente il privilegio, memore di un fenomeno naturale e abituale del mulo.
Infatti, lo sforzo della salita, si manifestava inizialmente, con spernacchiate e dimenamenti di coda e successivamente, l’istinto gli suggeriva di dare sfogo, senza remore, a ciò che lo stimolo interno lo invitava a fare, sì, senza rispetto per i clienti, in mezzo alla strada, faceva certe cose con la più assoluta disinvoltura!
Adesso, nello stesso punto, ci sarebbero i vigili, col blocchetto, pronti per, multarlo.
Mi viene da ridere: multare Carlo e il suo mulo per irrispettoso comportamento pubblico!
Lo avrebbe fatto anche adesso, senza vergogna, di fonte ai vigili e ai… signori turisti!
Finita la salita, c’era un falsopiano prima di arrivare a Villa Rosa, e Carlo, a questo punto, si metteva davanti al suo mulo, quasi ad indicare al cliente che il padrone della situazione, da quel momento, era lui, non la bestia!
[continua]
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